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La nuova fiammata nel conflitto in Nagorno-Karabakh

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Nella regione contesa del Nagorno-Karabakh – contesa tra Armenia e Azerbaigian – dall’inizio dello scorso dicembre un gruppo di sedicenti eco-attivisti blocca l’unica via di collegamento rimasta con l’Armenia. Si tratta del cosiddetto «corridoio di Lachin» il quale, dopo la conclusione dell’ultima guerra il 9 novembre 2020, è la sola strada rimasta ai 120mila residenti di etnia armena della regione per entrare nel territorio di Erevan.

«È in atto una palese operazione di pulizia etnica» ha dichiarato il primo ministro armeno Nikol Pashinyan. «Tutti coloro che non vogliono vivere nel Nagorno-Karabakh come cittadini dell’Azerbaigian, possono andarsene perché la strada per loro è aperta» ha risposto il presidente azero Ilham Alyiev. Ma quanto sta accadendo tra le montagne del Caucaso meridionale ha origini lontane e riguarda anche l’annosa questione della definizione dei confini dopo il crollo dell’Unione Sovietica.

Il corridoio di Lachin

 

Fin dagli anni Venti del secolo scorso il Nagorno-Karabakh è stato oggetto di assegnazioni arbitrarie e ripensamenti. Si consideri che prima dell’occupazione russa e l’ingresso nell’URSS nel 1936 la piccola Armenia non aveva abbastanza voce in capitolo di fronte alla comunità internazionale né abbastanza forza militare per far valere le proprie ragioni. Tuttavia, durante il periodo sovietico, Erevan ha vissuto un periodo di pace e relativo benessere, la violenza toccata ad altre regioni periferiche della federazione non ha scosso particolarmente il suo territorio che, anzi, è sempre stata in ottimi rapporti con Mosca. Tanto da entrare nell’Organizzazione del Trattato di sicurezza collettiva (OTSC) nel1992, un’alleanza militare sotto l’egida del Cremlino, e da stipularvi nel 1997 un ulteriore patto bilaterale, il Trattato di amicizia cooperazione e mutua assistenza.

Ad ogni modo, l’origine contemporanea degli scontri tra Armenia e Azerbaigian risale al 1991, quando la regione del Nagorno-Karabakh, a maggioranza armena, si dichiara indipendente dall’Azerbaijan (grazie a una legge sovietica) e assume l’antico nome armeno di «Repubblica dell’Artsakh». L’Azerbaigian non riconosce il nuovo stato e l’Armenia interviene in sua difesa, ne scaturisce una guerra sanguinosa che dura fino al 1994 e si conclude con la vittoria armena e l’autonomia di fatto dell’Artsakh. Per quasi trent’anni Erevan controlla così il territorio dell’Artsakh e diverse aree limitrofe (quasi un terzo dell’attuale estensione dell’Armenia) e costruisce infrastrutture e nuovi centri urbani.

 

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Tuttavia la Repubblica dell’Artsakh era formalmente parte del territorio azero e il governo armeno ha scelto di non reclamarne mai l’annessione e di non fomentarne eccessivamente le spinte indipendentiste, quasi come se i vertici politici armeni considerassero la situazione ormai cristallizzata. Invece, il 27 settembre del 2020 una poderosa e inattesa offensiva delle truppe azere, con il supporto logistico e militare turco, riconquista due terzi della regione lasciando solo Stepanakert (che ne era anche la capitale) e pochi territori limitrofi sotto il controllo stabile del governo filo-armeno. Quel conflitto è passato alla storia per essere il primo in cui sono stati impiegati sistematicamente i droni per attaccare le postazioni di fanteria. Tali velivoli di produzione turca, i famosi Bayraktar tb2, ora sono ben noti per le gravi perdite che stanno infliggendo all’esercito russo in Ucraina.

Per settimane gli armeni hanno perso uomini e posizioni e con la caduta di Shushi, città simbolo dell’Artsakh per la storia secolare, le chiese antiche e, soprattutto, per la posizione strategica, è stato evidente che la guerra era persa. «Chi controlla Shushi, controlla il Nagorno-Karabakh» dice un adagio locale ed è per questo che gli azeri hanno impiegato le forze speciali e tutti i mezzi disponibili per conquistarla in una sanguinosa battaglia combattuta casa per casa tra il 4 e il 7 novembre 2020. Dopo la firma della tregua, dalla rocca di Shushi si stendeva una gigantesca bandiera azera visibile dalla strada che è dall’altro lato di una vallata. In quel punto i militari dei diversi contingenti erano a distanza di poche decine di metri e passando il check-point, fino a metà novembre, si poteva vedere una bandiera turca di fianco a quella azera.

Forze speciali azere in parata a Baku dopo la presa di Shushi

 

L’Armenia ha più volte invocato l’intervento della comunità internazionale, dall’ONU all’UE, ma la risposta Occidentale si è limitata alle espressioni di cordoglio. È importante notare che la parabola recente dell’Armenia assomiglia molto a quella dell’Ucraina. Nel 2018, dopo settimane di proteste (come in piazza Maidan a Kiev nel 2014) l’ex-presidente filo-russo Sargsyan era stato costretto a dimettersi e gli armeni hanno esultato per il successo della loro “Rivoluzione di Velluto”. Il cambio di regime è avvenuto senza sparare un colpo e alle elezioni successive Nikol Pashinyan, un ex giornalista diventato leader delle proteste, ha vinto con una larga maggioranza. I primi due anni sono stati un periodo di grande speranza per l’Armenia, molti figli della diaspora, soprattutto giovani istruiti negli USA e in Europa, sono rientrati in patria. Poi però la crisi economica, la corruzione e, non ultima, la guerra hanno infranto quel sogno. Tuttavia, per almeno due anni l’Occidente ha promesso aiuto in nome del «grande gesto» del popolo armeno che aveva scelto la democrazia, salvo poi voltarsi dall’altra parte, forse anche a causa delle ingenti forniture di gas e petrolio che l’Azerbaigian invia in Europa.

Perciò tra le condizioni del «cessate il fuoco», Armenia e Azerbaigian si erano accordate per la mediazione russa e per la presenza di un contingente di pace di Mosca a garantire i nuovi confini. Il 9 novembre 2022 si è firmato un accordo tripartito. A collegare l’ex-capitale indipendentista al territorio armeno oggi rimane solo il cosiddetto «Corridoio di Lachin»: una lingua di terra di cinque chilometri che prende il nome della città di confine da cui parte l’unica strada rimasta agli armeni in Artsakh. A presidiarla ci sono i soldati del contingente di pace russo inviati a garantire il cessate il fuoco. Duemila per cinque anni, stando agli accordi ufficiali post-bellici, di più secondo fonti ufficiose.

Ma ora i russi sono impegnati in Ucraina, e a Baku devono aver deciso che è il momento propizio per completare l’opera di riconquista del Nagorno-Karabakh lanciando durante l’estate del 2022 l’«Operazione castigo». Il ministero della Difesa azero ha chiesto il completo disarmo dell’esercito di difesa della Repubblica dell’Artsakh e il ritiro delle unità armene dalla regione. Erevan, dal canto suo, accusa i vicini di cercare solo un casus belli. L’obiettivo sembra essere la conquista di nuove alture strategiche e l’occupazione del Corridoio di Lachin in modo da tagliare fuori Stepanakert. Ma lì ci sono i russi. Se da un lato il grande sforzo bellico che il Cremlino sta sostenendo dall’inizio dell’anno in Ucraina mina le possibilità di risposta immediata russe, dall’altro Putin non può permettere che il fragile equilibrio del Caucaso sia compromesso. Sarebbe un precedente troppo pericoloso per le tensioni crescenti in altre zone dell’Asia continentale, come l’Uzbekistan. In effetti, data la necessità di truppe esperte in Ucraina, all’inizio dell’estate scorsa gli uomini del contingente di pace russo in Armenia sono stati sostituiti da soldati meno preparati (forse addirittura da militari di leva, ma su questo il ministero degli Esteri di Mosca non ha mai fornito informazioni precise). Erevan sostiene anche che il numero degli effettivi sia diminuito e potrebbe anche essere vero data la scarsa capacità di deterrenza che i peace-keeper hanno dimostrato nei momenti di maggiore tensione tra gli azeri e i separatisti dell’Artsakh.

Tuttavia Baku non si ferma e la strategia non sembra neanche troppo celata. Ora che tutto il mondo guarda all’Ucraina e considera la Russia come il male assoluto, il governo azero ha deciso di provare a chiudere una questione aperta da trent’anni e, per farlo, sta usando le armi che gli ha fornito principalmente la Turchia di Recep Tayyp Erdogan. Del resto Alyiev ed Erdogan oltre a essere alleati di ferro politicamente hanno diversi interessi commerciali in comune. Se il primo riuscisse ad aprire il cosiddetto «Corridoio Zangezur» e a ricollegarsi all’exclave del Nakhichevan si aprirebbe un passaggio diretto tra il Mar Mediterraneo e il Mar Caspio. È il sogno del panturchismo portato avanti da Erdogan negli ultimi. Inoltre, il presidente Azero ha detto chiaramente che «il corridoio ci sarà, indipendentemente dal fatto che l’Armenia sia d’accordo o meno».

 

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Si tratta di una polveriera pronta a esplodere, è evidente. A evitare la guerra al momento c’è senz’altro l’impreparazione armena e la mancanza di una rete di alleanze che permetterebbe a Erevan di resistere. L’Azerbaigian, dal canto suo, continua da quasi un anno a fare pressione sui confini armeni. Al momento nella regione di Stepanakert le condizioni umanitarie sono disastrose: secondo fonti armene «la chiusura del Corridoio di Lachin non era sufficiente per l’Azerbaigian, che chiude anche il gasdotto che alimenta il Nagorno-Karabakh, poi lo apre del 10%, poi lo chiude di nuovo, poi lo apre, ad esempio, del 25%, e così via. Inoltre, si verificano frequenti interruzioni di corrente, perché l’Azerbaigian ha anche interrotto l’operatività delle linee elettriche e la popolazione viene rifornita di elettricità solo grazie alle centrali elettriche locali, che non sono sufficienti. I beni di prima necessità vengono forniti alla popolazione attraverso un sistema di “voucher” e ci sono oltre 25mila studenti, tra asili e scuole pubbliche, che al momento non possono frequentare le lezioni.

L’analisi conclusiva nell’ultima dichiarazione del Primo ministro armeno non sembra troppo lontana dalla realtà: «con tutto ciò il governo dell’Azerbaigian persegue un unico obiettivo: spezzare la volontà degli armeni del Nagorno-Karabakh di vivere nella loro patria. Inoltre, secondo le informazioni in nostro possesso, il piano di Baku è il seguente: portare la pressione economica e psicologica nel Nagorno-Karabakh al culmine, dopodiché aprire il corridoio per alcuni giorni con l’aspettativa che gli armeni del Nagorno-Karabakh lascino in massa le loro case, chiudere di nuovo il corridoio e poi riaprirlo per alcuni giorni e così via fino a quando l’ultimo armeno lascerà il Nagorno-Karabakh. Si tratta, ovviamente, di una palese politica di pulizia etnica. E devo constatare che se finora la comunità internazionale era scettica riguardo ai nostri allarmi sulle intenzioni dell’Azerbaigian di sottoporre gli armeni del Nagorno-Karabakh a pulizia etnica, ora vediamo già che questa percezione si sta lentamente ma costantemente rafforzando».