La Russia al bivio tra guerra limitata e negoziato sulla sicurezza europea
La minacciosa attività militare russa lungo le frontiere dell‘Ucraina è solo una spregiudicata pressione per obbligare l‘Occidente ad un compromesso geopolitico, o prelude realmente ad una imminente aggressione, come ritengono i governi americano e britannico? La prima interpretazione appare la più logica, dato che l’opzione alternativa sarebbe contraria agli interessi complessivi di Mosca.
Ma il continuo rafforzamento del dispositivo offensivo, le esercitazioni navali nel Mar Nero con navi affluite dal Baltico e dal Pacifico, la sistemazione di ospedali da campo, e le conversazioni intercettate dalla intelligence americana sembrerebbero giustificare l’allarmismo di Washington. Chi ha una certa età ricorda come analoghe attività militari nell’estate del 1968 servirono da un lato a premere sui riformatori di Praga perché tornassero alla ortodossia comunista, ma al tempo stesso per preparare la successiva invasione.
Una vera e propria guerra sarebbe controproducente per la Russia (così come lo sarebbe per gli europei la messa in atto delle sanzioni minacciate) non solo per il costo in vite umane, i danni economici e la impopolarità di una aggressione contro un popolo “fratello“. Ma anche per gli effetti antitetici agli obiettivi d politica internazionale che hanno ispirato la sfida di Putin: rafforzerebbe la volontà degli ucraini di porsi sotto l’ombrello della NATO, compatterebbe l‘Alleanza stessa che lui voleva dividere, e obbligherebbe l‘America e i suoi alleati a spostare (come già sta avvenendo) truppe e armamenti verso i paesi dell‘Europa orientale, laddove l’obiettivo principale di Mosca era proprio il ritiro di quelle forze dai paesi di recente adesione alla NATO.
Se crediamo che Putin sia un attore razionale e non, come pensano alcuni, un autocrate isolato che ascolta ormai solo i suoi risentimenti e la sua smania di rivalsa, dobbiamo cercare di capire quale sia un plausibile uso dell‘imponente apparato militare mobilitato che giovi agli interessi della Russia e non comporti costi umani e politici eccessivi.
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La finalità razionale può essere la preparazione di una guerra limitata, tale da restare al di sotto della soglia oltre la quale scatterebbe una compatta reazione drastica della Alleanza occidentale e un diffuso malcontento nella popolazione; oppure una vittoria nel “chicken game” con Washington che porti a negoziare senza indugi la rottura dell‘accerchiamento geopolitico.
Nella prima ipotesi, se fa testo il precedente della spedizione punitiva del 2008 contro la Georgia, assisteremmo ad una fulminea avanzata seguita da un rapido ritiro dopo la distruzione di infrastrutture, e inoltre una offensiva cyber e l‘aperta occupazione delle repubbliche ribelli con il riconoscimento della loro indipendenza; eventualmente anche l’ampliamento del loro territorio fino al vecchio confine amministrativo delle regioni di Donetsk e Luhansk.
I paesi NATO, come già annunciato, si asterrebbero da una inutile difesa della integrità territoriale dell‘Ucraina con le armi, ma non potrebbero fare a meno di adottare almeno in parte le promesse sanzioni, cadendo così nella propria trappola: si scaverebbe un fossato fra i massimalisti anglosassoni e gli europei occidentali, non disposti a morire (di freddo) per Mariupol; e anche fra questi e i polacchi e baltici, che si sentiranno traditi. Un bilancio doppiamente positivo per Mosca.
Nella seconda ipotesi, Putin manterrà la sua linea ambigua aspettando – ma non per molto – che Biden si decida a negoziare costruttivamente sulla architettura di sicurezza europea. Dove per “sicurezza” si intende un assetto più equilibrato dell’ordine europeo post-guerra fredda. Una rivendicazione che la Russia ha portato avanti negli ultimi venti anni, inascoltata. Lo stesso Putin l’aveva formulata con brutale chiarezza 15 anni fa, nel febbraio 2007, nel suo intervento alla Conferenza di Monaco sulla sicurezza europea (un incontro informale annuale di esperti e personalità politiche).
La nuova architettura dovrebbe comportare, oltre a limitazioni nella dislocazione di truppe e armamenti, la “finlandizzazione” dell‘Ucraina, propugnata tempo fa anche da Henry Kissinger, in cambio del ripristino della sua integrità territoriale. Per poter accontentare Mosca su questo punto essenziale, senza violare il principio di autodeterminazione, la neutralità dell‘Ucraina dovrebbe essere non imposta ma volontaria, come fu quella della Finlandia; e anzi sarebbe bene che il principio di autodeterminazione venisse ribadito in sede di preambolo e nella presentazione dell’accordo.
In questo secondo scenario il ritiro russo dal Donbass e la fine delle ostilità avverrebbero nel quadro degli accordi di Minsk del 2014 e 2015, mai sinora attuati: avrebbero quindi come contropartita la concessione di un regime di ampia autonomia (cosa ben diversa dall‘indipendenza) alle regioni di Donetsk e Luhansk. Il che richiede un’azione di persuasione su Kiev (il Cancelliere Scholz pare ci stia lavorando).
La trattativa che Putin forse ancora persegue sarà necessariamente con Washington. Non con la NATO e tanto meno con l‘UE, sia perché non sarebbero capaci di parlare con una voce sola (e caso mai sarebbe una voce attestata su un comune denominatore intransigente), sia perché non è nel suo interesse riconoscere le due organizzazioni occidentali come interlocutori validi. Le disposizioni di dettaglio potrebbero essere demandate a un negoziato multilaterale in sede OSCE, e così pure l’attuazione.
Nella fase attuale il ruolo degli europei può solo essere quello di esplorare le intenzioni e i margini di flessibilità russi, formulare proposte, vincere le resistenze del governo americano. È quello che stanno facendo il Presidente Macron e il Cancelliere Scholz. E che il governo italiano, grazie al suo ritrovato prestigio internazionale, dovrebbe fare in modo più deciso.
Questa strada potrebbe portare ad una minore instabilità della situazione in Europa Orientale, la fine delle ostilità nel Donbass, una mitigazione della nuova guerra fredda, la fine del dilemma sulla messa in funzione del gasdotto Nord Stream 2 e delle incertezze sulle forniture energetiche russe in generale: una “win-win situation”.
Il successo di questa eventuale scelta della via diplomatica non è certo garantito. Le resistenze del Congresso e le opinioni dei falchi in seno alla Amministrazione Biden potrebbero spingere ad allungare i tempi del negoziato su un nuovo trattato CFE (Conventional Forces in Europe), un rafforzamento delle misure di fiducia (CSBM) e il ripristino del trattato sui missili a gittata intermedia (INF); e ad irrigidirsi sul diritto dell‘Ucraina a scegliere con chi allearsi.
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La Russia non intende subire simili tergiversazioni. Giocherà le proprie carte nella consapevolezza della propria forza negoziale, come effetto della alleanza con la Cina, della debolezza americana post-Afghanistan e della dipendenza europea dalle forniture di gas russe.
Dobbiamo realisticamente fare i conti con la riluttanza a smobilitare le truppe schierate senza avere ottenuto nulla e quindi “perdendo la faccia”. Si andrebbe allora verso una utilizzazione delle forze mobilitate (anche se inizialmente solo a scopo intimidatorio) per una guerra limitata.
Un esito, probabilmente evitabile, che provocherebbe sofferenze e distruzioni al popolo ucraino, un nuovo smacco per l‘America, divisioni in seno all‘Alleanza atlantica, un incoraggiamento alla Cina a pianificare la riannessione di Taiwan.
Che ciò venga evitato senza scendere ad un indecoroso appeasement dipende in buona parte dal coraggio politico dei principali attori europei e dal ritorno alla diplomazia creativa del processo di Helsinki che portò prima alla Carta del 1975 e poi all’OSCE con la fine della Guerra fredda.