La sponda della Serbia tra le grandi potenze
Piazza Rossa di Mosca, 24 giugno: alla parata (ritardata a causa della pandemia) per il 75esimo anniversario della vittoria sui nazisti, il presidente serbo Aleksandar Vučić è ospite d’onore di Vladimir Putin, in scarna compagnia di qualche satrapo post-sovietico; “abbiamo ottenuto la libertà dopo la Seconda Guerra Mondiale grazie all’Armata Rossa. La Serbia non riscrive la storia”.
Aeroporto di Belgrado, 21 marzo: Vučić accoglie l’Airbus 330 proveniente dalla Cina con a bordo dispositivi sanitari, personale medico e un carico ancora più imponente di propaganda di regime; a legare i due Paesi è un’“amicizia d’acciaio, nel bene e nel male” e Xi Jinping s’è rivelato “non semplicemente un amico, ma un fratello”.
La fatale attrazione di Belgrado per Pechino e Mosca non appare certo come una novità. Se da un lato il presidente serbo – in carica dal maggio 2017 e in precedenza primo ministro per tre anni – ha già sottoscritto insieme all’Ungheria un piano per la costruzione di una linea ferroviaria Budapest-Belgrado nell’ambito della Nuova Via della Seta cinese, dall’altro la Serbia è tradizionalmente percepita come avamposto russo nei Balcani: la sua società è ben disposta rispetto al Cremlino ed è la più euroscettica della regione.
Eppure, la più recente photo opportunity di Vučić non è stata con Xi o Putin, ma con Ursula von der Leyen: a Bruxelles, nella sede della Commissione europea, il 26 giugno.
In mezzo a questi scatti, a dare corpo e plastica duttilità alle pose geopolitiche di Vučić, già ministro dell’Informazione sotto Slobodan Milošević e oggi incontrastato padre-padrone del Paese, sono stati un exploit e un flop. L’exploit è quello del suo Partito progressista serbo (Sns, di centro-destra), che alla guida di una coalizione chiamata “Per i Nostri Bambini” ha incassato oltre il 60% dei consensi alle elezioni legislative del 21 giugno – le prime a tenersi in Europa dopo lo stop primaverile dovuto al virus. Risultato che gli ha fruttato una maggioranza di oltre due terzi dei seggi in Parlamento. Le opposizioni sono invece salite sull’Aventino – la partecipazione al voto non è arrivata al 50% – o non sono riuscite a superare la soglia di sbarramento del 3%, col risultato di svuotare l’assemblea di Belgrado di una voce europeista.
Il flop è invece quello della madre di tutte le photo opportunity che Richard Grenell, inviato speciale dell’amministrazione USA per il dialogo fra Serbia e Kosovo, stava preparando alla Casa Bianca, dove contava di far officiare al presidente Donald Trump l’incontro della svolta nelle relazioni fra Belgrado e Pristina. Una stretta di mano che avrebbe dato una scivolosa accelerazione alla controversa ipotesi di uno scambio di territori tra la Serbia e la sua ex provincia, dichiaratasi indipendente nel 2008.
L’Amministrazione Trump, a caccia di rapidi seppur effimeri trofei da esibire in campagna elettorale, non s’era posta remore rispetto al potenziale impatto destabilizzante del land swap nella regione. L’idea è avversata dalla popolazione in Kosovo, pur se sostenuta dall’establishment politico oggi al potere, ma può anche essere un precedente pericoloso per i Balcani, dove le ceneri dell’ex Jugoslavia sono ancora incandescenti in prossimità dei confini contesi e lungo i perimetri abitati da minoranze etniche.
Più che sperare in un immediato raccolto in termini di consenso politico alle presidenziali del 3 novembre, è verosimile immaginare che Trump vedesse e veda nell’incontro dei leader serbo e kosovaro, l’opportunità – l’ennesima, in una geopolitica muscolare dominata dalla potenza narrativa delle immagini – di vestire i panni del mediatore internazionale che furono di Jimmy Carter con Anwar al-Sadat e Menachem Begin, o di Bill Clinton con Yitzhak Rabin e Yasser Arafat.
Ma ci ha pensato un comunicato stampa del Procuratore della Kosovo Specialist Chamber de L’Aja a stoppare l’appuntamento alla Casa Bianca, annunciando dieci capi d’imputazione per crimini contro l’umanità a carico del presidente kosovaro Hashim Thaçi durante la guerra di poco più di vent’anni fa, quando era capo politico dell’esercito di liberazione del Kosovo. Saltata la partecipazione di Thaçi (e, a ruota, anche quella del neopremier Avdullah Hoti) e rinviato a data da destinarsi il vertice negli Stati Uniti, Vučić è tornato a guardare all’attore politico che nell’ultimo decennio ha tenuto la barra del dialogo tra Belgrado e Pristina: l’Unione Europea.
Quello che doveva essere il weekend di Washington si è così trasformato nel fine settimana di Bruxelles. Von der Leyen e il presidente del Consiglio europeo Charles Michel hanno ricevuto a distanza di poche ore prima Hoti e poi Vučić per rilanciare, da un lato, l’orizzonte europeo del negoziato fra Belgrado e Pristina che era stato smorzato dalla fuga in avanti di Washington e, dall’altro, la prospettiva europea dei Balcani acciaccata dalla svolta sempre più autocratica in atto in Serbia.
Sul dossier Balcani, del resto, l’Unione potrebbe tornare presto al posto del conducente; proverà a farlo già domenica 12 luglio, ospitando a Bruxelles il primo meeting nel quadro del dialogo fra Belgrado e Pristina da quasi due anni.
La Germania di Angela Merkel, appena approdata alla testa della presidenza di turno del Consiglio della UE, avrà una notevole gatta da pelare nelle settimane – se non nei mesi – a venire con il negoziato sul prossimo bilancio pluriennale in cui integrare un poderoso Recovery Fund, il “Next Generation EU” sulle cui dimensioni e sulla cui ripartizione fra sussidi e prestiti è in atto un serrato duello fra le varie anime degli Stati membri.
Nonostante il difficile compito, Berlino non potrà distrarsi su tutti gli altri fronti che vedono l’Unione Europea attore protagonista, dalla transizione ecologica alla sovranità digitale, passando per la nuova postura geopolitica che dalle prime battute del suo mandato la tedesca von der Leyen ha voluto come pilastro del lavoro della Commissione. Era stata proprio la Cancelliera Merkel ad avviare, nel 2014, il “Processo di Berlino”: un’iniziativa volta a favorire la cooperazione regionale fra Paesi dei Balcani occidentali e ad accompagnare il loro cammino verso l’integrazione europea, attraverso una serie di appuntamenti e un summit annuale.
Adesso tocca ancora una volta alla Germania dare il colpo di reni necessario perché di fronte alla serrata marcatura di Cina e Russia e alle vertiginose verticalizzazioni degli Stati Uniti sia invece l’Europa ad andare in rete.
Non sarà semplice. In ottica regionale, qualche timido passo in avanti si è registrato nell’ultimo periodo: dopo una titubanza iniziale, la Commissione ha predisposto un pacchetto di 3,3 miliardi di euro di assistenza ai Balcani occidentali per le conseguenze del Covid-19 e ha presentato i quadri negoziali per avviare l’adesione di Macedonia del Nord e Albania – dopo il faticoso via libera al Vertice di marzo. Il Montenegro ha comunicato la volontà di avvalersi della nuova metodologia per l’allargamento presentata da Bruxelles lo scorso febbraio e ha aperto l’ultimo capitolo negoziale – l’ottavo, quello sulle regole di concorrenza.
Eppure l’elefante nella stanza resta proprio la Serbia di Vučić: a differenza di Podgorica, Belgrado non ha aperto alcun nuovo capitolo negoziale (l’ultimo risale a dicembre), né ha dato segnali inequivocabili rispetto alla decisione di adottare la nuova metodologia, che introduce alcune novità rilevanti nell’ottica serba e nella prospettiva del dialogo serbo-kosovaro. Oltre a raggruppare i 35 capitoli negoziali in cluster tematici, infatti, la strategia presenta un meccanismo premiale per lo Stato candidato che avrà portato a termine con successo le riforme strutturali, attraverso il riconoscimento di maggiori risorse finanziarie o di una graduale integrazione in certe politiche europee; d’altra parte, però, si prevede un meccanismo sanzionatorio per eventuali rallentamenti o il mancato avanzamento nelle riforme, introducendo la possibilità di congelare, sospendere o azzerare i negoziati in certi ambiti, soprattutto se l’intoppo dovesse riguardare i “fundamentals” come democrazia e stato di diritto.
Se, da un lato, un Parlamento schierato in blocco dalla sua dà a Vučić la stabilità numerica per ventilare la concreta possibilità di chiudere uno storico accordo con Pristina, dall’altro lo stato di salute della democrazia in Serbia – secondo il nuovo rapporto “Nations in Transit” di Freedom House è il peggiore degli ultimi 20 anni – potrebbe far sollevare più di un sopracciglio nelle cancellerie europee. E far tornare di prepotente attualità il dilemma balcanico tra il mantenimento di uno status quo autoritario e la spinta verso una democratizzazione di per sé destabilizzante.
Il Parlamento europeo è diviso. C’è la cauta posizione dei popolari del PPE, la principale forza dell’emiciclo e della cui vasta ed eterogenea famiglia fa parte – benché, naturalmente, senza rappresentanza in Aula – anche il partito di Vučić. Socialisti e Democratici (S&D) invece stigmatizzano l’evoluzione dell’Assemblea serba in organo puramente ratificatore della volontà del presidente, e vedono, di fatto, all’orizzonte un nuovo insidioso caso Orbán.
Dopo l’incontro con von der Leyen, il presidente serbo s’è detto fiducioso: proseguimento del dialogo con il Kosovo “con il coinvolgimento dei principali Paesi europei” – Merkel e Emmanuel Macron incontreranno virtualmente Vučić e Hoti il 10 luglio -, completamento dei negoziati per l’adesione nei prossimi quattro anni, sotto la responsabilità del nuovo governo, e ingresso nell’Unione entro il 2026. Obiettivi realistici o piuttosto inviti al rilancio per Cina, Russia e Stati Uniti? I Balcani si confermano teatro di grandi manovre geopolitiche da parte delle potenze di un mondo sempre più multipolare e banco di prova per un’Unione Europea alla ricerca della maturità sulla scena globale.