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La potenza militare e tecnologica della Repubblica Popolare

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Inevitabilmente, una delle domande più salienti tra analisti e osservatori riguarda l’evoluzione delle relazioni tra gli Stati Uniti e la Cina. L’amministrazione Biden dovrà infatti sviluppare una serie di documenti strategici per guidare la politica di Washington verso Pechino. In attesa di queste elaborazioni concettuali e strategiche, è utile focalizzarsi sulle direttrici della politica militare cinese degli ultimi tre decenni, per capirne l’evoluzione, così come le ragioni e i possibili sviluppi futuri, soprattutto alla luce della competizione strategica con gli Stati Uniti.

L’Oceano Pacifico visto dalla Cina. Fonte: ESRI

 

IN COMPETIZIONE PER L’ASIA. Il perno della competizione geostrategica in Asia tra Washington e Pechino ruota attorno alle due “catene” di isole, due archi concentrici che si trovano tra la Cina e l’Oceano Pacifico. La prima catena, quella più vicina alle coste cinesi e che delimita il Mare Cinese meridionale, comprende Taiwan, l’arcipelago giapponese, le Ryukyu, la parte settentrionale delle Filippine e il Borneo, fino alla penisola della Kamchatka e quella malese. La seconda catena, quella più distante, include la parte meridionale delle Filippine, le isole Volcano e Bonin, oltre alle isole Mariana e Guam, territorio americano su cui è dislocato una delle più importanti installazioni militari statunitensi nell’area Asia-Pacifico.

Queste due catene di isole costringono il traffico navale in entrata e in uscita a passare attraverso degli stretti, che a loro volta possono essere controllati e bloccati tramite mine navali, sottomarini, sistemi di pattugliamento e missili di precisione. Dal controllo di queste due catene dipenderà l’egemonia regionale nei decenni a venire.

Finora, gli Stati Uniti hanno beneficiato di un controllo molto saldo su queste due catene grazie alla loro superiorità militare e presenza nell’area. Inoltre, da una parte, queste isole sono alleati o partner americani, quali Taiwan, Corea del Sud, Filippine e Giappone. Dall’altra parte, per via della sua collocazione geografica, la Cina si trova ad affrontare una molteplicità di minacce (confinando anche con paesi con cui i rapporti sono stati storicamente altalenanti, tra cui Russia, India e Vietnam, tra gli altri). Ciò, unito alla debolezza militare cinese, ha costretto Pechino a disperdere le proprie risorse su più fronti, e dunque ridurre l’intensità del proprio sforzo rispetto alle due catene di isole. Di conseguenza, finora, gli Stati Uniti sono stati nella posizione, in caso di crisi, di “imbottigliare” la flotta cinese ed eventualmente (minacciare di) imporre un blocco navale che, interrompendo l’approvvigionamento di idrocarburi per via marittima, danneggerebbe fortemente l’economia di Pechino.

Nel corso degli ultimi tre decenni, la politica militare cinese ha cercato di indebolire e, potenzialmente, a porre fine al controllo americano delle due catene di isole – precisamente, ha mirato ad allontanare il baricentro militare della zona dalle sue coste, oltre cioè la prima catena di isole. Vi è anche una ragione contingente: i principali hub tecnologici e industriali del paese si trovano sulle zone costiere e dunque sono esposti a minacce esterne, rimanendo così estremamente vulnerabili in caso di conflitto all’interno della prima catena di isole.

 

L’INFERIORITÀ CONVENZIONALE CINESE. Per comprendere l’evoluzione delle forze armate cinesi negli ultimi decenni e soprattutto il tentativo da parte di Pechino di indebolire il controllo americano delle due catene di isole, bisogna però partire dalla fine della Guerra Fredda. Da una parte, quando il muro di Berlino crollò, la Cina era ancora un paese prevalentemente agricolo la cui industria era in larga parte specializzata in produzioni a basso contenuto tecnologico e valore aggiunto. Le sue forze armate riflettevano di conseguenza l’arretramento del paese, sia in termini di capacità militari che di tecnologia. Le piattaforme militari più avanzate erano infatti numericamente esigue, e di provenienza straniera (salvo eccezioni, prevalentemente sovietica). Dall’altra parte, dai primi anni Novanta, la superiorità tecnologica e militare americana diventava sempre più evidente, e le amministrazioni statunitensi che si sono succedute hanno mostrato ampiamente tale superiorità attraverso l’attacco di paesi in tre differenti regioni del mondo, con le guerre in Iraq (1991 e 2003), Kosovo (1999) e Afghanistan (2001), senza contare le altre zone “grigie” di conflitto.

Da un’analisi attenta, la strategia politico-militare cinese sembra dunque essere stata informata da tre principi: favorire la crescita economica nazionale ed evitare uno scontro militare tanto con altri paesi della zona quanto (e soprattutto) con gli Stati Uniti; usare, parallelamente, la crescita economica per modernizzare le forze armate del paese, da una parte enfatizzando nel breve periodo le capacità asimmetriche, volte cioè a ostacolare attacchi avversari, e dall’altra concentrandosi nel lungo periodo sul più ampio spettro di capacità convenzionali, così da raggiungere, o quasi, le altre potenze; irrobustire poi le capacità nucleari del paese e allo stesso tempo cercare di ottenere un vantaggio tecnologico-militare puntando sulle nuove tecnologie, così eventualmente da superare gli altri competitori.

 

LA MODERNIZZAZIONE. MILITARE. All’inizio degli anni Novanta, la Cina soffriva di una indiscutibile inferiorità militare. Mentre gli Stati Uniti stavano lavorando su aerei da combattimento di quinta generazione come l’F22-A Raptor e l’F-35 Lightning II Joint Strike Fighter, le forze armate dell’Esercito popolare di Liberazione (PLA) producevano ancora, e con difficoltà, aerei di terza generazione – oltretutto di origine russa, e quindi più arretrati tecnologicamente. Per rendere l’idea, si tratta di una tipologia di velivoli che gli Stati Uniti impiegavano nella guerra in Vietnam (1964-1975). Un discorso analogo vale nel campo navale, dove le forze cinesi all’inizio degli anni Novanta erano modeste e arretrate, e disponevano di capacità appena sufficienti per il pattugliamento dei mari, e quindi erano inadeguate per difendere le acque territoriali e ancora meno per proiettare potere militare all’esterno (operazioni a lungo raggio di azione).

Per far fronte a questa situazione, la leadership cinese ha puntato allora sulla modernizzazione militare, fondamentalmente con una strategia a due tempi. Nel breve periodo, non avendo alcuna chance di eguagliare il potere militare statunitense (e anche di alcuni suoi vicini), la Cina ha investito massicciamente in capacità e piattaforme in grado di indebolire un attacco avversario, con un effetto chiaramente deterrente. Conosciute in inglese come anti-access/area-denial capabilities (A2/AD), queste capacità consistono principalmente in sistemi di difesa anti-aerea, missili terra-nave e terra-terra, e sottomarini convenzionali. L’obiettivo delle capacità A2/AD è di obbligare le piattaforme navali e aeree avversarie o a operare a maggior distanza, oppure a subire maggiori perdite in caso di conflitto, aumentando quindi i costi operativi per un avversario.

Per il lungo termine, la Cina ha invece puntato alla modernizzazione dell’intero spettro di capacità militari, facendo affidamento a tre strumenti. Da una parte, forte di una crescita economica senza precedenti, la Cina ha aumentato la spesa militare sia in ricerca e sviluppo che in procurement, finanziando così direttamente o indirettamente la propria industria militare. Dall’altra parte, mentre favoriva gli investimenti esteri per promuovere la crescita economica del paese, la leadership cinese ha dato particolare attenzione ad alcuni campi, quali aerospazio, propulsione ed elettronica, con lo scopo prima di acquisire know-how e capacità tecnologiche straniere e poi sfruttarle anche nel campo militare. Infine, la Cina ha continuato a cercare di appropriarsi della tecnologia straniera, ricorrendo sia a cooperazioni industriali, come quelle con la Russia per la produzione di caccia da combattimento di quarta generazione, sia a una massiccia campagna di spionaggio cybernetico e industriale soprattutto a danno di aziende americane, anche nel campo della difesa.

A trent’anni dall’embargo militare contro la Cina, varato dai paesi occidentali dopo i fatti di Tienanmen, la crescita militare cinese è stata poderosa, sia in termini quantitativi (espansione delle sue forze armate) che qualitativi (tipo di equipaggiamento). Oggi, la Cina dispone infatti di capacità che sono oramai esclusiva di pochi paesi. Ciononostante, non ha ancora raggiunto gli Stati Uniti. Per questa ragione è utile guardare agli altri due campi restanti: nucleare e nuove tecnologie.

Una parata militare dell’esercito cinese

 

LA DETERRENZA NUCLEARE. La deterrenza è un principio cardine dei rapporti di forza tra Stati. La deterrenza si può ottenere attraverso capacità convenzionali, e gli sviluppi nel campo delle a2/ad discussi precedentemente vanno esattamente in quella direzione. Il principio di deterrenza, a partire dall’inizio della guerra fredda, è stato però concettualmente e storicamente associato alle armi nucleari. La deterrenza nucleare è un obiettivo che viene raggiunto principalmente attraverso due strumenti complementari, le capacità militari (che consistono in armi nucleari ma anche nei rispettivi sistemi di lancio: sottomarini balistici, missili intercontinentali di terra, o bombardieri strategici) e la dottrina di impiego. La Cina è entrata a far parte del ristretto club di paesi con un arsenale nucleare nel 1958. Le sue capacità nucleari sono sempre state ridotte, e storicamente Pechino ha basato la propria deterrenza nucleare su un deterrente minimo, sia in termini di numero di testate, che di piattaforme di lancio. A ciò vanno aggiunte alcune considerazioni. I sottomarini nucleari cinesi sono estremamente rumorosi e quindi facilmente rintracciabili dai sistemi sonar, cosa che li rende vulnerabili alle capacità anti-sottomarine americane, come discusso in un rapporto per il Carnegie–Tsinghua Center For Global Policy da Tong Zhao (Tides of Change: China’s nuclear ballistic missile submarines and strategic stability). Inoltre, stando a quanto è noto, i sottomarini balistici cinesi non uscivano in mare aperto con armi nucleari (probabilmente anche per assenza di fiducia nel sistema di comando e controllo, tanto nella componente tecnica che in quella umana). La Cina possiede dei bombardieri strategici, ma questi sono delle produzioni su licenza di tecnologia sovietica dei primi anni Cinquanta – neanche minimamente paragonabili ai bombardieri statunitensi di ultima generazione, soprattutto in termini di raggio di autonomia, elettronica, e capacità di non essere avvistati da radar nemici. Infine, i silos in cui sono ospitati i missili intercontinentali cinesi operano con basso livello di allerta. Ciò significa che, in caso di crisi o tensione, non possono essere immediatamente utilizzati anche solo a scopo deterrente. I missili balistici intercontinentali sono, inoltre, altamente vulnerabili: sono identificabili (e identificati) tramite un’ampia sfera di sistemi di sorveglianza, tra cui quelli satellitari, e possono essere neutralizzati grazie alla crescente precisione e forza distruttiva delle nuove testate, convenzionali e nucleari – come discusso in un recente libro The myth of the nuclear revolution dei docenti Keir Lieber di Georgetown University e Daryl Press di Dartmouth College.

Entrare nella mente dei decisori politici cinesi non è possibile e quindi non possiamo dire se quanto finora detto sia causa o conseguenza. Sta di fatto che la dottrina nucleare cinese si basa sul principio del “No First Use” (nfu): la Cina si impegna a non utilizzare le armi nucleari per prima in caso di conflitto. Ovviamente, le dottrine nucleari vanno sempre lette e interpretate. E dunque anche termini come conflitto, paese, o confini, all’interno di una dottrina possono assumere significati molto elastici o variegati. Nonostante l’enfasi sull’nfu, l’arsenale nucleare cinese è cresciuto negli ultimi anni, viene modernizzato e potrebbe espandersi ulteriormente in futuro. Inoltre, se grazie alla sua modernizzazione convenzionale, la Cina dovesse riuscire a controllare i vari i mari all’interno della prima catene di isole, e principalmente a impedire l’accesso alle forze anti-sottomarine straniere, sarebbe più facile per i sottomarini nucleari cinesi operarvi liberamente e quindi svolgere il loro ruolo di deterrenza (strategia “bastione”, come quella impiegata dall’Unione Sovietica a partire dalla metà degli anni Settanta). Va però notato, in questo caso, che il raggio dei missili cinesi montati sui sottomarini nucleari è ancora ridotto, e dunque questi non potranno minacciare il territorio continentale americano, ma al più l’Alaska e le Hawaii, gli alleati americani nella regione e, ovviamente, le basi americane nel Pacifico).

 

NUOVE TECNOLOGIE. Quando si parla di nucleare cinese, la domanda centrale riguarda la sua evoluzione futura, e in particolare quanto cresceranno le capacità strategiche nucleari cinesi e, di conseguenza, se e come verrà aggiornata la politica e la dottrina nucleare di Pechino. Non è facile rispondere a queste domande. Il divario, soprattutto verso gli Stati Uniti, è significativo e difficilmente colmabile nel breve periodo. Questa è la ragione per cui, secondo Fiona Cunningham, docente alla George Washington University, dietro alla ridotta importanza che la Cina ha affidato alle armi nucleari negli anni passati c’è una strategia ben precisa: la maggiore importanza assegnata all’uso di capacità cyber e spaziali. Secondo Cunningham, per la Cina è molto più conveniente cercare di ottenere la deterrenza in campi emergenti, come questi appunto, piuttosto che nel campo nucleare dove il divario con gli Stati Uniti è enorme. Questa ipotesi trova indiretta conferma se guardiamo a quanto fatto dalla Cina negli ultimi anni in altri campi, quali l’intelligenza artificiale, le comunicazioni 5G e il quantum computing. Elsa Kania, studentessa di dottorato a Harvard University, è tra gli studiosi che hanno esplorato più in profondità questi temi. Secondo Kania, la Cina ha perseguito una fusione civile-militare nel campo delle tecnologie emergenti e dirompenti: prima ha ampiamente finanziato, a livello commerciale, questi ambiti, per poi cercare di sfruttarli in campo militare, ed eventualmente ottenere una superiorità tecnologica rispetto agli avversari. Se la strategia cinese avrà successo lo sapremo solo negli anni a venire. Di sicuro, le tecnologie emergenti e dirompenti offrono importanti opportunità, che però si potranno osservare solo nel medio-lungo termine. La Cina, inoltre, ha ottenuto brillanti risultati specie nel 5G e nell’intelligenza artificiale, ma paga ancora la propria arretratezza tecnologica e industriale: il tentativo di entrare nel settore dei microprocessori non ha, finora, dato i risultati sperati, visto che le sue aziende non riescono a produrre i microprocessori più avanzati. Di conseguenza, la Cina dipende in questo campo dalla tecnologia statunitense, olandese, giapponese e taiwanese. A Taiwan si trova infatti tmsc, il più importante produttore al mondo di semiconduttori il quale, come Samsung, ha di recente aperto degli impianti produttivi negli Stati Uniti. Difficile dire se la presenza di tmsc sul territorio taiwanese rafforzi l’impegno americano a difendere l’isola da un eventuale invasione cinese, o se essa dia un incentivo ancora più forte alla Cina a “riprendersi” la vecchia Formosa. Indubbiamente, come ha scritto il 14 dicembre sul New York Times un analista di Morgan Stanley, “a parità di peso, Taiwan è il più importante posto al mondo”.

 

GLI INTERROGATIVI SUL FUTURO. La modernizzazione delle forze armate cinesi avvenuto negli ultimi decenni è, sotto ogni punto di vista (storico, tecnologico, militare) senza precedenti. Alcuni, come il politologo di Harvard University Graham Allison, ritengono che, anche per questa ragione, lo scontro con gli Stati Uniti sarà inevitabile. Altri, come l’esperto di studi strategici della Columbia University Stephen Biddle, sono più cauti, e sostengono che fino al 2050, l’equilibrio militare nell’Asia-Pacifico non è destinato a cambiare sensibilmente. Le domande più importanti per la sicurezza internazionale, e per capire e valutare la politica degli Stati Uniti, sono fondamentalmente tre.

In primo luogo, la Cina riuscirà a raggiungere, o addirittura superare gli Stati Uniti, sulle piattaforme militari? In una nostra ricerca sullo spionaggio industriale, abbiamo dimostrato come ci siano poche ragioni per credere che breve-medio periodo, l’industria della difesa cinese possa eguagliare quella americana, e più in generale occidentale, sulle piattaforme più complesse come i sottomarini nucleari o i caccia da combattimento (“Why China has not caught up yet”, pubblicato nel 2019 in International Security).

In secondo luogo, come evolveranno le capacità e la dottrina nucleare cinese negli anni a venire? La Cina adotterà una dottrina più offensiva, come quelle attribuite alla Russia di Putin, che vede una forte integrazione tra forze convenzionali e uso di armi nucleari, o continuerà sulla linea della cautela? E in questo contesto, come evolverà la deterrenza cinese anche alla luce delle capacità cyber e spaziali?

Infine, potranno le cosiddette tecnologie emergenti e dirompenti come intelligenza artificiale, 5G e quantum computing alterare l’equilibrio militare, o si limiteranno solo a coadiuvare le capacità militari esistenti? Anche in questo caso, la nostra ricerca suggerisce come la seconda interpretazione sia quella più credibile. A ciò si aggiunge una considerazione finale. Le forze armate cinesi non hanno praticamente alcuna esperienza militare sul campo, e dunque la componente umana (come enfatizzato sul comando e controllo dei sottomarini nucleari) è quella paradossalmente più debole, proprio in un momento di veloce cambiamento tecnologico nel quale adattare e riaddestrare il proprio personale, sia militare che civile, è sempre più difficile.

 

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