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La scommessa afgana di Biden e la NATO

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 Per decisione del Presidente Biden, la NATO si appresta a chiudere la sua guerra dei vent’anni, quella in Afghanistan. La scadenza per il ritiro americano, fortemente simbolica, è stata fissata l’11 settembre 2021 – anche se non è del tutto chiaro quante forze speciali potrebbero restare nel Paese anche dopo quella data.

Il ritiro dall’Afghanistan chiuderà una campagna politico-militare ventennale

 

E’ stato proprio quello afgano il dossier principale sul tavolo degli incontri di Bruxelles che il Segretario di Stato Antony Blinken ha avuto il 14 aprile. Gli incontri, in parte virtuali, hanno coinciso con l’importante visita in Germania del Segretario alla Difesa, Lloyd Austin, per confermare la presenza delle truppe americane nel Paese – ponendo così fine all’atmosfera di incertezza prodotta dai ripetuti annunci dei quattro anni di Donald Trump su una netta riduzione dello schieramento sul territorio tedesco.

Nel frattempo, la questione russa è tornata decisamente al centro dei compiti dell’Alleanza, in chiave di contenimento di un problema che in realtà non può essere risolto alla radice. Potremmo dire, da questo combinato disposto, che la NATO torna alle sue origini, con un baricentro nel cuore dell’Europa, un avversario geopolitico ben noto e ben definito, e la rinuncia a un impegno che di fatto sembrava permanente in Afghanistan.

Le cose sono più sfumate, in effetti, e più problematiche.

Anzitutto il ritiro afgano: non stanno mancando le critiche, anche da parte di alcuni sostenitori di Joe Biden, per le stesse ragioni che, dopo molte incertezze, convinsero Barack Obama a temporeggiare e ascoltare il parere dei militari. Obama finì per ordinare un massiccio aumento della presenza militare americana nel Paese, nell’arco del primo anno e mezzo del suo mandato – oltre ad autorizzare poi l’uccisione di Osama bin Laden in territorio pakistano nel maggio 2011.

In sostanza, un calendario comunque arbitrario, fissato a Washington, sovrasta ora la logica strategica sul terreno in Asia centrale, accompagnandosi al tentativo malcelato di salvare la faccia all’Occidente grazie a una “trattativa” con i talebani che non dia la sensazione di un ritiro unilaterale. Comunque si voglia dipingere la decisione sulla fine della missione, si tratta di un insuccesso dopo il grande impiego di risorse e sangue di questi vent’anni, quantomeno se l’obiettivo era dall’inizio quello dello “state building” in una propaggine estrema del “grande Medio Oriente”.

Come spesso accade, si sta cercando di contenere i danni politici ridefinendo (al ribasso) l’obiettivo, appunto: se quello primario è stato di sopprimere la fonte degli attacchi terroristici su larga scala, questo si può dire per ora raggiunto. Più realisticamente, la priorità di Washington sembra davvero chiudere un triste capitolo e passare oltre.

Le critiche sono dunque legittime, ma le motivazioni di politica interna americana sono forti (Biden, come prima di lui avevano fatto sia Trump sia Obama, ha promesso all’opinione pubblica di riportare a casa i concittadini in divisa), e anche in termini di politica estera l’Afghanistan è chiaramente un peso sproporzionato rispetto ai vantaggi che se ne possono trarre.

Resta però anche oggi la domanda cruciale che Obama (non disposto a farsi dettare l’agenda dai suoi generali, almeno quanto l’attuale Presidente) pose a suo tempo ai propri consiglieri, senza mai ricevere una risposta convincente: chi può assicurarmi che non dovremo tornare militarmente in Afghanistan qualche mese dopo il ritiro, magari a seguito di un grave attentato terroristico contro obiettivi americani o di uno stretto alleato? In subordine, c’era allora, come ora, un impegno politico mancato, cioè quello verso i giovani afgani – soprattutto le donne – a cui è stato promesso per vent’anni che gli sforzi della “comunità internazionale” avrebbero trasformato per il meglio il loro Paese; vedremo come i Talebani o i loro successori tratteranno la popolazione civile.

Donne afghane in fila al seggio per le elezioni presidenziali

 

E’ tutta qui allora la duplice scommessa di Biden, che trova un tacito consenso tra gli alleati europei per la semplice ragione che farà risparmiare risorse a tutti, almeno nel breve periodo. In altre parole, la scelta di Washington piace a molti non perché è necessariamente lungimirante, ma perché toglie un problema dal tavolo.

Puntava alla ricostruzione di un consenso transatlantico anche la visita berlinese del Segretario alla Difesa, che ha avuto il valore di un altro forte segnale: ha confermato lo storico impegno americano verso la Germania come architrave dell’ordine europeo. L’America ora non mette sotto pressione i vecchi alleati con la minaccia di andarsene, ma piuttosto con la rassicurazione che intende restare. Ribadendo gli impegni multilaterali per la sicurezza comune, spera così di incoraggiarli, invece di metterli alle strette. Gli europei devono fare certamente di più per la difesa del (loro) continente, soprattutto in anni in cui gli Stati Uniti spostano risorse nella regione indo-pacifica; ma la NATO può adattarsi con gradualità e senza strappi da parte di Washington. La fine della lunghissima missione afgana facilita questo processo di faticoso adattamento.

Una nuova NATO si sta cautamente configurando: con compiti meno ambiziosi per la proiezione di forza e influenza su scala quasi-globale, ma con una missione rilanciata (con qualche aggiornamento) in Europa.

Sempre, ovviamente, che non arrivi un vero “cigno nero” a stravolgere i piani e le previsioni. Non dimentichiamo che, fino al mattino dell’11 settembre 2001, l’amministrazione di G.W. Bush puntava a una politica estera di modesto realismo (“humble foreign policy”) che rinunciasse al “nation building” in terre straniere e lasciasse spazio alle pressanti priorità interne (le riforme ispirate al “compassionate conservatism”). Anche per la presidenza di Joe Biden – e forse per la stessa vicenda afgana – vale la regola aurea secondo cui i “Piani B” finiscono spesso per essere più utili delle scelte iniziali.