La nuova Siria in cerca di identità e collocazione regionale
Democrazia o autoritarismo, questa volta di matrice islamista. Sono questi i due percorsi alternativi che ha davanti a sé la Siria, dopo che il regime di Assad si è sciolto come neve al sole nel dicembre scorso.

Attraversando il Paese e le sue città, andando oltre a quelle sull’autostrada M5 percorsa dai ribelli che da Aleppo – a nord – sono scesi a Damasco, emerge che la sfida più urgente è quella dell’inclusione di tutte le comunità nel nuovo percorso politico e il bilanciamento tra libertà individuali e tradizione islamica. Cristiani, alawiti, sciiti, drusi, donne e sunniti moderati chiedono garanzie sulla loro sicurezza e sui loro diritti che temono possano essere minacciati alle nuove autorità: quegli uomini armati che hanno occupato i palazzi del potere indossando le divise da miliziani e sventolando la bandiera della nuova Siria, insieme a quella della professione di fede musulmana.
Facendosi nominare presidente, a porte chiuse e direttamente dalle fazioni militari, Ahmed Al-Sharaa – nome di battaglia Al-Jolani – ha promesso un nuovo governo di transizione inclusivo, cioè con ministri scelti non su base confessionale e non solo sunniti. La sua composizione sarà un primo test e potrebbe arrivare già subito dopo il 1° marzo, quando scadrà il governo provvisorio.
Leggi anche:
Turkey, the new Syrian arrangement and the wider regional balance
In Siria, la vittoria postuma della Primavera Araba
Un altro indicatore sulle intenzioni della nuova leadership sarà l’attesa Conferenza di Unità Nazionale alla quale tutte le comunità hanno chiesto con insistenza di partecipare da quando – poco dopo la caduta di Assad – sono iniziate le interlocuzioni informali con i rappresentanti delle nuove autorità. Si tratta nella maggioranza dei casi di incontri con uomini di Al-Sharaa provenienti da Idlib. Qui i ribelli avevano dato origine a un loro esecutivo, un’esperienza che ora stanno cercando di esportare in tutto il Paese, pur non avendo personale e grande competenza su scala nazionale.
La Conferenza è iniziata l’ultima settimana di febbraio tra le proteste della amministrazione autonoma del nord est della Siria – a maggioranza curda – che ha definito solo simbolica la sua rappresentanza.
Durante la Conferenza si discuteranno i problemi più importanti della Siria per arrivare a una dichiarazione costituzionale. Dovrebbe poi essere deciso come redigere la nuova Costituzione e come organizzare nuove elezioni. Secondo le dichiarazioni di Al-Sharaa, si potranno tenere comunque non prima di quattro anni – dunque si tratta di un orizzonte politico non certo immediato.
Altro nodo da affrontare, quello dell’esercito. Il presidente ha affermato che le varie milizie ribelli verranno sciolte, per dar vita a una forza armata nazionale. Dichiarazioni politiche a parte, c’è però da capire che cosa faranno le Forze Democratiche Siriane (Sdf) soprattutto della regione autonoma a maggioranza curda del nord est della Siria, il Rojava. Anche se nella rotonda principale di Raqqa, come in tutti gli uffici della regione, è stato issato il nuovo vessillo rivoluzionario adottato dai ribelli, gli umori in questa regione sono altalenanti. A pesare è non solo la memoria degli anni neri dell’Isis, ma anche la riapertura dello scontro tra le Sdf e le milizie filo-turche che rispondendo ad Ankara compongono il sedicente Esercito Nazionale Siriano. Proprio in concomitanza con la caduta di Assad, queste ultime hanno ripreso ad attaccare il nord est della Siria, prendendo il controllo di Manbij e puntando alla strategica diga di Tishreen sull’Eufrate.
Ad oggi, le Sdf a guida curda – di cui a Kobane si continuano a celebrare funerali a causa dei caduti al fronte – non hanno ancora accettato di sciogliere le loro milizie all’interno delle forze armate siriane. Le tribù arabe del Rojava stanno mediando le trattative, portate avanti dal comandante delle Sdf, Mazloum Abdi, che incontrando Al-Sharaa si è dichiarato favorevole a porre le sue forze sotto la direzione del ministero della Difesa di Damasco, a condizione che esse siano considerate un “blocco militare autonomo”. Abdi ha inoltre chiesto un sistema decentralizzato che lasci autonomia al Rojava e specifiche garanzie sui diritti delle donne.
Altre sfide interne riguardano il settore della sicurezza, la ricostruzione economica e l’approvvigionamento energetico, aspetto ancora più critico da quando, con la caduta di Assad, l’Iran ha bloccato l’invio di greggio. Il governo eroga solo un paio di ore al giorno di energia elettrica, per il resto chi può si affida a generatori e pannelli solari. Il graduale allentamento delle sanzioni internazionali, annunciato dall’Unione Europea e in parte iniziato dagli Stati Uniti, non ha ancora portato frutti.
A cambiare è infine il posizionamento della Siria sul piano regionale e internazionale. Il principale alleato di Damasco è diventato oggi Ankara, grande sponsor dei ribelli, che ha già allungato le mani sul nord della Siria. In città come Aleppo e Idlib si vede pagare anche in lira turca. Ankara vorrebbe che il governo di Damasco riprendesse il controllo di queste zone e reprimesse qualsiasi forma di autonomia curda, ma la nuova leadership siriana sta cercando ora un accordo con le Sdf per tenere unito il Paese.
Sarà quindi importante capire la posizione degli Stati Uniti, storici alleati dei curdi nella lotta contro l’Isispur avendo più volte dato la sensazione di abbandonarli al loro destino nei momenti decisivi Il presidente Trump ha annunciato il ritiro delle truppe americane dalla Siria (circa 2000 uomini schierati principalmente nella base di Al-Tanf, sulla strategica strada che collega Teheran, Baghdad, Damasco) anche se nelle ultime settimane della presidenza Biden era circolata la notizia della costruzione di un avamposto militare statunitense nei pressi di Kobane. Da notare che Donald Trump è stato uno dei pochi leader al mondo a non complimentarsi ufficialmente con Al-Sharaa quando è diventato presidente. Il nuovo leader siriano ha invece già ricevuto una telefonata da Vladimir Putin, dopo la visita di una delegazione russa a Damasco, tenuta lontana dalle telecamere. Anche se Mosca offre protezione al fuggitivo Assad di cui è stata il principale sponsor internazionale, i toni della conversazione sono stati descritti come cordiali e costruttivi. Mentre Damasco chiede l’estradizione dell’ex leader, da Mosca è atterrato in Siria un aereo carico di valuta siriana. Ancora nulla di ufficiale sul destino della base navale di Tartus, costruita dai sovietici sulla costa mediterranea, e di quella aerea di Khmeimim, vicino alla città portuale di Latakia, costruita da Mosca nell’epoca di Bashar al Asad. Dopo il ritiro delle sue truppe a dicembre, la Russia starebbe negoziando con Damasco per mantenerne il controllo.
Tutto questo mostra che la nuova Siria, facendo perno sul pragmatismo, sta tentando di scongiurare il rischio di isolamento, dovuto soprattutto alla diffidenza verso la matrice salafita della sua classe politica. Una manovra essenziale per lavorare sulla rimozione di lungo periodo delle sanzioni, il rilancio dell’economia e l’avvio della ricostruzione di un Paese in buona parte in macerie.