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La mappa del Triangolo d’Oro in mutamento

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A lungo noto come epicentro del traffico di droga globale (prima con l’eroina, ora con le metanfetamine), l’area di confine tra Thailandia, Laos e Myanmar è oggi attraversata da una trasformazione più ampia, guidata in larga parte dalla crescente influenza cinese. Il nome Triangolo d’Oro è stato coniato per la prima volta in Occidente da un militare americano nel 1971, che descrisse l’area come zona di provenienza dell’oppio di cui poi finivano dipendenti le truppe USA in Vietnam. Oggi nella zona interessi economici, pressioni ambientali e reti criminali si intrecciano, ridefinendo gli equilibri geopolitici dell’intera regione.

 

Da un lato, Pechino rafforza la propria influenza attraverso infrastrutture strategiche, come le dighe che alterano il regime idrico del Mekong: il grande fiume sfocia in Vietnam e il suo bacino interessa tutti gli Stati della regione, ma ha origine nelle montagne della Cina meridionale. Dall’altro, gruppi criminali e investitori cinesi operano nello sfruttamento minerario e nella gestione di zone economiche speciali trasformate in piattaforme per il gioco d’azzardo, il riciclaggio e le frodi digitali.

Al centro di queste trasformazioni si colloca un settore chiave per l’economia globale e la competizione strategica tra potenze: quello delle terre rare, un gruppo di diciassette elementi fondamentali per la transizione energetica, l’elettronica avanzata e l’industria militare. Sebbene la Cina mantenga circa il 70% della produzione mondiale, ha progressivamente delocalizzato la fase più inquinante della filiera, vale a dire l’estrazione e il primo trattamento, in contesti dove tutto può avvenire senza ostacoli normativi né costi politici, grazie alla complicità o all’inconsistenza delle autorità ufficiali.

Il Myanmar è uno dei principali epicentri di questo processo. Dopo il golpe del febbraio 2021, con lo scoppio della guerra civile, la giunta militare di Naypyidaw ha perso il controllo di svariati territori. Due principali attori armati controllano varie parti del Paese: il Restoration Council of Shan State (RCSS), alleato dei militari, e la United Wa State Army (UWSA), una milizia dotata di oltre 30mila effettivi, pesantemente armata e da sempre sostenuta da Pechino. L’UWSA amministra un’enclave de facto autonoma grande quanto il Belgio e gestisce, oltre a traffici di stupefacenti e risorse naturali, anche le attività estrattive più redditizie, tra cui le nuove miniere di terre rare. In queste aree fuori da ogni controllo istituzionale, imprese cinesi operano attraverso intese informali con attori locali armati, mentre la giunta, pur assente sul piano territoriale, continua a trarre profitto da queste operazioni, attraverso tasse e accordi sottobanco.

 

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Nelle zone di Mong Hsat e Mong Yun, ai margini orientali dello Stato Shan, decine di nuove miniere di terre rare sono comparse in meno di due anni. Secondo un’analisi satellitare condotta dalla Shan Human Rights Foundation e dal Geo-Informatics and Space Technology Development Agency, sono state individuate oltre quaranta nuove aree disboscate, riconducibili all’apertura di siti di estrazione e alle successive operazioni di trattamento chimico dei minerali, che comportano un uso intensivo di sostanze tossiche per separare gli elementi dal materiale roccioso.

 

Le tecniche impiegate per estrarre le terre rare, come l’iniezione nel suolo di soluzioni chimiche a base di solfato di ammonio, generano effetti distruttivi sull’ecosistema. Il processo rilascia arsenico, piombo e altri metalli pesanti che si infiltrano nelle falde e nei corsi d’acqua, accelerando l’erosione del terreno, compromettendo in modo duraturo la salute dei suoli e delle risorse idriche. A pagarne il prezzo sono soprattutto le comunità a valle, nel nord della Thailandia e in alcune aree del Laos.

Tra aprile e giugno 2025, il Pollution Control Department di Bangkok ha effettuato analisi in oltre venti punti lungo i fiumi Kok, Ruak e Sai  (affluenti del bacino del Mekong) e il Mekong stesso, rivelando livelli di arsenico, nichel e manganese superiori agli standard stabiliti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS).

A compromettere l’equilibrio della regione non è solo l’inquinamento delle acque. Con i suoi quasi 5mila chilometri, il Mekong è il terzo fiume più lungo dell’Asia, nasce sull’altopiano tibetano e attraversa sei Paesi, fino al vasto delta nel sud del Vietnam, dove sfocia nel Mar Cinese Meridionale. Negli ultimi anni, la sua gestione è stata alterata dalla costruzione di grandi dighe idroelettriche. La Cina, che non fa parte della Mekong River Commission, l’organismo intergovernativo che promuove la cooperazione tra i Paesi del bacino, controlla il tratto superiore (il Lancang) con undici impianti principali, tra cui Xiaowan e Nuozhadu, determinando artificialmente la portata stagionale del fiume, con gravi ripercussioni sulla popolazione a valle, che ha sempre vissuto grazie alla pesca e all’agricoltura fluviale, oggi minacciate dalle improvvise fluttuazioni dell’acqua, dall’erosione delle sponde e da cicli agricoli sempre più imprevedibili.

Anche il Laos, spinto da Pechino e dai suoi investimenti, ha puntato sull’idroelettrico come pilastro economico. Il Paese ospita almeno 75 dighe sui suoi affluenti e due sul corso principale (Xayaburi e Don Sahong) modificando in modo significativo la dinamica naturale del fiume. Tra le aziende coinvolte spiccano PowerChina e la sua controllata Sinohydro, responsabili anche del complesso da 2,7 miliardi di dollari sul fiume Nam Ou. La rete elettrica nazionale è oggi gestita da una joint venture tra China Southern Power Grid e Electricité du Laos, denominata Electricité du Laos Transmission Company, in cambio di concessioni a lungo termine e a fronte di un pesante indebitamento verso la Cina.

 

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Sempre lungo il Mekong, nella provincia di Bokeo in Laos, è sorta una città fantasma fatta di grattacieli in costruzione e casinò: la Golden Triangle Special Economic Zone (GTSEZ), di fatto sotto controllo cinese. Si tratta di una zona «extraterritoriale», concessa in affitto dal governo laotiano a Zhao Wei, uomo d’affari cinese sanzionato da parte degli Stati Uniti. Zhao è accusato di guidare una rete criminale transnazionale coinvolta nel narcotraffico, traffico di esseri umani e riciclaggio di denaro.

Il centro dell’area, pattugliata da sicurezza privata e inaccessibile ai giornalisti, è il Kings Romans Casino, attorno al quale ruota un’intera economia fondata sul gioco d’azzardo e, soprattutto, sulle frodi digitali. Secondo le indagini di Al Jazeera, della Global Initiative e delle Nazioni Unite, all’interno della GTSEZ, una delle cosiddette «scam city», centri costruiti ad hoc per le truffe online, operano decine di strutture in cui lavoratori, spesso ingannati con false proposte, sono costretti a lavorare sotto sorveglianza armata. Le tecniche includono falsi investimenti, piattaforme bancarie fittizie, finti uffici governativi e la cosiddetta «pig butchering», ovvero la costruzione di relazioni affettive fasulle per estorcere denaro alle vittime. I guadagni, stimati in miliardi di dollari, vengono riciclati tramite app e circuiti di criptovalute, sfruttando l’assenza di controlli e spesso anche la complicità delle autorità locali.

Secondo il Center for Strategic and International Studies, l’industria delle truffe digitali in Asia genera profitti comparabili a quelli del traffico di droga. Tra le reti criminali più grandi troviamo Sam Gor, un’organizzazione transnazionale attiva tra Cina, Myanmar, Laos, Cambogia e Thailandia, composta da un’alleanza di triadi cinesi e considerata una delle reti più influenti del narcotraffico asiatico. L’Ufficio delle Nazioni Unite contro la Droga e il Crimine (UNODC), ha stimato che nel 2018 Sam Gor controllava tra il 40% e il 70% del mercato all’ingrosso di metanfetamine nella regione Asia-Pacifico, con profitti stimati tra gli 8 e i 17,7 miliardi di dollari.

In questo scenario, la regione del Mekong si configura come un laboratorio di penetrazione economica e strategica cinese, dove attori statali, imprese parastatali e reti criminali operano su piani distinti ma convergenti. A spingere Pechino verso quest’area è un insieme di obiettivi strategici: garantirsi l’accesso a risorse essenziali per la transizione tecnologica ed energetica, estendere la propria influenza lungo le rotte verso il Sud-Est asiatico e consolidare una sfera di controllo in contesti dove l’assenza di regole internazionali consente di operare senza vincoli. Il risultato è una nuova forma di dominio. Fluida, decentralizzata e fondata sull’asimmetria di potere più che sull’occupazione formale del territorio.