international analysis and commentary

L’America che si divide (di nuovo) sull’interventismo

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In un articolo di undici anni fa, dal titolo “Promoting the National Interest”, Condoleezza Rice  muoveva critiche aspre all’intervento in Kosovo, poiché in esso non era chiaro l’interesse in gioco per gli Stati Uniti. Ignari di ciò che sarebbe accaduto il settembre dell’anno dopo, i repubblicani puntavano la barra con decisione verso una politica assai meno interventista di quella dell’amministrazione Clinton.

A molti anni di distanza, in un nuovo decennio, ci troviamo più o meno nella stessa condizione, con i repubblicani a chiedersi – nella maggior parte dei casi – “cui prodest?” a proposito di un intervento umanitario voluto da un’altra amministrazione democratica. Lo scenario, gli interpreti e le posizioni non sono certo le stesse (rispetto alla Libia abbiamo ascoltato in queste settimane alcuni repubblicani che esprimevano posizioni da “falchi”), ma le analogie saltano agli occhi. Dopo la guerra fredda è stato testato – in modo più o meno timido, contradditorio e continuo – un ventaglio di dottrine (di respiro corto o lungo che fossero) chiaramente “interventiste”. Come tradizione, il riflesso neo-isolazionista non ha mai esitato ad emergere contro questi interventi (tranne che nei primi anni post-11 settembre), e lo stesso è accaduto con il primo conflitto internazionale al 100% obamiano. Le reazione politiche negative – repubblicane ma anche democratiche – sono arrivate soprattutto dal Congresso e dai potenziali candidati alle primarie 2012 del Grand Old Party.

Va detto che con il discorso di Obama sulla Libia di lunedì 28 marzo la Casa Bianca è riuscita, con sapienza, a spostare l’attenzione degli esperti e dei commentatori: si discute ora se quel discorso possa essere considerato una vera e propria “dottrina” di politica estera. Nell’intervento presidenziale hanno fatto la parte del leone le precondizioni: questo intervento era possibile solo perché: a) c’era pieno supporto della comunità internazionale; b) sono in gioco interessi e valori americani; c) c’è il sostegno di attori regionali; d) si presenta una chiara ed evidente emergenza umanitaria, dichiarata in primis dalle stesse popolazioni locali. Troppi elementi da far convergere in un’alchimia magica, perché si possa parlare di una dottrina gridata al vento, forte e chiara: in sostanza, come ha scritto Philip Gourevitch del New Yorker, più una “posture” – un atteggiamento complessivo – che una vera strategia politica.

Questo non toglie che, all’interno dell’amministrazione, l’anima degli interventisti di matrice liberale abbia prevalso. Un’anima alla quale si oppongono molti repubblicani (che pure non esprimono una posizione univoca, tutt’altro), utilizzando spesso parole simili a quelle espresse più di dieci anni fa a proposito del Kosovo: “dov’è il nostro interesse nazionale?”. Nel frattempo, però, sono cambiate alcune cose. Intanto, la polarizzazione ideologica è divenuta la cifra più evidente attraverso la quale leggere il confronto politico americano, e di conseguenza il linguaggio si è fatto estremamente più duro e diretto: l’isolazionismo senza compromessi che alla fine degli anni Novanta era tipico solo di un think tank sui generis come il Cato Institute, è divenuto il verbo di un folto gruppo di Congressmen e policy makers repubblicani, come Rand Paul e alcuni freshmen vicini al Tea Party. Nel corso di questi anni, inoltre, il grado di sfiducia e ostilità verso le organizzazioni internazionali è ulteriormente aumentato, soprattutto dopo lo scontro sull’Iraq del 2003: l’idea che il presidente leghi in modo così sostanziale l’intervento americano a una risoluzione ONU è di per sè ragione di critiche asprissime.

Un esempio viene dalla dichiarazione rilasciata dalla deputata Ileana Ros-Lehtinen, che presiede l’House Foreign Affairs Committee. Sebbene si tratti di una figura relativamente poco influente, le sue parole ci danno un’idea chiara del pensiero del deputato medio repubblicano, che chiede al presidente di “clearly define for the American people what vital United States security interests he believes are currently at stake in Libya.” E aggiunge: “Deferring to the United Nations and calling on our military personnel to enforce the ‘writ of the international community’ sets a dangerous precedent” .

Inoltre la politica estera – come ben dimostrano gli stessi governi e capi di stato europei – è sempre più vittima della contingenza politica. È uno strumento utilizzato per riposizionamenti tattici di breve periodo, in particolare in prossimità degli appuntamenti elettorali. Per l’occasione questo vale soprattutto per i candidati repubblicani alle primarie – i quali già ora si apprestano a confrontarsi nei dibattiti che precedono le elezioni interne – piuttosto che per il presidente. Ma questo vale anche per i Congressmen, che devono presentarsi davanti agli elettori tra poco più di un anno: l’umore isolazionista del paese (tipico delle fasi di crisi economica) attraversa con decisione il Congresso, anche tra i democratici. Per il mancato coinvolgimento del Congresso in questa iniziativa sono arrivate critiche da parte di Harry Reid, leader dei democratici del Senato, e da Richard Lugar, un veterano – e moderato – repubblicano, da sempre ben disposto verso iniziative bipartisan in politica estera.

Gli undici candidati alle primarie del GOP sono, ovviamente, su posizioni di ferma critica rispetto alle strategie dell’amministrazione, ma esprimono posizioni molto diverse. Posizioni che hanno mutato forma nel corso dei giorni, ridimensionando la voce dei “falchi” (Romney, Santorum e Pawlenty) dopo che gli USA sono intervenuti direttamente nel conflitto (la critica si è quindi spostata sulle modalità di gestione delle operazioni). Michele Bachmann, eroina del Tea Party e alter ego di Sarah Palin, sostiene che lei non sarebbe mai intervenuta, e che gli USA non posseggono adeguate informazioni di intelligence a proposito dei ribelli che starebbero appoggiando. “Quanti membri di al Qaeda ne fanno parte?”, si chiede la Bachmann.

Newt Gingrich, la stella del partito repubblicano negli anni Novanta, si è contraddetto un paio di volte, finendo con l’incolpare l’amministrazione di “adeguarsi” alle strategie europee. Haley Barbour, governatore del Mississippi, tende a trattare il tema solo se costretto. E questo solo per citarne alcuni.

Sebbene anche nel campo democratico e nell’amministrazione stessa esistano incertezze evidenti, la competizione interna al partito repubblicano – dovuta all’approssimarsi delle primarie – amplifica l’impressione di un coro che non riesce a creare armonia quando si tratta di questioni legate alla politica estera. I repubblicani sperano probabilmente che le tematiche internazionali restino lontane dal dibattito elettorale del 2012. Al di fuori dalla battaglia contro il “tax and spend” il terreno si fa scivoloso: non a caso si esprime molto poco e senza una voce univoca anche la gente del Tea Party. Una delle sue più importanti organizzazioni, FreedomWorks, è del tutto afona in tema di Libia, se non per alcuni dei suoi blogger che puntano il dito sul tradimento della Costituzione (per via del mancato coinvolgimento del Congresso, l’unica istituzione americana legittimata a dichiarare guerra): “President Obama is clearly stating that the approval of a few European nations, the United Nations, and the Arab League, is more important than upholding the Constitution of the United States”. Paradosso dei paradossi, la celebre etichetta della “Freedom Agenda” utilizzata da George W. Bush – che sintetizzava la dottrina di diffusione della democrazia all’estero – è oggi uno slogan di FreedomWorks che declina esclusivamente temi di politica interna. E sarà proprio su quest’ultima che gli oppositori dell’amministrazione cercheranno in ogni modo di scontrarsi con il presidente Obama.