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La “tribal analytics” per capire una società che cambia

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Sappiamo ancora chi siamo? C’è chi è magari americano da sette generazioni, ma vanta origini olandesi e porta un cognome italiano, e tuttavia non ha mai messo piede né ad Amsterdam né a Firenze. O l’ebreo che non entra in una sinagoga da decenni. E ancora, chi si vede etichettato come “suburbano”, ma lavora e trascorre il tempo libero in una grande città, e ci si vorrebbe anche trasferire.

Se a ciò si aggiungono fattori quali la mobilità globale, le telecomunicazioni e la rete sempre più vasta dei social network, ne risulta che non è affatto semplice incasellare i cittadini americani in categorie rigide e unidimensionali. Il punto è che gli indicatori tradizionali non sono più adatti a definire la nostra identità.

La difficoltà di capire e descrivere una società complessa

La teoria delle neotribù e della tribal analytics si basa su tre parole chiave: processo, contenuto e collaborazione. Nel corso degli anni, esperti di ricerche di mercato e sociologi hanno sviluppato svariati metodi per classificare gli individui in gruppi o cluster sulla base di caratteristiche comuni, allo scopo di capire meglio chi sono, come si comportano, che tipo di interessi nutrono e cosa li motiva. Queste tecniche di “segmentazione” e “analisi dei cluster” di una popolazione si basano principalmente su criteri demografici o parametri culturali regionali, ma ignorano – o minimizzano – l’importanza di vedute e comportamenti comuni, per cui sono ormai superate, obsolete e persino inutili, in un mondo suscettibile di cambiamenti improvvisi e radicali. Oltre a ciò, comportano difficoltà logistiche (si pensi alle rilevazioni campionarie telefoniche su vasta scala) e costi elevati. E non sono per nulla flessibili: i dati raccolti devono considerarsi validi per almeno qualche anno, altrimenti il dispendio di tempo e denaro sarebbe ingiustificato. Ma nel mondo di oggi esiste qualcosa che duri così a lungo?

La tribal analytics rappresenta una novità assoluta in quanto consente di “segmentare” la popolazione sulla base di affinità tribali auto-individuate: vedute, filosofie di vita e valori condivisi. E, in tal modo, va al di là dei dati demografici e di altri atteggiamenti e comportamenti riferiti a categorie specifiche su cui poggiano i tradizionali studi di segmentazione del mercato. “Per tale motivo”, spiega Dayna Dion, communications strategist ed ex cultural strategy director di Ogilvy & Mather a Chicago, “la tribal analytics è uno strumento cruciale per la pratica emergente del cross-cultural marketing” (la Cross-Cultural Marketing and Communications Association è stata istituita nel 2013).

I dati demografici rappresentano sempre uno strumento interessante per comprendere e prevedere comportamenti e reazioni, ma sono ormai riduttivi e non danno conto delle differenze all’interno di gruppi anagrafici, regionali, etnici e di reddito. Il campo demografico è semplicemente troppo vasto. Le sezioni di censimento e i codici d’avviamento postale sono stati per decenni una risorsa fondamentale per l’analisi della popolazione in rapporto al contesto geografico; il ruolo della geografia è però oggi messo in discussione da un sistema di mobilità e tecnologie mobili che offre servizi di informazione e connessione su scala globale. I “microtrend” teorizzati dal grande sondaggista Mark Penn sono un’idea suggestiva e, devo ammetterlo, intellettualmente stimolante, ma della cui effettiva utilità per chi si occupa di marketing e management è lecito dubitare.

Gli studi di Joel Garreau (The Nine Nations of North America, Boston, Houghton Mifflin, 1981), Dante Chinni (Our Patchwork Nation, New York, Gotham Books, 2010) e Colin Woodard (American Nations, New York, Viking, 2011), fondati sul presupposto che ogni individuo possa essere collocato in un ampio e coerente contesto culturale, sono indubbiamente affascinanti. I loro libri sono stati molto illuminanti, e li tengo sempre a portata di mano; ma hanno il difetto di trascurare le comunità di interesse che motivano le persone e influenzano le loro decisioni.

Il saggio di Garreau ha fatto da apripista, perché si è focalizzato sulla dimensione culturale andando al di là dei tradizionali confini politici. In fondo, per quale motivo il Maine e il New England settentrionale non dovrebbero essere associati ai territori canadesi francofoni, data l’importanza del comune retaggio storico, antropologico e religioso?

Nel suo brillante “patchwork”, Chinni classifica le contee statunitensi servendosi di un’enorme quantità di dati statistici e ricerche di opinione, oltre che di eccellenti analisi e report di prima mano. Ma non dà conto delle sostanziali differenze a livello culturale e politico tra contee strutturalmente affini. La contea di Luzerne (Pennsylvania) e quella di Oneida (New York), per esempio, hanno visto negli ultimi due decenni un grande afflusso di immigrati. Se però la prima è tristemente nota per le pratiche di discriminazione e respingimento dei nuovi arrivati, la seconda ha fatto parlare di sé in tutto il mondo per l’impegno nell’accoglienza dei rifugiati (e non solo). È davvero il caso di considerarle “contee sorelle”?

Quanto a Woodard, ha di fatto individuato undici “nazioni” nordamericane incrociando radici storiche condivise, affinità culturali, ideali comuni e persino somiglianze linguistiche. Anche lui, come Garreau e Chinni, è andato oltre gli schemi della tradizione. Il libro di Woodard, tuttavia, lascia al lettore l’impressione che quelle “nazioni” siano così eterogenee da escludere qualsiasi forma di coesione. Le “nazioni” sono affascinanti, ma il messaggio è desolante.

Il processo bottom up e la Tribal analytics

C’è dunque una lacuna da colmare. Si è aperto uno scenario completamente nuovo: ormai viviamo nel mondo del cyberspazio, e questa realtà plasma anche la nostra mente e i nostri cuori. È una dimensione che va al di là del quartiere di residenza, del distretto elettorale, degli incontri del Rotary club, in chiesa o allo stadio. Questo nuovo mondo si riflette nel modo in cui esprimiamo la nostra identità, definiamo le nostre priorità e scegliamo a quale gruppo appartenere, non meno che nel luogo fisico in cui lavoriamo, trascorriamo il tempo libero o pratichiamo un culto religioso. Serve un processo bottom-up che coinvolga direttamente le persone e consenta loro di raccontarsi: su questa premessa è stato sviluppato quel modello che ha poi preso il nome di tribal analytics.

Si tratta di inquadrare gli individui in un contesto più adeguato a un mondo in cui il posto in cui vivono, sono nati o sono andati a scuola, così come il reddito che percepiscono, rivestono minore importanza rispetto al passato. Allo stesso modo, le nuove tecnologie e fonti di dati sembrano confermare la necessità di un nuovo processo di segmentazione, con il consulente o il ricercatore in un ruolo meno determinante. Perché non lasciare che siano i soggetti stessi dell’indagine a individuare la propria comunità di interesse? Se gli esseri umani hanno sempre trovato il modo di organizzarsi in “clan”, “tribù” e “villaggi”, i protagonisti delle nostre ricerche non possono forse spiegarci da soli a quale cluster appartengono?

Sempre più spesso, dunque, la nostra identità è determinata da quello che scegliamo di essere, dalle persone con cui decidiamo di relazionarci e dal modo in cui definiamo il nostro gruppo di appartenenza. E, come il mondo in cui viviamo, quel gruppo può non rimanere sempre lo stesso. Le tribù possono durare per sempre, o comunque molto a lungo, oppure rivelarsi effimere e fluide come tutto il resto. Le nuove tribù americane formano un ricco mosaico, una realtà multidimensionale e un caleidoscopio di differenti possibilità di identificazione. E i contorni non sono definiti in modo così netto. Gli Edonisti Felici, per esempio, amano vivere e divertirsi. Molti sono giovani; tra loro, però, la percentuale di chi si reca in un luogo di culto almeno una volta a settimana è molto più alta rispetto alla media rilevata per la fascia di età 18-29 anni. Anzi, questi amanti del piacere, assidui frequentatori di concerti e sempre pronti a festeggiare e divertirsi, vanno in chiesa quasi altrettanto spesso dei credenti infervorati dello Squadrone di Dio.

Questi curiosi “sconfinamenti tribali”, circostanze in cui due tribù apparentemente distanti rivelano valori e interessi comuni, sono assai frequenti.

Le applicazioni concrete della tribal analytics sono molte: nel mondo aziendale si può offrire un nuovo modello di interazione con la clientela, i dipendenti e l’opinione pubblica in generale; nel settore sanitario si possono studiare le abitudini e gli stili di vita che espongono i cittadini al rischio di contrarre malattie anche per intervenire e forse modificarli; nel sempre più competitivo settore dell’istruzione superiore, comprendere i vincoli “tribali” consente di tenere conto delle aspirazioni e dei reali interessi degli studenti, come anche del corpo docente; perfino nel caso dei processi penali si possono migliorare i metodi di selezione delle giurie popolari, limitando le distorsioni di giudizio legate ai preconcetti personali.

La tribal analytics propone nuovi strumenti per l’inserimento nel mondo del lavoro di oggi. Sin troppo spesso l’orientamento professionale è concepito in funzione delle attitudini e aspirazioni dello studente e di una visione ormai superata della realtà spaziale e geografica. I nuovi lavori richiedono spesso doti quali sensibilità, empatia, capacità di interagire con altre persone di inclinazioni affini o di diverso carattere, in forma elettronica e attraverso lunghe distanze. Chi è il candidato più adatto a svolgere un determinato tipo di lavoro, stabile o occasionale che sia, alla luce della tribù di appartenenza o delle tribù a essa contigue? Mettiamo che ci sia la possibilità di viaggiare: ecco pronti gli “Avventurieri”. E se una certa posizione richiede minori competenze, ma una maggiore sicurezza di sé? Largo ai “Perfezionisti”. Se invece si tratta di conciliare l’interesse per l’ambiente e la giustizia sociale con il desiderio di non allontanarsi dalla famiglia o dalla parrocchia, il tipo ideale sembra essere l’”Integerrimo”. Altra ipotesi: un alone di fascino, un senso dell’umorismo caustico, lunghe giornate solitarie davanti a un monitor. Ecco l’opportunità per un “Outsider”. Chi è il candidato ideale per un lavoro da casa? Chi può gestire un impiego part-time e al tempo stesso integrarsi con i colleghi attraverso uno schermo? Chi si adatta con più facilità ai trasferimenti dell’ultimo minuto, chi ha lo spirito di intraprendenza necessario per mettersi subito in proprio? Sono tutte domande (e risposte) “tribali”.

La tribal analytics, in conclusione, dovrebbe indurci a capovolgere l’esortazione del poeta Robert Burns: invece di imparare a “vedere noi stessi come ci vedono gli altri”, possiamo insegnare agli altri a vederci come noi stessi ci vediamo.