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La retorica del neo-Presidente: prendere Trump sul serio, non alla lettera

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Raramente come nella campagna elettorale del 2016 la retorica politica ha avuto un ruolo così marcatamente decisivo. In particolare, il vincitore Donald Trump ha dimostrato una strategia comunicativa coerente ed efficace, mirata a costruire in modo quasi ossessivo il proprio brand. Un vero e proprio “idioletto” – come i linguisti definiscono uno stile personale e altamente riconoscibile – basato su brevi formule ripetute e una sovrapposizione tra forma e contenuto.

Riassumendo in estrema sintesi la retorica trumpiana, essa consiste in un discorso che procede per anafore (la ripetizione di una parola iniziale), superlativi e iperbati, in quello che appare quasi un flusso di coscienza, che mima l’immediatezza del parlato quotidiano delle persone comuni.

Si tratta, come è stato indicato già da più parti, di una lingua volutamente semplice, ridotta all’osso, al livello di un bambino della scuola elementare. Che a sua volta serve a veicolare una visione del mondo altrettanto semplificata, dove la decadenza degli Stati Uniti d’America è un fatto incontrovertibile; come appaiono ovvie le sue cause, da trovare nella concorrenza da parte della Cina, nell’immigrazione fuori controllo, nelle troppe avventure all’estero e nell’incapacità delle élite corrotte di offrire soluzioni. A fronte di queste sfide, Trump contrappone se stesso come il leader in grado di risolvere i problemi e ‘rendere l’America di nuovo grande’: se gli altri sono ‘stupidi’, lui è ‘la persona più intelligente che si possa immaginare’ e ‘si circonderà dei migliori che riuscirà a trovare’.

Un tale modo di parlare mira scientificamente a limitare la complessità al minimo, riducendo ogni questione problematica a uno scontro tra ‘noi’ e ‘loro’, entità liquide e proteiformi. Il tutto senza lesinare negli attacchi personali e incendiari, in una crociata costante contro la correttezza politica dell’establishment. Seguendo una tattica paradossale che secondo una ricerca della TU Delft elimina la spiegazione del “cosa”, tradizionale strumento del dibattito politico, sostituendola con l’identificazione del “chi” e del “perché”.

Che una tale retorica abbia avuto successo è sotto gli occhi di tutti. Non soltanto per l’ovvia ragione che ha contribuito a portare un candidato decisamente sfavorito alla Casa Bianca. Ma soprattutto, per essersi inserita sottopelle nel subconscio del paese. Ne sono testimonianza perfino le numerose imitazioni emerse durante la campagna elettorale – per quanto satiriche e, come spesso accade, critiche. Oppure le sparate a effetto rilanciate dai social network. Nella politica del XXI secolo, diventare un meme (cioè un’immagine o un’idea che si propaga in maniera virale attraverso Internet) è il principale segnale di una possibile egemonia intellettuale.

Ora che Trump è il nuovo presidente degli Stati Uniti, la sua visione del mondo smette di essere marketing elettorale e diventa manifesto di governo. Diventa quindi interessante capire come la sua retorica potrà realizzarsi o se, al contrario, verrà annullata dal contrasto con la realtà. In particolare, una delle questioni più importanti sembra essere misurare l’effettiva coerenza della sua visione: sia al suo interno, come sistema di valori, che rispetto alle condizioni reali del paese.

Per quanto riguarda il primo aspetto, già molto è stato scritto sulla visione di Trump, ovvero sul contenuto veicolato dalla sua retorica: una serie di proposte protezioniste in economia, isolazioniste in politica estera, con un forte accento sul contrasto all’immigrazione e una sostanziale indifferenza ad alcune questioni sociali (concentrandosi però sulle gravi delusioni della classe media bianca), insieme a una dose di pragmatismo. Idee che non sono propriamente nuove per la tradizione americana, derivanti da un assemblaggio di vari movimenti ‘populisti’, dai know nothings di inizio secolo ai più recenti Tea Party, fino a qualche spunto dell’altright, che Trump è riuscito a fare suoi, in completa opposizione all’ideologia politica dominante nello stesso Partito Repubblicano.

Questo però non basta a innalzare il trumpismo a ideologia alternativa: Trump stesso non ha mai dato l’impressione di curarsene, preferendo tratteggiare suggestioni politiche abbastanza generali da poter essere flessibili, senza curarsi delle possibili contraddizioni. Rendendo così molto difficile vaticinare come agirà il nuovo presidente: se da un lato mantenere tutte le promesse sembra una missione impossibile, vista anche la non coincidenza di pensiero con i Repubblicani al Congresso, dall’altro è anche difficile pensare che Trump accetti di mettere da parte la sua azione di riforma dell’ordine costituito. Come testimonia il discorso di insediamento, che, tra una promessa di restituire il potere al popolo e annunci protezionistici, ha ripreso e amplificato i temi della campagna elettorale, senza fare concessioni. È più quindi facile aspettarsi una presidenza che dovrà oscillare tra questi i due estremi per mantenersi in sella.

Forse però cercare a tutti i costi una coerenza interna nella retorica di Trump è un falso problema. Torna utile a questo proposito il fulminante giudizio di Peter Thiel, fondatore di Paypal e consulente del Presidente eletto: “Il problema dei media è che prendono Trump alla lettera, ma non sul serio. Invece, credo che molti degli elettori di Trump lo prendano sul serio, ma non alla lettera”. Secondo questa interpretazione, ciò che conta è andare oltre gli artifici retorici (la lettera) per cercare il vero sistema di valori all’interno di quanto promesso da Trump (prenderlo sul serio). Sempre Thiel indica con un esempio come questo possa essere fatto: “Quando gli elettori sentono la proposta di costruire il muro o quella di schedare i musulmani, la loro reazione non è chiedere ‘costruirai un muro come la Grande Muraglia cinese?’, oppure ‘come farai a realizzare dei test efficienti?’. Quello che sentono è ‘avremo una politica dell’immigrazione più rigida ed efficace’”.

La retorica è dunque usata come strumento per fare allusioni piuttosto che dare spiegazioni. Un esempio di questo è la visione di politica estera del neo-Presidente: quella che da molti è stata interpretata come una retorica di rinuncia alla postura imperiale di Washington in realtà nasconde un’intenzione di recuperarla, opponendosi alla dispersione di risorse da overstretching. In una tale situazione, la mancanza di una vera e propria ideologia coerente potrebbe addirittura rivelarsi un asset per Trump, in quanto potrebbe permettergli di giocare su più tavoli allo stesso tempo.

Lo stesso sembra valere per la coerenza esterna, ovvero quanto la narrazione trumpiana di un’America in declino, descritta nel discorso inaugurale addirittura come ‘carneficina americana’ (american carnage) rispecchi una situazione effettiva. A osservare strettamente i dati, tale visione fosca viene molto ridimensionata, per lo meno dal punto di vista dell’economia: negli Stati Uniti, la disoccupazione è al livello più basso dal 2007, mentre la crescita per il 2016 è prevista a quota 3,2%. Di nuovo però, prendere alla lettera Trump non è sufficiente per capirne la risonanza nell’ambito del suo elettorato; bisogna scendere più a fondo e prenderlo sul serio.

Trump, con il suo messaggio sopra le righe, è riuscito a intercettare un malessere sordo e in un certo senso irrazionale che serpeggiava in una certa parte della popolazione statunitense, minoritaria ma comunque consistente, indicata con eccessiva semplificazione come ‘colletti blu di etnia bianca impoveriti’. Un malessere che è solo in parte economico, e più propriamente esistenziale, raffigurato plasticamente da un paradosso: secondo un sondaggio del Pew Institute, il 60% dei cittadini statunitensi si ritiene soddisfatto della propria situazione, mentre solo il 25% si dice soddisfatto della direzione del paese nel suo insieme. Questa distanza tra la percezione di relativo benessere individuale e un pessimismo collettivo offre la chiave del successo della retorica di Trump: non promesse precise di miglioramento individuale, ma la suggestione di un rilancio di un’idea collettiva.

Detto ciò, sarebbe sbagliato aspettarsi che la parziale mancanza di coerenza basterà per depotenziare l’azione di Trump. Se non altro, una retorica volutamente incendiaria e di opposizione, confermata nel discorso di ieri, si trova a essere per la prima volta strumento di governo: i recenti tweet e dichiarazioni del presidente eletto su capisaldi come NATO, Russia e special relationship con il Regno Unito ne testimoniano il potenziale esplosivo.

Solo nei prossimi mesi, quando Trump prenderà decisioni dalla Casa Bianca, sarà possibile dire se il mondo riuscirà a normalizzare il neo-Presidente, agendo tra le righe dei suoi proclami, o se invece continuerà a prenderlo alla lettera.