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La quasi-guerra fredda tra Kabul e Islamabad che tiene in ostaggio l’Afghanistan

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L’ultima querelle tra Kabul e Islamabad riguarda l’attacco del gruppo pakistano Lashkar-i-Jhangvi (LJ) all’accademia di polizia di Quetta (nello stesso Pakistan) con un bilancio di oltre sessanta morti, avvenuto il 25 ottobre scorso. Benché l’attentato sia stato rivendicato dallo Stato Islamico e messo in atto da un gruppo radicale nato nel Punjab pakistano e con un passato settario e sanguinario soprattutto in Belucistan (provincia di cui Quetta è la capitale), l’intelligence di Islamabad ha, seppur indirettamente, accusato Kabul. Le intercettazioni telefoniche dei membri del commando avrebbero rivelato, secondo le autorità pakistane, che il cervello dell’operazione stava in Afghanistan.

Non è la prima volta che si sentono accuse simili. Una sorta di gara a dimostrare – non senza qualche ragione – che i gruppi che si muovono sul poroso confine tra i due Stati trovano, ora in Afghanistan ora soprattutto in Pakistan, il proprio “rifugio” sicuro. Il santuario da cui muovere o coordinare gli attentati nel Paese confinante.

Questa tensione è andata crescendo dall’agosto del 2015 – quando una serie di attentati in Afghanistan ha fatto da corollario al naufragio di un neonato tentativo negoziale – e accuse, ritorsioni, minacce tra i due Paesi hanno conosciuto una nuova stagione: aspra e dai tratti durissimi. Non solo nei toni. Pakistan e Afghanistan si creano problemi alla frontiera per il transito delle rispettive mercanzie; i servizi segreti anziché collaborare nascondono le informazioni; i governi si accusano vicendevolmente di ospitare e proteggere i  terroristi; il Pakistan infine ha iniziato l’espulsione di un milione di afgani “undocumented” che vivono oltre frontiera da decenni. La cosa (le espulsioni hanno già raggiunto quota 400mila) mette in difficoltà Kabul, che ha già a che fare con oltre un milione di sfollati interni, e ha appena firmato un accordo con l’Unione Europea sui rimpatri forzati di afgani senza visto che prevede l’arrivo a Kabul di almeno 80mila persone nei prossimi sei mesi.

Benché raramente si metta l’accento sull’importanza dei rapporti tra Islamabad e Kabul, in questi mesi la tensione tra i due Paesi è così elevata da costituire forse il principale macigno sul futuro di un processo di pace che dovrebbe portare il governo di Ashraf Ghani a negoziare coi talebani di mullah Akhundzada. Come detto,un primo elemento di contenzioso che riguarda i “santuari”. Il Pakistan ne ha sempre forniti ai talebani (a Quetta, nel Waziristan e in genere nelle aree tribali) e  l’Afghanistan sta facendo adesso la stessa cosa, ad esempio con mullah Fazlullah, il leader dei talebani pachistani (Tehrek-e-Taliban Pakistan – TTP) che sarebbe “tollerato” oltrefrontiera. L’altro problema riguarda il processo negoziale in sé. Islamabad vorrebbe controllarlo e, se non aver l’ultima parola, garantirsi a Kabul un governo amico (non, come ora, un esecutivo in buoni rapporti con l’India).

Se sul primo punto siamo a bocce ferme (e l’espulsione di 400mila afgani lo conferma) sul secondo andiamo ancora peggio. Il processo negoziale che nell’estate di un anno fa era cominciato faticosamente a Murree in Pakistan, sotto l’egida del governo, si è poi arenato dopo l’annuncio della morte di mullah Omar nell’aprile del 2013. Omar era stato sostituito, con diversi problemi interni al movimento talebano, da mullah Mansur (considerato molto filo-pakistano), ucciso poi a sua volta da un drone americano nel maggio del 2016. La sua morte sembrava aver affossato ogni possibile apertura negoziale e aveva visto una recrudescenza degli attacchi talebani – al cui comando è adesso mullah Akhundzada – volti a vendicare la morte dei due suoi leader. 

Il negoziato coi talebani (il governo di Kabul ha già firmato un accordo col gruppo guerrigliero di Gulbuddin hekmatyaar) sarebbe però marciato sotto traccia tanto che, in ottobre, il quotidiano britannico The Guardian ha dato notizia di due incontri a Doha, dove ha sede l'”ambasciata” del movimento guerrigliero. I talebani hanno smentito che vi siano stati colloqui di pace col governo, ma la notizia è stata poi confermata anche se in forma ufficiosa.

A quanto si sa a questi incontri, in settembre e ottobre, avrebbe partecipato per il governo afgano Mohammad Hanif Atmar, National Security Advisor del presidente Ashraf Ghani, e Mohammad Masum Stanekzai, a capo del National Directorate of Security (NDS, i servizi di intelligence afgani). Per i talebani vi sarebbe stato tra gli altri mullah Abdul Manan Akhund, fratello di mullah Omar e in futuro vi potrebbe partecipare anche il figlio di Omar, Mohammad Yaqub. Infine sarebbe stato presente un diplomatico americano, cosa indirettamente confermata dall’ambasciata statunitense in Afghanistan. Insomma c’erano tutti tranne i pakistani. Poi però i talebani hanno inviato una delegazione ufficiale proprio in Pakistan per “informare” Islamabad su quanto avvenuto a Doha.

Se la missione diplomatica talebana abbia ricucito il dialogo non è chiaro; né è chiaro cosa riserverà il futuro. Vale la pena di aggiungere al quadro la lettera che ha scritto a mullah Akhundzada l’ex portavoce di mullah Omar, Tayyeb Agha, già responsabile dell’ufficio di Doha.

Tayyeb Agha scrive al capo talebano che questi dovrebbe abbandonare il titolo di Amir al-Muminin e che persino la qualifica Emirato andrebbe sostituita da un termine più modesto: “movimento”, dal momento che per ora i talebani non controllano né tutto il Paese né la capitale. Agha chiede ai capi, a cui rimprovera di restarsene per lo più oltre frontiera, di rinunciare alla violenza (da quella contro le moschee a quella contro i prigionieri) e alla coercizione che, dice Tayyeb, viene utilizzata per compattare i ranghi. La lettera è importante perché dà conto di un dibattito interno che tende ad allargarsi a temi non solo prettamente militari. Tayyeb Agha – che resta una figura di rilievo – critica infatti anche i troppi legami coi servizi segreti pachistani e iraniani e mette il dito nella piaga degli “stranieri”: a suo parere, è imperativo interrompere il flusso di combattenti non-afgani e controllare le loro attività. Ce n’è per lo Stato islamico, ma anche per ceceni o uzbeki, come per i talebani pakistani del Ttp.

Questo quadro è purtroppo sempre accompagnato da una preoccupante cornice: UNAMA, la missione ONU a Kabul, ha reso noto il bilancio complessivo delle vittime civili nel 2015: 11.002  (3.545 morti, 7.457 feriti). I dati mostrano un incremento complessivo del 4% rispetto al 2014 con un trend impressionante di crescita (nel  2009 i morti erano stati  2.412). Quanto ai soldati dell’esercito afgano, anche qui le cifre sono pesanti: tra gennaio e agosto 2016 – secondo fonti americane – sono stati uccisi 5.523 tra soldati e poliziotti e i feriti sono stati  9.665. Cifre cui bisogna aggiungere i caduti tra la guerriglia di cui non ci sono dati certi. A completare il quadro, sono stati pubblicati i dati sulla produzione di oppio, fonte di finanziamento dei talebani ma anche zoccolo duro della criminalità organizzata nazionale e transnazionale. Secondo l’Agenzia ONU per la droga e il crimine (Unodc), il 2016 vede un incremento del 10% delle aree coltivate col papavero (da 74mila ettari a oltre 81.300). La produzione dovrebbe invece registrare un aumento addirittura del 43% rispetto al 2015.

A questa situazione compessiva si può aggiungere il costo della guerra che il governo, solo negli ultimi due mesi, ha stimato a oltre 26 milioni di euro: a farne le spese 300 scuole, 41 centri sanitari, 7mila case, 50 moschee, 170 ponti e cento chilometri di strada.