international analysis and commentary

La minoranza ispanica e la possibile maggioranza di Obama

765

Se c’è una cosa sulla quale tutti gli osservatori sono d’accordo, è che il ruolo degli ispanici e delle minoranze in genere nella politica americana è destinato a crescere. In questo momento storico si tratta di una tendenza che avvantaggia il Partito Democratico e contribuisce alle speranze di rielezione del Presidente Barack Obama. La ricerca di un candidato capace di rapportarsi alle minoranze senza perdere il nocciolo duro del voto – i maschi bianchi – è invece una delle grandi sfide che il Partito Repubblicano ha dinnanzi a sé. Fin dalle prime battute, la campagna del presidente ha messo in moto una macchina volta a promuovere la partecipazione e a generare consensi in questa comunità, diversa al proprio interno e che pesa molto in Stati che a novembre saranno contesi – o che Obama spera lo diventino. Tre esempi, non i soli, sono la Florida (uno degli swing state per eccellenza), il New Mexico (che tende al democratico) e l’Arizona (dove invece i Repubblicani giocano in casa). In Arizona la campagna del presidente sta tastando il terreno per un possibile colpo di mano simile a quelli di Virginia e North Carolina del 2008.

Parlare ai latinos, convincerli e portarli al voto non è impresa facile e, soprattutto, è faccenda molto diversa da Stato a Stato.

Per capire quanto possa diventare importante il voto ispanico basti ricordare qualche dato del censimento 2010. Nei dieci anni passati dall’ultima rilevazione nazionale sulla popolazione, il numero di americani è aumentato di più di 27 milioni. Più della metà di questi sono ispanici. Il secondo gruppo  è costituito da popolazioni di provenienza asiatica. Naturalmente non c’è un rapporto diretto tra crescita della popolazione e partecipazione attiva alla vita politica. Nei momenti in cui si va alle urne per decidere del futuro del paese, i bianchi restano sovrappresentati: sono, infatti, più numerosi tra gli aventi diritto – tra le minoranze sono molti i minorenni e i residenti senza cittadinanza – e hanno una percentuale di registrazione al voto più alta : 68% della popolazione e 75,9% degli aventi diritto nel 2004; 65% e 74,4% degli elettori nel 2008. Nel 2012 i bianchi saranno il 63% degli aventi diritto. Va detto, però, che, per ragioni legate all’incremento del sentimento di cittadinanza negli ispanici e negli asiatici e per via del profilo del tutto unico del candidato Obama nel 2008, in quelle elezioni le minoranze etniche andarono a votare in percentuali più alte del solito. Anche perché lo sforzo fatto dalla campagna di Obama per iscrivere questi cittadini nelle liste elettorali, e perfino accompagnarli fisicamente alle urne, fu enorme.

È quasi certo che la dinamica di aumentata partecipazione al voto delle minoranze, specie quella ispanica, proseguirà in maniera costante negli anni a venire. Resta da vedere se e quanto avrà un impatto già nel 2012. Soprattutto, dato l’andamento altalenante dell’economia, non è chiaro che il vantaggio straordinario accumulato da Obama nel 2008 si ripeta. Ad esempio in Florida, dove la popolazione ispanica è soprattutto originaria di paesi di vecchia immigrazione, come ad esempio Cuba, ed è meno attenta al tema della riforma del sistema delle leggi americane sull’immigrazione. Quel che è certo è che nel 2012 gli ispanici saranno più del 10% degli elettori in molti swing state: Florida, Colorado, New Mexico, Nevada. Sufficienti a garantire la rielezione di Obama nel caso il presidente dovesse perdere l’Ohio, la Virginia e la North Carolina. Per i Democratici l’elettorato ispanico è un investimento a lungo, ma anche a breve termine.

Per questo, Obama2012 ha lanciato l’iniziativa “Latinos for Obama”, nel tentativo di penetrare nelle comunità locali e di parlare agli ispanici con un messaggio omogeneo a livello nazionale. Nella prima fase della campagna, gli spot pubblicati su internet sono tesi soprattutto a reclutare volontari. A parlare sono testimonial famosi – ad esempio Eva Longoria, l’attrice di Desperate Housewives – e persone che raccontano la propria esperienza e spiegano perché hanno deciso di partecipare alla campagna per riportare Obama alla Casa Bianca. Aumentare la partecipazione elettorale tra i gruppi meno abituati a votate – che sono la spina dorsale del voto del presidente, afroamericani e giovani compresi – è cruciale per Obama, che quindi ha bisogno di un esercito di volontari per convincerli a registrarsi e poi portarli a votare il giorno delle elezioni.

Il vantaggio dei Democratici sui Repubblicani tra gli ispanici è cresciuto tra 2004 e 2008 e questo, dicono in molti, è stato un passaggio fondamentale della vittoria di Obama. È probabile che questo vantaggio permanga, ma non si tratta di posizioni necessariamente consolidate. In fondo, nel 2004, l’allora stratega di George W. Bush Karl Rove parlava degli ispanici come di un elemento chiave per rafforzare la maggioranza repubblicana. Il punto debole di Obama rispetto all’elettorato ispanico è rappresentato dalle sue posizioni in materia che possiamo chiamare etica. Pur votando democratico sui temi socio-economici (sanità, istruzione e diritti del lavoro sono carte da giocare per i Democratici), gli ispanici sono più conservatori della media per quanto riguarda la famiglia, l’aborto, i diritti degli omosessuali. Ad esempio, il sostegno all’idea del matrimonio tra persone dello stesso sesso venuto da Obama nei primi giorni di maggio potrebbe essere usato contro di lui proprio tra i latinos. Per riuscire, i Repubblicani dovrebbero ricevere l’appoggio delle chiese, luogo di ritrovo per tanti americani di origini centro e sud americane. Specie quella cattolica. Visto, però, che le chiese hanno giocato e giocano un ruolo fondamentale anche nella mobilitazione degli immigrati che lottano per vedere riconosciuti i propri diritti, è difficile che scelgano una strada tanto netta sulle questioni a sfondo sociale.

Il tema più caro alla maggior parte dei latinos, specie quelli degli Stati del West, di origine soprattutto messicana, è quello dell’immigrazione. Senza fare molto, il presidente ha tratto vantaggio da alcune mosse estreme da parte dei Repubblicani. In Alabama e Arizona, le leggi sull’immigrazione approvate dalle rispettive assemblee statali a maggioranza conservatrice sono state portate in giudizio dal dipartimento di Stato federale perché adottano ufficialmente il racial profiling come politica pubblica, ovvero la discriminazione delle persone sulla base della loro appartenenza etnica. La cancellazione dai curricula scolastici dei riferimenti alla cultura ispanica in Texas è un altro punto di forza. – specie in Stati dove i latinos non sono realmente immigrati, ma gente che vive in questa terra di frontiera perfino da prima che diventasse Stati Uniti. Terza arma di Obama è il DREAM Act, la proposta di regolarizzazione dei giovani arrivati illegalmente nel paese al seguito dei genitori e che ora siano disposti a studiare all’università o a prestare servizio militare. Osteggiata dai Repubblicani, la legge non è una sanatoria per i milioni di indocumentados che vivono nel paese e non è la riforma dell’immigrazione che anche il mondo del business chiede da anni. Ma è una proposta che Obama può sfruttare per evidenziare la propria distanza dalla linea dura dei Repubblicani. La domanda di riforma ha prodotto enorme partecipazione nel 2006, una mobilitazione che sembra aver trovato forme stabili e organizzate di lungo periodo.

Un possibile tallone di Achille di Obama, invece, potrebbero essere le deportazioni. Specie in una fase in cui la sinistra americana è particolarmente vivace e visibile, il tema dell’aumento dei controlli da parte delle autorità federali – dirette da Janet Napolitano, segretario alla Sicurezza nazionale e non a caso ex governatore dell’Arizona – potrebbe far ritenere a segmenti dell’elettorato che, in materia di espulsioni dal paese e di irregolari, tra un Repubblicano e un Democratico non c’è tanta differenza. D’altro canto, il problema è attutito dal fatto che questo genere di mobilitazioni di sinistra sono forti in Stati – New York e California – dove Obama non ha nulla da temere.