La vera sfida dello Stato Islamico: ideologica, non militare
C’è qualcosa che accomuna i recenti attentati di Parigi alle ultime stragi consumate di matrice terroristica? E ancora: esiste un unico filone ideologico che lega gli attacchi dell’11 settembre (ormai circa 15 anni fa) alle ultime azioni terroristiche compiute in autonomia da cosiddetti “lupi solitari”?
Al-Qaida, la storica organizzazione piramidale creata da Osama bin Laden, è stata decapitata negli ultimi anni, e da una sua costola è nato quello che oggi conosciamo semplicemente come “Stato Islamico”, o ISIS. Ma anche l’organizzazione di Al-Baghdadi rischia di subire lo stesso destino, quantomeno sul terreno. Infatti, il sedicente Stato Islamico sta subendo gravi sconfitte militari non soltanto in Siria e Iraq (dove si è inizialmente sviluppato e meglio radicato) ma soprattutto a Sirte, in Libia, roccaforte nordafricana dell’organizzazione. A ciò bisogna aggiungere una faida interna, come appare evidente proprio in Libia con la spaccatura tra comandanti locali e stranieri.
Eppure, nonostante le sconfitte militari dovrebbero aver indebolito il mito dell’ISIS, i “lupi solitari” che hanno agito negli ultimi mesi si sono tutti richiamati al brand. Ciò accade perché questa sigla non è più vista come una semplice organizzazione; si è trasformata invece in un’ideologia in grado di fare breccia nei cuori e nelle menti delle nuove generazioni di musulmani e/o convertiti. Questi, spesso privi di una forte e solida identità sia sociale che nazionale, trovano nel “Califfato” la risposta alle loro domande e i tasselli mancanti per riempire i vuoti del loro puzzle esistenziale.
Se è vero che l’ideologia e il movimento del jihad globale aspirano ad un mondo basato sui valori islamici del VII secolo d.C., è altrettanto vero che per farlo utilizzano la tecnologia del XXI secolo. Tutto ciò ha un nome, che in arabo è “jihad al-kalam”, il “jihad della parola”, vale a dire l’utilizzo della parola come arma. In altre parole, i media – tradizionali e social – come strumento offensivo di propaganda, contro-informazione, operazioni psicologiche, rivendicazione, minaccia e, soprattutto, engagement (cioè partecipazione attiva in prima persona).
L’uso della rete da parte dei movimenti jihadisti risale ai primi anni ’90, quando però i loro siti web non superavano la dozzina. A questi primi siti fece seguito un grande sviluppo e una rapida diffusione dei forum, oggi ampiamente sostituiti dalle reti sociali, in primis Twitter, e dai blog. È attraverso queste piattaforme virtuali che viene disseminata sia la consistente produzione mediatica ufficiale dell’ISIS, che quella prodotta da soggetti o gruppi mediatici minori ideologicamente affiliati all’organizzazione di Al-Baghdadi.
Negli ultimi anni, i governi occidentali, ma anche quelli arabo-musulmani, hanno compreso la portata dello strumento mediatico in ambito jihadista e la minaccia concreta che esso pone, rafforzando non solo la parte di cyber-security ma investendo di più nell’elaborazione di un’efficace strategia di story-telling in grado di contrastare quella dell’ISIS: lo Stato Islamico ha dimostrato di aver raggiunto un alto livello di sofisticazione non soltanto dal punto di vista tecnico ma soprattutto da quello comunicativo.
Non è un caso, come ha riportato Il Messaggero, che recentemente il 28° Reggimento “Pavia” dell’Esercito Italiano, specializzato nella comunicazione operativa, abbia organizzato un seminario internazionale incentrato sul virtual engagement e sull’utilizzo dei nuovi media come strumento strategico, lo stesso tema trattato alcuni giorni fa in un seminario in Spagna nell’ambito dell’iniziativa Tres Med. Iniziative simili cominciano a diventare frequenti anche nei Paesi arabo-musulmani, e tutto ciò non può che confermare come l’ideologia dell’ISIS diffusa dai social network in ogni angolo del globo sia considerata una minaccia forse maggiore rispetto a quella esercitata sul terreno. E ciò perché si può sconfiggere un esercito se si è dotati di tecnologie più avanzate, ma diventa complesso sconfiggere e sradicare un’ideologia se questa, oltretutto, viene diffusa e rafforzata attraverso un’attraente tecnica di story-telling.
È esattamente ciò che oggi sta accadendo con l’ISIS, sul terreno reale e su quello virtuale: in Medio Oriente (Siria e Iraq) e in Nord Africa (Libia), l’offensiva militare e di sicurezza sta dando ottimi risultati contro l’organizzazione jihadista, che ha perso importanti città in Siria, Iraq e Libia. Senza dubbio, ulteriori sconfitte sul terreno contribuirebbero ad intaccare l’immagine eroica che lo Stato Islamico si è costruito. Ma sul web i jihadisti raccontano tutta un’altra storia: oltre a mostrare le sue vittorie militari, l’ISIS esalta le virtù della “terra del Califfato”, in cui l’unica legge applicata è quella della sharia, la legge religiosa, e in cui i musulmani “oppressi” non soltanto trovano giustizia e dignità ma soprattutto raggiungono il riscatto sociale e una propria identità: quella di essere cittadini della Umma, un’unica nazione islamica senza differenze etniche o razziali. Il messaggio che ne scaturisce è dirompente e trascinante; per una mente occidentale può apparire perfino obsoleto, ma, come dimostrano gli ultimi episodi di “lupi solitari” e “foreign fighters”, sulla mente di chi riconosce o non sente estranei i valori del Califfato, il messaggio è sufficiente per portarlo ad abbracciare la causa dell’ISIS.
Tra decine di esempi e testimonianze, si può citare il video ufficiale di rivendicazione degli ultimi attentati di Parigi, prodotto dalla fondazione Al-Hayat, braccio mediatico ufficiale dell’ISIS, e diffuso il 24 gennaio scorso. Il filmato contiene le video-testimonianze dei giovani esecutori di quegli attentati, tutti cresciuti tra Francia e Belgio ma di origine maghrebina, i quali, esprimendosi nella loro lingua madre – il francese – giustificano ciò che andranno a fare con quella che chiamano la “guerra degli infedeli contro i musulmani”: è dall’analisi delle loro parole che si comprende quanto l’ideologia dell’ISIS abbia giocato un ruolo fondamentale, grazie alla sua macchina mediatica, nel portarli non soltanto a sceglierne la bandiera, ma soprattutto partire per la “terra del Califfato”, addestrarsi, e tornare nei Paesi in cui sono cresciuti per colpire.
Grazie a una complessa e proficua macchina mediatica, lo Stato Islamico si è oramai trasformato in un’ideologia più sociale che religiosa. Mentre la dottrina di Al-Qaeda era fortemente religiosa e spesso si rivolgeva a un’audience con una buona conoscenza della fede, quella dell’ISIS è più pragmatica, meno spirituale, e fa breccia nelle nuove generazioni, cresciute più di fronte alla Play Station e agli smartphone che nelle moschee. Non è un caso che il fenomeno dei “foreign fighters” sia ben più forte ora che ai tempi di Al-Qaeda.
Dunque, alla luce di ciò, alla battaglia militare dovrà necessariamente fare seguito una “battaglia mediatica”, fatta di tweet, post, like, share, e, soprattutto, un’efficace contro-narrativa in grado di contrastare l’insidiosa e virale ideologia dell’ISIS. Sarà una battaglia più lunga, dura e complessa.
Ma, soprattutto, è una battaglia che presuppone una totale neutralità mentale: solo così ci si potrà calare nell’universo mentale della propaganda jihadista per comprenderla a fondo e dunque contrastarla. Presunzione e preconcetti rischiano non soltanto di farci sottovalutare il fenomeno, ma soprattutto di offuscare la portata ideologica di un fenomeno che non è assolutamente solo militare. E che, per di più, trova linfa in una fede religiosa, pienamente calata nel mondo di oggi.