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L’accordo Cina-Vaticano: un risultato positivo, ma transitorio e vulnerabile

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Nello storico accordo fra Cina e Vaticano sulle nomine dei vescovi vi sono elementi positivi, negativi e ambigui. L’ambiguità dipende dal fatto che il testo dell’accordo è sconosciuto e né la Cina, né il Vaticano hanno intenzione di pubblicarlo.

Il primo elemento positivo del testo sottoscritto il 22 settembre – sottolineato da Papa Francesco che ha detto: “I vescovi li nomino io” – è che d’ora in poi il Pontefice entra nel meccanismo di nomina e di ordinazione dei vescovi cinesi. Questo, almeno come idea, significa la fine della Chiesa “indipendente” tanto sbandierata da Pechino in tutti questi anni, e il riconoscimento che il legame col Papa è necessario anche a un vescovo cinese per esercitare il suo ministero. Secondo l’accordo non sarà più possibile nominare e ordinare un vescovo senza il mandato papale, anche se il potere esecutivo, o l’Associazione Patriottica (istituzione creata dal governo di Pechino nel 1957 con lo scopo di controllare le attività dei cattolici in Cina), o il Consiglio dei vescovi cinesi potranno proporre il loro candidato. In mancanza del testo, però, non si capisce ancora se il papa avrebbe potere permanente di veto o se – come era previsto in una bozza – Pechino potrebbe procedere comunque all’elezione del vescovo se trovasse inconsistenti le ragioni di un rifiuto del Papa.

Xi Jinping e Francesco I

Tuttavia, il giorno dopo l’accordo, l’Associazione Patriottica e il Consiglio dei vescovi cinesi hanno pubblicato una dichiarazione in cui confermano che essi continueranno a lavorare “in maniera indipendente”(da Roma) e sottomessi di fatto al Partito comunista cinese. In più, alcuni giorni dopo, l’ex direttore dell’amministrazione statale per gli Affari religiosi ha comunicato di voler inviare due vescovi al Sinodo sui giovani: una novità, perché nel 1998 e nel 2005 Pechino non ha permesso ad alcun vescovo di parteciparvi. I critici fanno notare che il fatto stesso di concedere l’invio, prima dell’invito del Papa, rappresenta un’affermazione del potere dell’Associazione Patriottica sui prelati cinesi.

Un altro elemento positivo è la cancellazione della scomunica a sette vescovi, ordinati senza mandato papale dal 2000 fino al 2012. In via di principio questo aiuterà i cattolici cinesi a fare più unità. Questi vescovi scomunicati erano usati dall’Associazione Patriottica per dividere la Chiesa, facendoli presenziare con la forza, obbligati dalla polizia, a cerimonie e ordinazioni episcopali. Va detto che diversi di loro hanno compiuto un cammino di pentimento e da anni chiedono di essere riconciliati con Roma. L’eliminazione della scomunica di per sé non farebbe parte del “pacchetto” dell’accordo, ma è un gesto interno alla Chiesa, sebbene – forse con un po’ di ingenuità – sia stato dato l’annuncio della riconciliazione lo stesso giorno della notizia dell’accordo.

Sarà importante verificare se questi vescovi riconciliati faranno qualche gesto in cui chiedono perdono ai loro fedeli per lo scandalo provocato dalle loro scelte, mostrando così che tengono più all’unità della Chiesa che al ruolo da loro affidato dal Partito comunista.

Un quarto fattore positivo è il carattere “pastorale” e non “politico” dell’accordo, che è stato firmato senza che il Vaticano interrompesse i rapporti diplomatici con Taiwan. Per decenni e perfino negli ultimi anni di dialogo sotto il pontificato diPapa Francesco, la Cina ha richiesto come condizione previa ad ogni dialogo proprio la rottura delle relazioni con Taiwan e il “non intromettersi negli affari interni della Cina”. Con l’accordo “pastorale” queste due condizioni sono saltate: il Vaticano viene introdotto nelle nomine dei vescovi e non c’è alcuna rottura con l’isola ribelle. Anche se certamente in futuro il problema si ripresenterà.

Vediamo allora gli aspetti preoccupanti o decisamente negativi. Un elemento irrisolto – e di cui nessuno dice nulla, né in Cina né in Vaticano – è il destino dei vescovi “sotterranei” (ce ne sono 35 di cui 19 attivi). Essi sono riconosciuti dalla Santa Sede, ma trattati come “criminali” da Pechino perché osano compiere attività religiose senza essere registrati presso il governo e al di fuori dei luoghi controllati. C’è qui un forte rischio: se non si elimina la condizione di iscrizione all’Associazione Patriottica –  che questi vescovi, in obbedienza alla Chiesa fino a Benedetto XVI, hanno sempre rifiutato come qualcosa contro la fede cattolica – finiscano totalmente emarginati, o messi agli arresti.

Un altro pesante elemento negativo è costituito dal fatto che né nella notizia dell’accordo, né nei primi commenti ufficiali vi è un minimo accenno alla persecuzione che i cattolici e tutti i cristiani stanno sostenendo in questi tempi. Vero è che nel Messaggio che Francesco ha diffuso per i cattolici cinesi e la Chiesa universale, per spiegare il valore dell’accordo, c’è qualche accenno alle sofferenze dei fedeli e dei vescovi, quando il governo ha esercitato “controllo diretto al di là delle legittime competenze dello Stato”, o si parla di “forte e indebita pressione esterna”. Ma il Papa sembra parlare solo del passato.

Invece, in nome della “sinicizzazione”, in Cina oggi vengono bruciate e distrutte croci, demolite chiese, arrestati fedeli, e ai giovani sotto i 18 anni è vietata la partecipazione alle funzioni e all’educazione religiosa. In più ci sono vescovi e sacerdoti scomparsi nelle mani della polizia; vescovi agli arresti domiciliari; controlli d’ogni tipo. A tutto ciò si aggiungono le persecuzioni a cui sono sottoposte le altre comunità religiose (buddiste, taoiste, musulmane…), che manifestano la visione negativa che il regime di Pechino ha delle religioni, e il suo progetto di assimilarle o distruggerle.

Molti fedeli cinesi, certamente lieti per l’accordo, temono in effetti che la Cina non lo onorerà, dati i precedenti. Mesi fa in un’intervista, Papa Francesco ha detto che “il dialogo è un rischio, ma preferisco il rischio che non la sconfitta sicura di non dialogare”. È quindi meglio iniziare un dialogo anche con un interlocutore non fidato, che rimanere fermi. Da questo punto di vista, l’accordo rappresenta senz’altro una pagina nuova.

Del resto,  la Sala stampa vaticana ha definito l’accordo come “provvisorio” e soggetto a “valutazioni periodiche”, è quindi “inizio” di “un processo” e non la sua “fine”. In questi mesi futuri il Vaticano dovrà verificare se esso incatena ancora più che in passato i fedeli, oppure apre a nuove possibilità di libertà. E la Cina dovrà soppesare se l’accordo porta vantaggi alla società cinese e al potere del Partito.

Una maggiore libertà per la Chiesa significa maggiore distensione sociale, impegno verso le periferie dimenticate del Paese (migranti interni, poveri, anziani, cioè settori di azione in cui la Chiesa cinese già offre un contributo). Ma all’interno del Partito vi è un’ala oltranzista di ispirazione “stalinista” che finora ha resistito all’accordo, perché vede come un pericolo la libertà religiosa. Lo stesso Xi Jinping ha di continuo predicato che la Cina “non deve fare la stessa fine dell’Urss”, dove a causa della maggiore libertà ai tempi di Michail Gorbacev tutto il Partito è crollato. A diversi elementi del Politburo cinese, soprattutto quelli attorno al Fronte unito e agli Affari religiosi, l’accordo con il Vaticano sembra essere “un buco nella diga” che rischia di allargarsi e di inondare l’intero sistema politico e sociale. Per questo preferiscono un controllo serrato e soffocante ad ogni apertura. Ma fino a quando potranno permetterselo?