La questione ambientale è una cosa seria
Il duello tra Donald Trump e Greta Thunberg al Forum di Davos, il 21 gennaio, è stato uno spettacolo di poca sostanza, e soprattutto poco utile alle decisioni serie e impegnative che vanno prese per gestire le questioni ambientali. Senza nulla togliere alla dignità della funzione che ciascuno dei contendenti ritiene di svolgere (Trump come paladino di una politica “volitiva” e ottimistica contro il catastrofismo, Thunberg come neo-Savonarola e coscienza critica), le argomentazioni che hanno usato sono semplicistiche al punto da offuscare la realtà e le opzioni che abbiamo di fronte. C’è una sottile linea di demarcazione tra l’enfasi retorica e la mistificazione, ed entrambi gli speaker a Davos l’hanno purtroppo varcata.
Non si tratta qui di porli sullo stesso piano – si possono avere opinioni e simpatie diverse, o vedere nello scontro una specie di riedizione di Davide contro Golia, e ognuno è libero di scegliere per chi parteggiare. Si tratta però di capire se un dibattito del genere sia ormai utile a una qualche causa. Nei termini emersi a Davos, non può davvero esserlo.
Il motivo è duplice: da una parte, l’attuale Presidente americano può contare sulla straordinaria forza economica del suo Paese ma ha ben poche valide ragioni per evitare o rimandare una profonda transizione dei modelli produttivi che è già in atto (anche negli USA); dall’altra, la famosissima attivista svedese punta sui sensi di colpa e sulle paure delle società più ricche ma non si pone il quesito di come realizzare la trasformazione che a suo parere salverebbe il pianeta. Il primo duellante propone il modello di “America First” (che, per definizione, può forse funzionare soltanto negli Stati Uniti, i quali già godono di livelli di benessere molto alti e di altri vantaggi comparati, come una massiccia produzione energetica fossile). Il secondo duellante propone un’espiazione dei peccati del progresso e forse del capitalismo (ma si disinteressa degli effetti indiretti che questa penitenza potrebbe avere sul benessere globale, sui conflitti tra Stati, e sulle prospettive delle società che stanno solo ora realizzando il proprio “decollo” industriale).
Le posizioni assunte da Donald Trump sono in realtà minoritarie nel suo Paese. E’ vero che c’è una porzione di opinione pubblica e di mondo del business fortemente scettica sul cambiamento climatico antropico (anche perché la scienza, in realtà, non ci sa ancora dire esattamente in quale percentuale i cambiamenti siano attribuibili ad attività umane, e lascia dunque aperta una scelta politica); ed è vero che alcuni, negli Stati Uniti, sono comunque contrari a pagare subito un prezzo in termini di competitività economica per trarre possibili benefici futuri. Ma la maggioranza degli americani preferisce applicare il “principio di precauzione” e prendere misure immediate per una forte riduzione delle emissioni (e molte aziende si stanno già ristrutturando proprio in questo senso).
Dunque, l’intervento del Presidente a Davos si può rapidamente archiviare come un episodio della sua battaglia politica incentrata su azioni unilaterali, sia in patria che sul piano internazionale. Rimane la pesante responsabilità che spetta al leader della più grande economia mondiale (incomparabile con quella di un privato cittadino), da cui consegue il dovere di spiegare se esistono misure da prendere comunque per mitigare quegli effetti dei cambiamenti climatici e del degrado ambientale di cui siamo già certi.
Eppure, è ancora più rilevante capire quali implicazioni possa avere il successo mediatico, e di fatto politico, della giovane attivista. Le sue richieste, ormai note, sono state reiterate a Davos: blocco immediato degli investimenti nei combustibili fossili, fine dei sussidi, e disinvestimento a favore di fonti rinnovabili. Anche lo strumento politico-culturale da adottare è stato espresso esplicitamente: il senso di panico per la nostra “casa in fiamme”. Possono sembrare ricette ineccepibili di fronte a un’emergenza globale.
Invece, su entrambi i fronti (interventi pratici e modalità di costruzione del consenso) si deve mantenere aperto un dibattito serio, che definisca un realistico mix energetico e le necessarie fasi di transizione dagli attuali sistemi infrastrutturali a quelli nuovi che le tecnologie stanno in effetti rendendo possibili. Nel frattempo, si deve tenere alta l’attenzione sull’impulso dei governi, già molto evidente, a usare la fiscalità come leva quasi esclusiva per attuare politiche ambientali, e divieti di vario tipo come braccio armato di un complessivo cambiamento di abitudini da imporre ai cittadini.
Va ricordato che l’intervento dello Stato – soprattutto in chiave di tassazione – non è la soluzione a qualsiasi problema, ed esiste la forte tentazione di usare la bandiera del nuovo ambientalismo per perseguire politiche e obiettivi che poco hanno a che fare con la salvezza del pianeta. Porsi il problema dei possibili effetti non intenzionali di azioni compiute in buona fede è un segno di maturità, non una mancanza di coraggio.
C’è infine un passaggio ricorrente nei discorsi di Greta Thunberg che pare degno di nota, forse un artificio retorico o forse il sintomo di un approccio piscologico al problema: viene chiesto agli adulti e ai potenti di “restituire il futuro” ai ragazzi che ne sarebbero privati se il pianeta andrà incontro a una catastrofe climatica.
E’ una riflessione importante, ma questa giovane svedese tra circa un anno sarà maggiorenne, e dovrebbe iniziare a prendere atto di quanto si impara solitamente proprio alla sua età, cioè che il futuro può essere preparato e facilitato per i figli e i discendenti ma non certo garantito né acquisito una volta per tutte. Certo è che la generazione a cui lei appartiene ha beneficiato di opportunità senza precedenti, in termini ad esempio di una buona istruzione e accesso alla tecnologia, viaggi e libertà di espressione, in particolare nei Paesi che hanno sfruttato per primi e meglio l’ambiente naturale.
In ogni caso, il futuro dei ragazzi che oggi hanno 17 anni è ancora da scrivere, e tra poco sarà tutto loro. Greta Thunberg non deve preoccuparsi che qualcuno le porti via le scelte da fare quando l’adulta sarà lei.