international analysis and commentary

La “Signora” birmana e la sua difficile storia politica

1,871

Quando la Birmania viveva sotto la rigida oppressione della dittatura militare, era un’icona mondiale della lotta per il rispetto dei diritti umani. Figlia di Aung San, generale e Primo Ministro birmano che più di tutti si oppose all’occupazione britannica tra il 1938 e il 1943, Aung San Suu Kyi è oggi in carcere dopo il golpe organizzato per spodestarla dal generale Min Aung Hlaing.

La storia della leader della Lega Nazionale per la Democrazia è un intreccio di merito e contraddizioni. Almeno secondo l’Occidente.

Nata nel 1945 da colui che venne definito “un eroe nazionale”, nel dna di Suu Kyi non manca l’amore per la patria, nonostante gli studi ad Oxford e la relazione, poi divenuta matrimonio, con l’accademico britannico Michael Aris. Così, nel 1988, torna in Birmania, dove deve assistere la madre malata. È lì che, proprio in quel periodo, inizia la sua esperienza politica.

Il Myanmar è scosso dalle proteste giovanili portate avanti contro il regime militare di Ne Win e lei, rifacendosi alla memoria di suo padre, decide che sia giusto scendere in campo. Fonda la Lega Nazionale della Democrazia, con la quale organizza marce e comizi in tutto il Paese. I riferimenti culturali più importanti sono due: Martin Luther King e Mahatma Gandhi. Figure che, come a lei accadrà nel 1991, sono stati insigniti del premio Nobel per la Pace grazie alla loro lotta incessante per la tutela dei diritti umani. Le iniziative di Suu Kiy, però, non piacciono al regime birmano, che nel 1989 la mette agli arresti domiciliari. Le concede però una possibilità, per evitare di scontare la pena detentiva: lasciare per sempre il Paese.

Aung San Suu Kyi ritira il suo premio Nobel, nel 2012, alla fine della sua prigionia domestica

 

Ma i suoi ideali sono troppo forti e a questo ricatto decide di non cedere. Così, gli anni trascorsi forzatamente tra le mura della sua abitazione si moltiplicano e nonostante il 1990 veda il suo partito stravincere le elezioni, con 392 seggi conquistati su 485, la giunta militare alla guida della nazione non permette alla Lega di formare un governo.

Mentre è chiusa in casa a dirigere le operazioni, la Fondazione Nobel decide di assegnarle il premio per la pace nel 1991, definendola anni dopo, per bocca del responsabile del comitato del Nobel Thorbjorn Jagland, “un dono prezioso per tutta la comunità mondiale”.

Suu Kyi diventa così l’emblema della lotta contro le oppressioni e la sua figura irrompe nel dibattito pubblico. L’inizio del nuovo millennio è un’occasione per l’Occidente di far sentire la propria voce in merito e lo stesso Presidente della Repubblica italiana Carlo Azeglio Ciampi, nel giugno del 2005, manda un messaggio alla leader birmana. “L’Italia segue da tempo, con attenzione e preoccupazione, la Sua coraggiosa battaglia per la democrazia e i diritti umani – scrive Ciampi – nobilitata dal prezzo gravoso che Ella ha pagato e sta pagando nella testimonianza di irrinunciabili ideali.

Finalmente il 13 novembre 2010, dopo le elezioni vinte dal generale Thein Sei che si dimostra essere un uomo più aperto alle riforme democratiche, Suu Kyi viene liberata. Meno di due anni più tardi, nell’aprile del 2012, ottiene un seggio al parlamento birmano, diventando la numero uno dell‘opposizione.

Per la vera svolta, però, deve ancora attendere ed è solo nel 2015 che, grazie ad un impressionante consenso elettorale (255 seggi su 285 disponibili), Suu Kyi sale al potere. Lo fa mettendo come Presidente un suo stretto consigliere e assumendo il ruolo, creato appositamente per lei, di Consigliere di Stato (State Counsellor). Di fatto, diventa il capo del governo. Inizia da quel momento a viaggiare in Occidente, venendo accolta come un simbolo di pace e democrazia. Iconica in quei suoi lunghi vestiti tradizionali e con un fiore dietro l’orecchio che, negli appuntamenti istituzionali, non l’abbandona quasi mai. Tra la Birmania e l’Occidente si instaura così un rapporto di grande amicizia. L’ex Premier inglese Gordon Brown la ritrae nel suo volume Eight Portraits come modello di coraggio civico per la libertà e nel 2013, ospite in Italia, le viene conferita la cittadinanza onoraria di Roma.

Questo idillio tra l’Occidente e la “Signora” birmana nel 2017 inizia a mostrare le prime crepe. In quei mesi il Myanmar è protagonista di una brutale persecuzione ai danni dei Rohingya, una minoranza musulmana che vive prevalentemente al nord del paese. I militari compiono un massacro e tutto questo accade senza che Suu Kyi dica nulla. Con i mesi, il silenzio della leader si trasforma in complicità con le milizie armate, fino a che, nel 2019, è lei stessa a presentarsi alla Corte dell’Aja, un tribunale istituito appositamente per i crimini internazionali più seri, difendendo il suo paese dall’accusa di genocidio. A denunciarla era stato il Gambia, uno Stato africano a maggioranza musulmana.

E’ l’evento che segna la rottura. In breve tempo, i paesi occidentali si pentono del consenso dato alla leader birmana e iniziano a revocarle le onorificenze concesse. Inizia il Canada con la cittadinanza onoraria, poi è il turno del comune di Oxford che le ritira tutti i premi, e infine Amnesty International le toglie la targa di “Ambasciatore della coscienza”. Stesso atteggiamento da parte dell’Unione Europea, che con il proprio Parlamento ha deciso, pochi mesi fa, di escluderla dall’elenco dei vincitori del Premio Sakharov per i diritti umani, riconoscimento che le era stato conferito nel 1990.

Un declino rapidissimo, quello di Suu Kiy, che ha il suo epilogo nella giornata di ieri, 1° febbraio 2021, con l’arresto messo in atto dopo un colpo di Stato promosso dalle forze armate del Paese, in protesta contro l’esito delle elezioni generali del novembre 2020, ritenute fraudolente. A supportarla, questa volta, non ci sarà l’Occidente schierato in modo compatto. Nonostante dagli Stati Uniti sia arrivata una velata ipotesi di appoggio, con il democratico Bob Menendez che ha chiesto di condannare con forza l’arresto di Suu Kyi e degli altri leader, e con la condanna del golpe da parte di Joe Biden, il blocco di Ponente sembra ormai aver voltato le spalle a quello che, un tempo, considerava l’esempio perfetto di umanità e giustizia.