La spinta dei giovani americani per il cambiamento: utopia o realtà?
Alla “March for Our Lives”, che lo scorso 24 marzo è riuscita a raccogliere più di 200.000 persone a Washington per chiedere leggi più restrittive sulle armi da fuoco, un elemento balzava agli occhi: i capi della protesta erano quasi tutti adolescenti. Come Emma Gonzalez, la 19enne studentessa della Florida, sopravvissuta al massacro alla Stoneman Douglas High School in febbraio, in cui il suo coetaneo Nikolas Cruz uccise 17 suoi compagni. La manifestazione è l’ultima in una serie di eventi che mostrano una tendenza sempre più evidente della politica americana degli ultimi anni: i giovani assumono un ruolo da protagonisti del discorso politico. Nelle parole della stessa Gonzalez: “lottate per le vostre vite, prima che qualcun altro sia costretto a farlo per voi”.
Dalla prima campagna elettorale di Obama nel 2008, passando per Occupy Wall Street e arrivando fino ai casi più recenti di Black Lives Matter e #metoo, i movimenti sostenuti da giovani attivisti si sono moltiplicati; sono anche diventati una delle forme più efficaci dell’opposizione al Presidente Trump. Questo rinnovato e sostenuto attivismo ha spinto molti osservatori a sostenere che i giovani americani sarebbero alle soglie di una “rivoluzione politica”, e a creare evocativi paralleli con altre stagioni turbolente e di cambiamento, come gli anni Sessanta delle manifestazioni per i diritti civili o contro la Guerra del Vietnam.
In effetti, la potenzialità dei millennial (i giovani nati tra gli anni ‘80 e la fine degli anni ’90) di portare un cambiamento sostanziale alla società è già un dato di fatto, motivato dalla loro stessa consistenza numerica: se secondo previsioni nel 2019 supereranno i loro padri, i baby boomer, come generazione più numerosa, questo status è già realtà se si guarda alla composizione del mercato del lavoro. Gli effetti di questo gruppo sociale sull’economia e sulla maggior parte delle questioni sociali, grazie a nuove abitudini di consumo e stili di vita, sono stati ampiamente testimoniati. Ed è una differenza non di poco conto con la letteralmente “vecchia” Europa, dove l’anzianità della popolazione è un problema in molti Paesi. Ma i millennial sono in grado di cambiare anche la politica?
Da una prima, rapida occhiata, sembrerebbe di sì: secondo i dati raccolti da Pew Research Institute, la generazione dei millennial, nonostante la difficoltà di incasellare in un’unica narrazione un gruppo sociale composto da più di 70 milioni di persone, appare decisamente più liberal rispetto al mainstream politico. Ciò accade su temi cruciali quali la liberalizzazione delle droghe leggere, le relazioni razziali, il possesso di armi e il rispetto dell’ambiente. Non solo: anche veri e propri capisaldi dell’American way of life appaiono messi in discussione dai giovani, come il ruolo della religione – con sempre più millennial che si dichiarano agnostici –, l’eccezionalismo americano nel mondo e la supremazia del libero mercato. Addirittura il 72% sostiene che il mercato ha bisogno della regolamentazione statale per funzionare bene. Sono idee che possono preludere a un capovolgimento del sistema politica americano. E del cui impatto politico si è avuto un assaggio alle scorse elezioni presidenziali, con il sostegno in massa alle primarie del Partito Democratico da parte degli elettori sotto i 30 anni per Bernie Sanders, candidato indipendente presentatosi apertamente come “socialista”.
Tali idee radicali (perlomeno per gli standard d’Oltreoceano) non devono apparire solamente un abbaglio dovuto alla giovane età rispetto alla tradizione del Paese. Esse infatti sottendono a una determinata condizione sociale e a una complessa visione del mondo. Dopotutto, si tratta di una generazione votata alla diversità, con il 44% di millennial che appartiene a minoranze etniche (un trend in aumento, come indica tra gli altri la Brookings Institution). I giovani americani fungono da ponte verso un futuro pienamente multietnico degli Stati Uniti come paese composto da una “maggioranza di minoranze”. Non c’è da stupirsi quindi che alcuni dei topoi tradizionali della politica americana siano messi in discussione, in quanto non più utili a rappresentare una società che cambia. A partire dalla stessa idea di nazione multietnica: il concetto di melting pot è ora superato da quello di una società fatta di individualità differenti – un mosaico più che una miscela indistinta.
Il secondo asse su cui proiettare il ruolo politico dei millennial è, come sempre quando si parla di politica, l’economia. I venti-trentenni sono la generazione più istruita di sempre, sia per numero totale di lauree conseguite che come percentuale di laureati sulla popolazione totale. Ma se in passato la laurea era un viatico quasi automatico per una vita migliore e salari più elevati, i giovani che sono cresciuti durante la recessione ne hanno subito gli effetti in maniera sproporzionata. La carenza di lavori ben pagati, i costi per l’istruzione in aumento, il peso dell’indebitamento individuale e i salari stagnanti hanno creato una tempesta perfetta proprio negli anni in cui i millennial si affacciavano sul mercato del lavoro: secondo uno studio della Federal Reserve di San Francisco, dal 2009 i salari per i neo-laureati sono cresciuti del 60% in meno rispetto alla popolazione generale.
Basandosi su questo affresco socio-economico, non c’è quindi da stupirsi che le nuove generazioni si siano fatte portavoce di istanze e idee che mettono in discussione anche in profondità le regole di funzionamento del sistema politico americano fino a oggi. Si tratterebbe, dopotutto, di quella che il sociologo James Chowning Davies definì come “rivoluzione delle aspettative crescenti”: storicamente, le rivoluzioni sarebbero sempre legate a una situazione in cui un periodo prolungato di crescita economica e sociale è seguito da un brusco arresto. Lasciando così ampi strati di popolazione vittime di aspettative di crescita costante tradite.
Le potenzialità affinché i giovani americani abbiano un impatto profondo sulla politica sono presenti, quindi. E in parte, il cambiamento è già in corso: dopotutto, il mero fattore demografico sarà fondamentale nello spingere il centro di gravità della politica USA verso sinistra. Non bisogna però cadere nella tentazione di immaginare che tale spostamento implichi un automatico vantaggio competitivo del Partito Democratico nei confronti dei Repubblicani, con un futuro egemonico basato su diversità, diritti e ambiente. I millennial hanno già dimostrato ampiamente di andare oltre le tradizionali divisioni politiche: come testimonia il successo di Sanders, partito da indipendente e solo in seguito iscrittosi ai Democratici, i giovani americani tendono a non riconoscersi nelle piattaforme dei principali partiti e a considerarsi realmente indipendenti. Un ingresso in massa dei giovani nella politica americana quindi non si limiterebbe a spostare l’egemonia da un partito all’altro, ma potrebbe cambiare in profondità i rapporti tra partiti e le stesse regole di funzionamento della politica.
Potrebbe. Sono le tempistiche e le modalità di questo impatto a non essere ancora chiare. Infatti, per essere veramente efficaci e prendere in mano il sistema politico i millennial dovranno superare alcuni limiti evidenti. Se le proteste e manifestazioni portate avanti dai giovani americani sono state un successo dal punto di vista comunicativo, si è spesso trattato di “one-issue protests”: sono state condotte da gruppi ristretti con interessi molto specifici. Quello che è mancato fino a ora è una presa di coscienza collettiva, che vada oltre le singole battaglie per costruire qualcosa di duraturo. A questo si lega la tradizionale avversione al voto da parte degli elettori più giovani, soprattutto al di fuori delle più polarizzanti elezioni presidenziali: alle ultime elezioni di midtermdel 2014 andò a votare solo il 20% degli elettori tra i 18 e i 29 anni. Una tendenza che si inserisce in un più generale crollo della fiducia nei confronti delle istituzioni, e che non si limita agli Stati Uniti.
Se c’è una cosa che la storia della politica americana ha insegnato, è che la mera forza dei numeri non basta per avere l’egemonia: molto spesso, anzi, i movimenti che hanno successo sono portati avanti da minoranze molto organizzate, non da maggioranze. Basti pensare al caso recente del Tea Party, che è riuscito a imporre la propria agenda al Partito Repubblicano. Ma tali minoranze organizzate devono rimanerlo a lungo per contare. Perché la rivoluzione dei millennial, quindi, sia possibile, è necessario andare oltre le singole battaglie: creare un movimento articolato e sostenuto nel tempo, in grado di collegare istanze separate; trovare rappresentanti nelle istituzioni e appoggiare candidati alle elezioni, da quelle locali a quelle nazionali. Insomma, è necessario che i giovani comincino a fare politica. La ricompensa? Ereditare il mondo per farlo finalmente a loro immagine.