L’altra America e le presidenziali USA: Messico e Centroamerica
C’è un grande tema internazionale che è paradossalmente poco presente nel dibattito pubblico sulla politica estera statunitense: l’America Latina e gli enormi cambiamenti intervenuti almeno dal 2001 occupano scarso spazio. Più in particolare, stupisce l’assenza delle questioni relative al Centroamerica.
Volendo fare un parallelismo (per quanto forzato), è come se dopo la caduta del Muro di Berlino l’Europa non avesse messo al centro le questioni del suo Est. Ai primi di febbraio l’unico riferimento al Messico nel programma del favorito per la nomination repubblicana, Mitt Romney, era un vago: “rafforzare la cooperazione”.
L’attenzione c’è solo per tre questioni: Cuba, l’immigrazione, il narcotraffico – e magari per le frizioni ideologiche con il Venezuela o l’Ecuador, dettate più da retorica nazionalista che da conflitti reali. I temi centrali di cui si discute negli Stati Uniti riguardano dunque i Paesi più vicini, legati da confini e da un flusso costante di persone, merci, rimesse e droga.
Il legame con il Messico, in particolare, è clamoroso: un sesto della popolazione del Paese ha parenti negli States, quasi un quinto della forza lavoro messicana lavora oltre la frontiera e mezzo milione di pensionati statunitensi risiedono a Sud di essa. Le rimesse messicane pesano sul Pil del Paese per 25 miliardi di dollari l’anno.
Anche per il resto dei Paesi dell’area, comunque, i numeri parlano di un quinto dei nativi emigrati negli Usa e di rimesse che valgono più degli investimenti esteri.
Il problema delle relazioni con questa regione è quello dell’eccessivo peso della politica interna da entrambi i lati della frontiera. Un esempio perfetto lo abbiamo avuto nella discussione sulle relazioni con Cuba e il Messico nei giorni che hanno preceduto le primarie repubblicane in Florida. Quando si parla dell’isola caraibica, per i repubblicani in campagna elettorale il problema è apparire “duri”. La ragione di tanta intransigenza è la ricerca del consenso degli esuli e dei nostalgici conservatori della guerra fredda. L’unico fuori dal coro è il realista (in questo caso) Ron Paul, che a domande su Cuba ha sempre risposto: “Non siamo nel 1963”.
Una linea politica diversa è quella perseguita dal presidente Obama. Già come candidato alle primarie del 2008, pubblicò un articolo sul Miami Herald in cui si rivolgeva alle nuove generazioni di cubani, desiderosi di poter visitare l’isola e meno presi dai rancori del passato. Da presidente, Obama ha effettivamente seguito una strada di caute aperture: più viaggi, maggiore possibilità di spedire merci e regali ai parenti sull’isola e qualche concessione sul fronte commerciale. Grazie a queste ultime gli Stati Uniti esportano oggi alcuni milioni di derrate alimentari e prodotti agricoli. Dal marzo di quest’anno riprenderanno anche, sebbene in forma molto limitata, i voli tra i due Paesi: solo per ragioni di studio o culturali. L’occasione per il primo volo sarà la visita di Benedetto XVI.
A dire il vero, lo scontro ideologico attorno a Cuba è determinato soprattutto dalla Florida e dalla sua importanza nelle primarie e nelle elezioni generali. Molti repubblicani e diversi gruppi economici non sono contrari ad assumere posizioni più aperte e in Congresso alcune iniziative legislative sono state prese. Ma il tema entra di prepotenza nel dibattito elettorale in Florida, dove i toni sono molto meno pragmatici.
Il Messico, così come il resto del Centroamerica, è un partner cruciale per Washington. Dalla frontiera passano milioni di camion all’anno e il Messico è uno dei primi fornitori di petrolio per gli Usa. L’80% delle esportazioni messicane sono dirette proprio negli Stati Uniti, mentre il delle esportazioni americane sono dirette in Messico.
Eppure, solo immigrazione e narcotraffico entrano nel dibattito politico. Anche in questo caso le dinamiche elettorali impediscono un confronto pacato. Si pensi al cambiamento di atteggiamento del senatore McCain, eletto in Arizona. Durante la presidenza di George W. Bush e con il pieno consenso del presidente, McCain aveva provato a redigere una riforma dell’immigrazione bipartisan assieme al senatore Ted Kennedy. La legge venne abbandonata per mancanza dei consensi sufficenti in Congresso. Nel 2010, incalzato dai Tea Party, McCain adottò invece un tono molto più aggressivo.
Durante le primarie republicane in Florida, abbiamo assistito ad uno slalom simile anche se sviluppatosi in direzione opposta. Il vincitore Mitt Romney ha dovuto moderare la propria posizione incalzato da Newt Gingrich, che tentava di soffiargli i consensi latinos, e pressato dall’ex governatore Jeb Bush e dal senatore Marco Rubio. Entrambi hanno sostenuto che toni troppo drastici sull’immigrazione avrebbero fatto perdere consensi tra gli ispanici – determinanti nel Sunshine State e in altri Stati potenzialmente competitivi alle presidenziali come New Mexico, Colorado e Arizona.
Naturalmente, l’immigrazione e il trattamento degli immigrati centroamericani sono motivo di frizione tra Washington e i governi di quei Paesi, ma entrano anche in modo diretto nella politica locale, visto il peso spesso decisivo degli emigranti nel voto locale.
In materia l’amministrazione Obama è stata cauta, rinunciando alla strada della riforma generale nonostante qualche promessa elettorale. Ha invece lanciato un segnale con il DREAM ACT, che prospetta un percorso per chi è arrivato molto giovane negli Usa, studia al college o si addestra nelle Forze Armate. I latinos sono una base sulla quale il presidente ha molto puntato e punta per il 2012.
La frontiera Sud sarà quindi, in un modo o nell’altro, un tema di discussione, ma rischia soprattutto di diventare una ragione di crisi tra Messico e Stati Uniti, poichè alcuni Stati hanno adottato leggi estremamente restrittive in materia di immigrazione illegale o pianificano di farlo.
Anche la questione del narcotraffico dimostra come la politica interna contribuisca ad alimentare dispute internazionali. Nel febbraio 2011, il presidente Felipe Calderon tuonò in un’intervista contro lo scarso impegno e l’inefficienza degli Stati Uniti contro il traffico di droga. Alla crisi seguì un vertice e un maggiore impegno di Washington concretizzatosi nel rilancio della Merida Initiative del 2008 – programma di aiuto ai Paesi centroamericani per il sostegno nella guerra al narcotraffico, a cui dal 2010 si aggiungono interventi per colpire le cause sociali dei fenomeni.
Cartelli della droga e bande giovanili sono una questione molto sentita da entrambi i lati della frontiera. Gli Usa sono il mercato delle sostanze stupefacenti commerciate dai narcos, e molti giovani latinos passano per la carceri del nord prima di tornare a casa e fare da contatto o esportare modelli criminali. Una quantità cospicua di armi, poi, viaggia in direzione nord-sud, contribuendo così alla carneficina che si perpetra in Messico: i morti sono 50mila negli ultimi cinque anni. Il tema è ovviamente delicato, e l’amministrazione Obama ha fatto dei passi quali l’invio di droni a caccia di informazioni sui movimenti di droga e una riclassificazione dei cartelli di narcos come organizzazioni transnazionali; su richiesta del governo messicano, esiste ora una qualche forma di controllo federale sulle armi automatiche e semi-automatiche vendute negli Stati di confine. L’accento, insomma, si sposta dalla lotta alla droga a quella contro organizzazioni che con la loro forza stano seriamente mettendo in crisi il sistema istituzionale messicano. L’eccesso di visibilità statunitense in termini militari in tutto il Centroamerica rischia però di essere un boomerang e un ottimo strumento di propaganda politica interna.
Lo stesso ambasciatore di Washington a Città del Messico ha dichiarato al quotidiano La Jornada, nei primi giorni del 2012, che questo sarà un anno difficile per le relazioni tra i due Paesi. Anche in Messico infatti si vota per le presidenziali ,e l’inestricabile legame che c’è tra i due lati della frontiera è destinato a produrre ulteriori polemiche.