La Turchia allo specchio nelle urne
Le piazze non bastano. E per quanto l’opposizione in questo storico election day abbia dato prova di una maggior vivacità, i risultati non l’hanno premiata, anche a causa di quella che è una delle sue caratteristiche principali: la scarsa conciliabilità delle anime che la compongono.
La giornata elettorale turca – oltre 55 milioni di elettori chiamati a scegliere il nuovo capo dello Stato e il nuovo parlamento – è stata in un successo per l’uscente Recep Tayyip Erdogan, forse anche oltre le sue aspettative. Erdogan era capo dello Stato dal 2014, ed era stato capo del governo dal 2003 al 2014: il nuovo mandato unisce le due cariche.
Per quanto riguarda il voto presidenziale, di certo c’è che in Muharrem Ince, secondo classificato, in molti hanno trovato un esponente politico in grado di contrastare, almeno quanto a carisma, il neo rieletto presidente, Recep Tayyip Erdogan. Il candidato laico-repubblicano ha ottenuto il 30,6%, contro il 52,5 del Reis (il “Capo”) Erdogan. Un buon piazzamento, se si conta che la scelta sul suo nome è arrivata appena un mese e mezzo fa e quasi per caso. La decisione del capo di Stato e del suo alleato, il nazionalista Devlet Bahceli, di anticipare il voto parlamentare e presidenziale di oltre un anno ha colto tutti di sorpresa, lasciando a un’opposizione già nota per la sua scarsa efficacia ancora meno tempo per organizzarsi e compattarsi. L’ex professore di Yalova, quindi, davvero non poteva fare di più.
Alla luce dei risultati, ma era ampiamente nell’aria, la candidatura di Meral Aksener, prima donna a tentare la scalata alla carica più alta della Repubblica, si è rivelata una mossa che ha rafforzato Erdogan anziché indebolirlo, anche per quanto riguarda il voto parlamentare. La Lady di ferro della politica turca non va oltre il 7,3% dei consensi. Voti che potevano finire a Ince. Il leader curdo, Selahattin Demirtas, ha conquistato l’8,3%, confermando una base elettorale che va al di là del risultato: Demirtas è in carcere da quasi due anni, ma i suoi elettori non rinunciano a sottolineare la loro appartenenza sociale, ideologica e politica.
Il dato presidenziale è sicuramente quello su cui si sono concentrate maggiormente le attenzioni degli analisti. Ma c’è stato anche il voto parlamentare, ed è molto importante soprattutto per cercare di interpretare come sarà la scena politica turca dei prossimi anni.
Per prima cosa dobbiamo evidenziare quella che forse è l’unica buona notizia di queste elezioni: la TBMM, la Grande Assemblea Nazionale Turca, non era così affollata di partiti dagli anni Novanta. Il sistema delle coalizioni ha permesso la formazione di un parlamento meno monocolore rispetto al passato. E questo alla quotidianità politica può fare solo bene, considerando poi che in Turchia la soglia di sbarramento per è entrare nell’assemblea è fissata al 10%. Con la riforma costituzionale in senso presidenziale approvata lo scorso anno, però, il parlamento è destinato ad avere meno poteri rispetto a un tempo. Quindi verrebbe da dire che questa vivacizzazione, opportuna, necessaria, sia però arrivata fuori tempo massimo.
L’AKP, il partito di cui Erdogan è capo, si conferma prima forza, con il 42,5% dei voti. Ma è in deciso calo rispetto al passato recente, soprattutto alle elezioni del novembre del 2015, motivato anche dall’affluenza, che è stata fra le più alte nella storia della Repubblica, circa l’87%. Questo gli permette di ottenere 293 seggi su 600, perdendo la maggioranza assoluta. Il MHP, il Partito nazionalista, che con l’AKP forma la Coalizione per la Repubblica, ha ottenuto l’11,1%. Un risultato che ha quasi del miracoloso, se si pensa che la defezione di Meral Aksener e la formazione dell’Iyi Parti avrebbe dovuto portare via buona parte dei suoi sostenitori. Invece i risultati hanno dato ragione al suo leader Devlet Bahçeli, a dimostrazione che questa Turchia è una Turchia profondamente nazionalista e spostata a destra, con connotati islamici sempre più marcati. Con i suoi 46 deputati, il MHP garantisce a Erdogan il controllo del parlamento e può permettersi il lusso di assumere il ruolo di ago della bilancia della vita politica turca.
L’altra coalizione, quella formata dal Partito Repubblicano del Popolo (CHP) e l’Iyi Parti, di centrodestra, deve fare i conti con risultati deludenti. Il CHP è rimasto ampiamente sotto la soglia psicologica del 25%, fermandosi al 22,7%, mentre l’Iyi Parti arriva a stento al 10%. I loro seggi totali sono 210. In parlamento entrano anche i curdi con un ottimo 11,2% e 67 seggi. Sono la terza forza politica del Paese e questo è un dato molto importante se si conta che praticamente non hanno potuto fare campagna elettorale e che il loro capo carismatico è in carcere da quasi due anni. Non è detto sia una buona notizia per gli altri. I curdi infatti sono rimasti fuori da ogni alleanza elettorale e sono entrati in parlamento autonomamente. Altrettanto autonomamente potrebbero decidere di condurre la loro azione politica, con possibile scompiglio per entrambi i poli.
In sintesi, Erdogan questa volta ha trovato una persona Muharrem Ince, in grado di contrastarlo sulla piazza. Ma all’opposizione manca tutto il resto. Strategia, collaborazione politica fra i partiti e anche l’accreditamento presso tutto quel sistema di poteri economici per i quali Erdogan risulta ancora il garante di ordine e prosperità. Anche se la crescita della Turchia è gravata da un eccessivo consumo interno e da una valuta altalenante, non tutta la popolazione percepisce questi vizi. All’opposizione manca anche l’appoggio delle confraternite islamiche che, piaccia o no ai cultori, un po’ romantici ormai, della Turchia laica, gestiscono migliaia di voti nel Paese, e sono decisive per la vittoria di Erdogan in regioni come l’Anatolia.
La notte di Istanbul è stata caratterizzata da accuse di brogli e minacce di ricorso. In realtà, lo sfidante Ince è stato costretto a riconoscere la vittoria quasi subito e lo Ysk, l’alta commissione elettorale, ha confermato che Erdogan ha ottenuto la maggioranza assoluta dei voti. Per quanto ci possano essere state distorsioni e aspetti poco chiari, e che il Paese si dimostri ancora una volta elettoralmente spaccato in due, il consenso attorno al presidente è fuori discussione, compatto e personale. Il tono anti-curdo e antioccidentale della campagna elettorale gli ha regalato, ancora una volta, una vittoria netta sugli sfidanti.
Dall’altra parte c’è un’altra Turchia. Ma si tratta di un fronte ancora spezzettato e sparpagliato, unito solo dall’essere contro Erdogan. Che da oggi è capo dello Stato, capo del Governo e leader della maggioranza in parlamento.