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La via portoghese contro il populismo

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Tutto è cominciato dopo tre anni di pesante politica economica restrittiva (2011-2014), sotto lo stretto controllo di Fondo Monetario Internazionale, Banca Centrale dell’UE e Unione Europea (la cosiddetta Troika): nell’ottobre del 2015 i portoghesi tornano alle urne per rinnovare il parlamento. Da circa un anno il clima nel paese è cambiato, gli indicatori economici mostrano una ripresa inequivoca sia del prodotto interno lordo che dell’occupazione. Inevitabile quindi che la campagna elettorale si giochi proprio sui risultati positivi che il governo di centro-destra – guidato da Pedro Passos Coelho – può vantare, così come è altrettanto inevitabile che la fine della recessione si ripercuota favorevolmente sui partiti della maggioranza.

Ma la spinta, pur molto forte, non è sufficiente a Passos Coelho: la sua coalizione, con il 38,5%, è la prima forza, ma da sola non ha i numeri per ottenere la fiducia in parlamento. All’Assemblea da Republica i vari partiti di sinistra – Partido Socialista (Ps), Bloco de Esquerda (Be) e Partido Comunista Português (Pcp) – possono infatti contare su 122 deputati su 230. Sono numeri che, in un primo momento, sembrano contare poco vista la grande distanza che separa le varie formazioni: i due scenari più probabili nell’immediato post-elezione sono: governo di minoranza del centro-destra oppure grande coalizione – entrambe le soluzioni grazie alla collaborazione dei socialisti con Passos Coelho.

Alba su Lisbona

 

Stravolgendo ogni aspettativa, la scelta dell’Assemblea, particolarmente sofferta e dopo una lunga trattativa, ricade invece su di una alleanza di sinistra. L’accordo prevede però che il governo sia monocolore, ossia composto interamente da ministri socialisti o indipendenti. Sono molti i dubbi rispetto a quello che appare ai più come un accordo fragile, prigioniero di partiti ritenuti poco affidabili e, soprattutto, apertamente contrari alle regole di bilancio previste dai trattati europei, seguite praticamente alla lettera fino a quel momento.

Nel corso dei mesi invece – sono passati quasi due anni dal momento in cui António Costa ha assunto funzione di primo ministro – l’esperienza portoghese non solo resiste alla prova del tempo, ma acquisisce un prestigio inaspettato, ben oltre i confini nazionali. Le ragioni si articolano su tre piani: per prima cosa, l’economia è stata dinamizzata pur mantenendo la spesa sotto controllo; ciò ha riscosso ampi consensi nell’opinione pubblica, col risultato di fortificare l’alleanza e allo stesso tempo arginare euroscetticismo e deriva populista.

Austerità espansiva

Come accennato il Portogallo era entrato in una fase di crescita economica già dal 2014, tuttavia non tutti gli indicatori erano positivi. Nell’estate del 2016 la commissione europea, sulla base dei dati relativi al 2015, apre una procedura di infrazione per deficit eccessivo. La UE però si mostra indulgente e non richiede nessuna manovra correttiva; è comunque un segnale preoccupante perché potrebbe minacciare quello che è lo spirito del nuovo corso di politica economica introdotto dal ministro delle finanze Màrio Centeno. L’idea alla base dell’accordo tra i tre partiti di sinistra è quella di alterare in modo significativo il percorso che porta agli equilibri di bilancio, pur nel rispetto delle norme europee, in modo da favorire i ceti più disagiati e le classi medie.

L’austerità espansiva si è concentrata su alcuni pilastri fondamentali: abolizione delle imposte dirette sui redditi della classe media (introdotte negli anni della Troika), allargamento del welfare state come forma indiretta per valorizzare il potere di acquisto, e stabilizzazione delle carriere all’interno dell’amministrazione pubblica. Gli aumenti di spesa sono finanziati attraverso un aumento delle aliquote di imposta su tabacco, benzina e altri generi non di prima necessità. Non solo, perché Centeno può contare anche su di una consistente crescita del pil stimolata da un boom nelle esportazioni (prodotti raffinati del petrolio, automobili, prodotti agricoli), degli investimenti e, in misura minore, dei consumi interni. Per il 2017 le previsioni indicano un +2,5%: il ciclo positivo, quello iniziato nel 2014, si stima possa mantenersi anche nel 2018 e  2019, (rispettivamente +2% e +1,8%). Il deficit precipita ai minimi storici, il 2% rappresenta il valore più basso degli ultimi 40 anni, e così viene anche chiusa la procedura di infrazione aperta l’estate scorsa.

Manca ancora il riscontro (non secondario) da parte delle agenzie di rating, certo, ma apprezzamenti arrivano dall’agenzia Fitch che, pur non diminuendo il livello di rischio attribuito alle obbligazioni del debito pubblico portoghese, cambia il suo outlook da stabile a positivo, preludio, forse, di un cambiamento di giudizio effettivo. La questione è importante, perché al momento l’unica agenzia che permette al Portogallo di rientrare nel programma di acquisto di bond della Banca Centrale Europea è la Dbrs, che nella sua ultima relazione ha mantenuto il suo precedente giudizio: BBB stabile, non lusinghiero ma ancora sufficiente.

Rafforzamento delle istituzioni

L’impatto legittimante della politica economica – misurabile non solo dall’andamento del pil, ma anche dalla diminuzione delle disuguaglianze – è fortissimo. I sondaggi indicano che il sostegno dell’opinione pubblica nei confronti di primo ministro e partito socialista è in costante crescita: meno forte è l’effetto su Bloco de Esquerda e Partido Comunista Português, ma nel complesso il distacco tra destra e sinistra è di quasi 32 punti percentuali.

Un aspetto che merita di essere sottolineato è quello relativo al rapporto cittadino-istituzioni. Nelle settimane in cui gli effetti della crisi economica si facevano sentire con più virulenza, biennio  2011-2012, appena il 10% della popolazione, dati Eurobarometro, diceva di avere fiducia nelle istituzioni democratiche (governo, parlamento, partiti) e solo il 22% aveva della UE un’immagine positiva. 5 anni dopo, i dati ci mostrano un quadro radicalmente differente. La fiducia nella democrazia rappresentativa sale al 27%, sempre bassa ma più in linea con le medie continentali, e l’Unione Europea è vista positivamente dal 48% dei cittadini.

In sostanza, quello che stupisce è la capacità che hanno avuto partiti non certo “nuovi”, anzi tutti novecenteschi (il Be nasce alla fine degli anni Novanta, il Ps nel 1973 e il Pcp risale agli anni Venti) di impedire alle formazioni estremiste e anti-sistema di approfittare del clima di profonda disaffezione dalla politica, e poi di ricucire in modo certosino un rapporto con i cittadini ritenuto da molti osservatori irrimediabilmente rotto. Restano irrilevanti dunque l’estrema destra del  Partido Nacional Renovador (Pnr), che nel 2015 ha ottenuto meno di 30 mila voti, circa lo 0,5%, e parallelamente a sinistra  Livre, 0,73%, Agir, 038%, e Nós, 0,4% non riescono a superare la soglia di sbarramento per entrare in parlamento, né registrano alcuna crescita nei consensi nel periodo successivo.

Un ‘case study’?

Inevitabile quindi che la capacità di invertire una tendenza improntata a un sentimento di illegittimità diventi un case study. Per questo non è eccessivo parlare di ‘modello Costa’, un cammino che sembra suscitare interesse in modo particolare nell’ambito della famiglia dei partiti socialdemocratici. A febbraio il candidato socialista alle presidenziali francesi Benoît Hamon si incontra con il premier lisboeta per cercare di capire quali siano stati gli elementi che hanno permesso di costruire una coalizione stabile pur in presenza di ispirazioni tanto divergenti, chiaramente l’idea era quella di un’alleanza con il Front de Gauche che, come è noto, non si è poi realizzata. L’influenza lusitana si sente in misura ancor più netta in Spagna dove il neo (ri)eletto segretario del partito socialista Pedro Sánchez ha fatto esplicito riferimento al paese vicino, anche qui in vista di una possibile intesa del suo partito con la formazione di sinistra Podemos, anche in questo caso da costruire in parlamento.

Gli scenari politici europei stanno vivendo una fase di grandi trasformazioni: la Brexit e il radicamento dei partiti anti-sistema sono lì a mostrarci come il cambiamento non sia più solo un’ipotesi teorica, ma possa essere concreto e repentino. Il Portogallo, pur nei limiti di un paese di piccole dimensioni, mostra in modo tangibile come la crisi della socialdemocrazia, della democrazia rappresentativa e dell’idea di Unione Europea sia tutt’altro che irreversibile.