La partita di Imran Khan alla guida del Pakistan
La scena politica del Pakistan, abbastanza abituata agli scossoni politici, ha appena visto l’ennesimo cambio della guardia, anche se impensabile soltanto pochi mesi fa. L’ex cricketer Imran Khan, un personaggio dal solido linguaggio populista e fino ad ora rimasto sempre un po’ al margine della scena, ha vinto clamorosamente le elezioni parlamentari dello scorso luglio. Il suo “partito della giustizia” – Pakistan Tehreek-e-Insaf (PTI) – ha ottenuto gran parte dei seggi dell’Assemblea nazionale: dai 35 della scorsa legislatura ai 149 (su 342) attuali. Da comparsa, Khan diventa protagonista, ed è ora a capo sia del governo che del primo partito.
Imran Khan ha dovuto però rapidamente raffreddare promesse che la crisi economica non gli consente per ora di mantenere. Durante la campagna aveva assicurato un nuovo welfare (un welfare “islamico”, come quello prospettato a Medina dal Profeta), la riduzione delle tasse, giustizia sociale, dieci milioni di posti di lavoro, un enorme piano residenziale per le classi meno abbienti e soprattutto una lotta senza quartiere alla corruzione.
Ma appena raggiunto lo scranno di primo ministro si è trovato tra le mani una patata davvero bollente. Non certo la familiare palla di pelle di cervo con cui era abituato a giocare nel campionato dello sport più popolare in Pakistan e nell’intero subcontinente indiano: la grana si chiama Fondo monetario internazionale. In altre parole, bisogno di denaro. Bisogno impellente che lo sta costringendo a giocare una partita non molto diversa da quella che avrebbero giocato sia il Partito del popolo della famiglia Bhutto, rimasto ormai importante solo nella provincia del Sindh, sia la Lega musulmana dei fratelli Sharif (Nawaz, l’ex premier, è stato condannato a 10 anni per aver nascosto all’estero beni acquisiti illecitamente, fatto rivelato dai Panama Leaks, mentre Shahbaz è appena stato arrestato per dieci giorni per un indagine su un caso di corruzione).
I conti del Pakistan segnano, 18 miliardi di dollari di deficit e la necessità impellente di sborsarne circa una dozzina per ripagare i debiti a breve termine. La necessità di un salvataggio finanziario ha costretto Islamabad a rivolgersi al FMI e la situazione si è complicata ancora di più. Non solo sul piano interno, ma anche perché gli americani, che col Pakistan esercitano una politica del bastone e della carota – dettata soprattutto dalla situazione in Afghanistan – non hanno dato il loro consenso. Secondo Washington, il nuovo uomo forte di Islamabad dovrà trovare un’altra via per ripagare i debiti – contratti soprattutto con la Cina; si tratta di una mossa probabilmente nata dalla volontà di testare la reazione di Khan e di disturbare Pechino.
Mentre Islamabad parlava col Fondo, Khan ha cercato altre vie d’uscita: soprattutto chiedendo ulteriore aiuto alla stessa Cina, e all’Arabia Saudita; e poi appellandosi a una sorta di salvifica chiamata patriottica per le rimesse dei migranti, molti dei quali lavorano nei Paesi del Golfo Persico. Con il loro denaro si punta a fare cassa (20 miliardi di dollari stimati) e dimostrare “quanto sia solvibile” il Paese, rafforzando il valore della rupia. La divisa locale infatti, nonostante il patto sulla “rupia forte” voluto dal predecessore Nawaz Sharif, va avanti di svalutazione in svalutazione nel tentativo di rivitalizzare l’economia locale.
In attesa della risposta ufficiale del FMI, le tensioni che già esistono all’interno del Fondo tra la Cina e altri membri, soprattutto gli Stati Uniti, sono emerse nella loro evidenza. Pechino appoggia Khan, cui ha prestato due miliardi di dollari pochi giorni dopo il voto, e sostiene ovviamente la richiesta di Islamabad; teme però i paletti di spesa che il Fondo potrebbe fissare, con l’effetto di impedire l’avvio dei cantieri miliardari siglati tra Cina e Pakistan nell’ambito della Nuova Via della Seta. Il progetto principale prevede un corridoio sino pachistano che da Kashgar nel Xinjang arrivi al nuovo porto di Gwadar offrendo alla Cina uno sbocco logistico e commerciale sul Mare Arabico, proiettato verso l’Africa e il Canale di Suez, senza passare dal territorio dell’India né da quello dell’Iran. Un affare da 60 miliardi tra strade, binari, impiantistica, aree di stoccaggio, che potrebbe essere completato entro il 2030.
Ma non c’è solo la geopolitica: il problema è anche interno, e non solo perché in campagna elettorale Imran Khan aveva giurato di non voler chiedere nuovi prestiti con relativi piani finanziari esterni. Le regole del FMI, cui il Pakistan ricorre per la 13ma volta, potrebbero comportare per il Pakistan una riduzione drastica della spesa sociale, e manderebbero così in fumo le promesse di una nuova stagione di welfare.
Il Fondo potrebbe imporre riforme strutturali impopolari, un’ennesima svalutazione della moneta e chiedere, come ha già fatto, accesso ai libri contabili del Paese. La Direttrice Christine Lagarde è stata chiara: “trasparenza assoluta” anche sulle transazioni con la Cina. Infine, i tecnoburocrati del Fondo, non certo a digiuno di politica, potrebbero anche chiedere rassicurazioni sulla maggioranza parlamentare del governo: neanche questa sarebbe una prova facile per l’ex crickettista.
Dopo molte crisi innescate dalla diminuzione del prezzo del petrolio (vedi Venezuela, ma non solo), i problemi del Pakistan vengono invece dall’apprezzamento dell’oro nero. La crescita degli ultimi anni veniva sostenuta importando l’80% del petrolio necessario, tanto da creare oggi un deficit crescente delle partite correnti. E mentre da un lato la svalutazione della rupia rilancia la competitività internazionale, dall’altro aggrava ancora di più i prezzi delle materie prime acquistate all’estero.
Khan ha lanciato messaggi rassicuranti – “Voglio dire a tutti voi di rimanere forti e di non lasciarvi prendere dal panico, il momento difficile a breve passerà…” – ma i numeri dicono altro. La crescita prevista è per ora al 5,8%, ma il Fmi prevede che scenderà al 4% il prossimo anno 2019, per stabilizzarsi a circa il 3% nel medio periodo. La cifra è ancora alta, ma non se raffrontata al 14% di deficit raggiunto nello scorso luglio.
Il voto ha rivelato che Khan è la scommessa dei poveri. Ma forse lo è anche dei militari se è vero che, come sostengono molti osservatori, dopo la caduta in disgrazia di Nawaz Sharif, i generali hanno cambiato cavallo. Con Nawaz le cose andavano male da tempo, e il partito popolare dei Bhutto non è né forte né affidabile. Khan invece è un politico da cui i militari (solo gli effettivi dell’esercito sono mezzo milione), una vera forza economica in un Paese dominato dalle lobby, sono sempre stati trattati con rispetto.
Alcuni accusano Khan di ambiguità con i movimenti fondamentalisti. Vero, non vero? Se aveva appoggiato il golpe militare del generale Musharraf contro Nawaz Sharif nel 1999, pesa a favore del Primo Ministro l’incarcerazione subita durante quel regime, e l’impegno (teorico) a far uscire la questione del Kashmir da termini esclusivamente militari. Il campione di cricket sessantaseienne nato in una ricca famiglia pashtun di Lahore è riuscito però, nonostante l’allure da playboy e i diversi matrimoni e divorzi alle spalle, a farsi paladino dell’etica islamica e a farsi amici gli islamisti dichiarando guerra alla “guerra al terrore” degli Stati Uniti, accusando i precedenti governi di aver mandato nelle aree tribali pashtun un esercito di occupazione e di aver tollerato che droni guidati dall’Afghanistan colpissero in Pakistan violando la sovranità nazionale.
“Taleban Khan”, come è anche stato chiamato, è piaciuto al popolino ma anche ai giovanissimi per la prima volta alle urne, che lo hanno visto come l’uomo nuovo in grado di liberare il Paese dal dominio delle grandi famiglie. Infine, e non va dimenticato, Imran Khan ha fatto valere la parte del suo curriculum in assoluto più popolare: aver capitanato la nazionale fino alla vittoria nella coppa del mondo di cricket nel 1992. I suoi elettori, adesso, lo chiamano a battere il Fondo monetario internazionale.