La Terza Repubblica Iraniana
Fin dalla Rivoluzione del 1979, molti osservatori occidentali hanno costruito ed alimentato il mito di uno Stato iraniano monolitico e verticista, controllato al suo vertice da una figura – e una soltanto – al tempo stesso politica e religiosa. Ciò si è accompagnato ad un’interpretazione dell’Islam sciita che fosse funzionale al modello delineato.
Abbiamo in tal modo perso la capacità di osservare ed apprezzare quanto vitale ed intensa, oltre che fazionale ed eterogenea, fosse la politica iraniana. Per riscoprirla all’improvviso nel 2005, all’indomani dell’elezione di Mahmood Ahmadinejad al suo primo mandato presidenziale.
Tre distinte fasi politiche hanno caratterizzato l’evoluzione della Repubblica Islamica. La prima, generalmente conosciuta come khomeinismo, è stata caratterizzata da una serie di elementi traumatici per la società iraniana: il crollo della monarchia e l’impeto rivoluzionario, la feroce repressione post-rivoluzionaria, il rimodellamento della politica estera, e infine la guerra contro l’Iraq e il trionfo dell’ala radicale al potere.
Questa prima fase fu caratterizzata dalla presenza di un leader politico forte e carismatico, l’Ayatollah Ruollah Khomeini, e dalla contestuale presenza di un tessuto politico abbastanza coeso nel sostenere posizioni radicali. Grazie allo scoppio della guerra con l’Iraq, questi fattori permisero il consolidamento dell’assai fragile sistema instauratosi all’indomani della rivoluzione.
L’equilibrio di quella che si può definire la “Prima Repubblica” iraniana resse sino alla scomparsa dell’elemento che ne costituiva il presupposto e la ragione, l’Ayatollah Khomeini. Resse in quanto funzionale all’interesse, condiviso all’interno dell’eterogenea compagine dei conservatori, di dare una qualche solidità al sistema.
Con la morte di Khomeini, nel giugno 1989, riemerse il coacervo di conflitti interni e prese avvio la “Seconda Repubblica”, dominata dall’assenza di un perno forte alla guida spirituale del sistema: questo venne organizzato intorno ad una figura – l’Ayatollah Ali Khamenei – scelta appositamente per rappresentare un punto di incontro e di bilanciamento tra anime assai diverse dello stesso organismo. Si consumò allora la progressiva rottura con quella parte del clero decisamente contraria ad un modello politico ormai molto poco spirituale, che la nuova Guida Suprema di fatto incarnava. Khamenei segnò quindi un punto di transizione del sistema: l’uomo di garanzia al quale demandare non già il potere esecutivo quanto l’esercizio di un rinnovato spirito squisitamente sciita, tradizionalmente avulso dal modello verticista e invece orientato sulla collegialità e sulla pluralità del modello decisionale.
La Seconda Repubblica è stata dominata politicamente dal ruolo dei pragmatici, complice la necessità di riavviare l’economia del paese dopo otto anni di guerra ma anche una più matura concezione della Repubblica Islamica, certamente meno timorosa di approcciare il mondo esterno e più solida nelle sue fondamenta. E grazie a questo pragmatismo ha potuto prendere corpo anche il progetto politico del riformismo, che tra il 1997 ed il 2005 riuscì a conquistare la presidenza grazie al massiccio supporto popolare, senza tuttavia riuscire ad imporsi per la mancanza di una concreta progettualità politica ed economica.
Il periodo tra il 2005 ed il 2009, ovvero quello coincidente con il primo mandato della presidenza Ahmadinejad, è stato un ibrido politico, funzionale alla preparazione della Terza Repubblica, di fatto instauratasi in modo violento e repentino all’indomani delle elezioni del 12 giugno 2009. Questo quadriennio è stato caratterizzato inizialmente da una sistematica rimozione di ogni elemento vicino o sensibile al riformismo, per poi invece concentrarsi nello scontro con la componente pragmatica e con quella ostile – sempre più numerosa – all’interno della stessa compagine dei fondamentalisti.
Come si sia determinata la vittoria dei fondamentalisti alle elezioni del 12 giugno 2009 è ancora oggetto di dibattito; in ogni caso, pesano come un macigno sulla sua credibilità le accuse di brogli e manipolazione del voto.
Ciò che è fuor di dubbio è invece il sostegno accordato dalla Guida Suprema Ali Khamenei al candidato radicale Mahmood Ahmadinejad. Immediato e deciso. Ma, al tempo stesso, non necessariamente convinto e con ogni probabilità temporaneo. Quel sostegno è stato comunque essenziale, per quanto paradossale: la motivazione principale è stata il timore di una vittoria di Mussavi, candidato certamente più vicino ideologicamente ma non certo soggiogabile, e potenzialmente favorevole a importanti cambiamenti. Comunque un’incognita – che, nell’ottica della prima generazione del potere clericale iraniano, è sempre sinonimo di turbamenti.
Il sospetto è che la Terza Repubblica rappresenti anche il capitolo conclusivo della storia della Repubblica Islamica nata nel 1979.
Qualsiasi possa essere l’esito delle indagini relative alle irregolarità durante le elezioni, l’atteggiamento tenuto dall’esecutivo e dalla Guida ha determinato con ogni probabilità la definitiva delegittimazione popolare non solo della Guida e dell’istituto giuridico che ne regola l’operato, il velayat-e faqih, ma dell’intero impianto della Repubblica Islamica. Il “patto” stretto a suo tempo da Khomeini con il popolo è stato violato, ed è conseguentemente venuta meno la lealtà al sistema da parte di una porzione importante della popolazione.
Il secondo mandato del presidente Ahmadinejad ha preso avvio in un clima politico particolarmente problematico e teso. La principale opposizione al fronte radicale è infatti oggi in larga misura costituita dalla componente fondamentalista della compagine dei riformatori, paradossalmente alleati – in modo ambiguo – a una parte dei riformisti e dei pragmatici. Un consesso politico, quindi, dominato da una sorta di faida interna attiva.
Ahmadinejad e il suo gruppo di sostegno politico sono stati considerati, pur con molti rischi, il male minore nel contenere una deriva che, al contrario, è stata probabilmente accelerata dagli eventi. La stessa Guida Suprema sembra ora aver compreso l’errore, come suggeriscono alcuni segnali di cautela nell’appoggiare il Presidente. D’altra parte, la situazione è serissima: i disordini seguiti al voto di giugno hanno visto, per la prima volta in trent’anni di Repubblica Islamica, milioni di manifestanti in piazza a chiedere giustizia, inneggiando agli stessi slogan del 1978-79 nelle ultime drammatiche fase della monarchia Pahlavi.
Intanto, il nuovo esecutivo approvato dal Parlamento rappresenta una mappa del complicato groviglio di interessi oggi presenti nel sistema politico. Vi sono uomini legati all’ala più radicale, come il nuovo Ministro della Difesa, Ahmad Vahidi, alto ufficiale dei Guardiani della Rivoluzione sospettato di essere coinvolto nell’attentato al centro ebraico di Buenos Aires nel 1994 e per questo ricercato dalla giustizia internazionale. Ma vi sono anche uomini strettamente legati alla componente fondamentalista – e quindi in una certa misura ostile al presidente – come il Ministro degli Esteri Manuchehr Mottaki, assai vicino ad Ali Larijani (ex capo-negoziatore sul dossier nucleare).
A latere di questo complesso equilibrio politico si registra poi il crescente nervosismo all’interno del clero, soprattutto quello non direttamente coinvolto con la politica, che vede nell’attuale crisi un pericolosissimo elemento di delegittimazione, potenzialmente disastroso per l’intera comunità clericale sciita.
Perfino nel comparto della sicurezza, all’interno degli stessi Guardiani della Rivoluzione, si vedono progressivamente emergere posizioni di dissenso. Neppure qui troviamo ormai un blocco compatto e fedele all’esecutivo. Il quadro che ne emerge non è perciò una sorta di “Impero dei Pasdaran”, ma semmai un sistema attualmente dominato da una loro fazione.
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Non interference is back by Marta Dassù, Corriere della Sera