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L’atto finale del divorzio all’inglese

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 E così sia. Dopo quattro anni di tensioni, a cui si è aggiunto l’effetto devastante di Covid-19, la Gran Bretagna esce dal mercato interno europeo e dall’unione doganale sulla base di un accordo di libero scambio con l’UE. E’ un accordo quadro – “Canada style” la definizione di Boris Johnson – che tutela con zero quote e zero tariffe un interscambio di beni pari a circa 700 miliardi di sterline all’anno.

Questa soluzione è migliore del “no deal”, della mancanza di qualsiasi intesa, sia per Londra che per l’Unione Europea: entrambe hanno infatti ceduto qualcosa per rendere possibile un compromesso. Dal 1° gennaio in poi, il Regno Unito cercherà di limitare i costi dei controlli alle frontiere e di negoziare un accordo successivo sui servizi, inclusi i servizi finanziari, che costituiscono una componente determinante dell’economia britannica. L’Unione Europea sorveglierà che il principio condiviso della “non regressione” dagli standard attuali (in materia ambientale, sociale, del lavoro e in materia di aiuti di Stato) sia osservato nei fatti.

Boris Johnson e Ursula von der Leyen

 

Per l’Europa resta vitale garantirsi che la Gran Bretagna post-Brexit non diventi progressivamente una “Singapore sul Tamigi”, un’area di deregulation competitiva. L’accordo è chiuso; ma si apre in realtà un negoziato quasi permanente fra Bruxelles e Londra. Le divergenze verranno regolate non dalla Corte di giustizia europea (linea rossa per i negoziatori britannici) ma da un panel arbitrale indipendente.

Gli ottimisti diranno che entrambe le parti hanno vinto. Boris Johnson è riuscito a portare a casa la Brexit e un accordo di partnership con Bruxelles che è stato ratificato a Westminster, il 30 dicembre, anche con il voto favorevole del Labour. Un premier dato quasi per finito, nelle scorse settimane, appare di nuovo in sella. L’Europa è rimasta coesa nel lungo e difficile negoziato con Londra, evitando che la prima uscita di un paese membro dall’Ue producesse l’avvio di una vera e propria disgregazione. E tutela, con l’accordo commerciale, il peso delle proprie esportazioni oltre Manica.

Si chiude così la parentesi della storia bilaterale cominciata nel 1973, con l’ingresso di Londra nella Comunità europea. E si torna alla norma: una Gran Bretagna collegata all’Europa ma non parte dell’Europa (“We are with Europe but not of it”), per usare la celebre distinzione di Churchill.

E’ tuttavia difficile considerarla una vittoria vera. Brexit rischia piuttosto di produrre problemi su entrambi i lati della Manica. Per la Gran Bretagna i costi della propria ambizione solitaria saranno notevoli: secondo l’Ufficio del bilancio britannico, l’uscita dal mercato unico significherà la perdita potenziale del 4% del PIL. Mentre non è affatto certo che il recupero di sovranità da Bruxelles produrrà la Gran Bretagna “globale” teorizzata da Boris Johnson.

L’America, relazione preferenziale per Londra, sarà con Joe Biden meno disponibile di quanto non sia stato Trump verso i cugini britannici. E il contesto mondiale è assai poco adatto ad accogliere l’hub commerciale globale che Londra si illude di diventare; il confronto acceso fra Washington e Pechino impedirà alla Gran Bretagna di potere avvalersi di una sponda cinese. Attraverso la NATO, Londra resterà un alleato decisivo del mondo euro-atlantico. Ma difficilmente potrà esercitare tutto il peso a cui aspira. Gli inglesi “riprendono il controllo” del proprio destino, secondo lo slogan di Brexit: ma rischiano che si verifichi, al posto della “greater Britain”, lo scenario deprimente e duro di una “little England”. In particolare se aumenteranno, come risultato di Brexit, le pulsioni indipendentistiche della Scozia.

Per l’Unione Europea si tratta della prima secessione volontaria dal proprio progetto di integrazione. Comunque la si metta, è uno strappo doloroso. Bruxelles ha cercato soprattutto di limitare i danni e di evitare un effetto contagio. Per ora è riuscita a farlo. Comincia una storia continentale forse più coesa, come ha dimostrato l’approvazione di “Next Generation EU”, il fondo europeo per la ripresa post-Covid che sarebbe stato difficile conseguire nella sua forma attuale con la Gran Bretagna ancora membro dell’UE.

Ma la separazione forzata da Londra segna anche un distacco psicologico e culturale, di cui è simbolo l’uscita britannica da Erasmus. E modifica gli equilibri geopolitici interni al Vecchio Continente, rafforzando la centralità di Germania e Francia rispetto agli altri membri del club europeo. Sul piano militare, l’Europa perde una potenza essenziale, con capacità nucleari e un seggio al Consiglio di Sicurezza. Il rischio, per l’Italia in particolare, è che lo schema di concertazioni a tre sulla sicurezza – Gran Bretagna, Francia e Germania – diventi la nuova regola, dopo avere fatto le sue prove con l’accordo nucleare sull’Iran.

Si vedrà nei prossimi mesi se l’accordo raggiunto in extremis riuscirà a ricostruire la fiducia fra le due parti della Manica. Permettendo una serie di accordi settoriali ulteriori – dopo quelli già raggiunti in questi mesi sulla sicurezza interna, il trasporto aereo e la cooperazione in materia ambientale. O quanto invece peserà il risentimento reciproco accumulato dal 2016 in poi. E’ onestamente difficile brindare a un divorzio, per quanto con un esito consensuale.