La lunga parabola di Vladimir Putin al vertice della Russia
A metà marzo il presidente russo Vladimir Putin si appresta, all’età di 71 anni, a stravincere il suo quinto mandato complessivo (i primi due quadriennali e gli ultimi due sessennali), fino al 2030. L’esecuzione – perché di questo si è trattato – lo scorso 16 febbraio di Aleksey Navalny, suo unico oppositore politico rimasto, dichiarato morto nella prigione siberiana dove era rinchiuso da alcuni mesi, chiude un cerchio ideale. La scomparsa di Navalny esemplifica e conclude, infatti, la parabola che ha portato Putin dal diventare presidente quasi per caso nel 2000 all’essere il leader non semplicemente autoritario, ma ormai totalitario, della Russia odierna.
Ex post è facile dire che quello a cui assistiamo oggi fosse scritto dal primo giorno. È vero che fin dal 1999, quando Boris Eltsin lo nominò per pochi mesi Primo Ministro e lui lanciò immediatamente la seconda guerra cecena, alcuni segnali di come avrebbe gestito il potere erano già molto chiari: Putin dichiarò di voler vendicare la disfatta subita durante la prima guerra cecena del 1994-1996 a ogni costo – cosa che fece, con violenze inaudite e reprimendo la libertà di stampa – e di riportare l’”ordine” dopo il caos degli anni ‘90. Ciò significava, come si capì già agli inizi degli anni 2000, una progressiva ricentralizzazione dei poteri tramite la messa fuori gioco di oligarchi non legati a lui (vedi Mikhail Khodorkovsky) e un controllo maggiore su tutte le entità federate del Paese – la Russia non ha mai cessato, infatti, di essere ufficialmente una Federazione.
Su questo sfondo e seguendo il ventennio putiniano più da vicino, però, vediamo che ogni tornata elettorale è stata diversa dall’altra, e che la precisa involuzione autoritaria del regime non era predeterminata, quantomeno nelle tempistiche e nelle modalità, per due ragioni. La prima è che ogni competizione ha richiesto al presidente russo, al fine della sua vittoria e affermazione, strategie elettorali diverse. La seconda è che alcuni momenti cruciali – tra tutti, le rivoluzioni colorate in Georgia e Ucraina nel 2003 e 2004 e le proteste contro il regime del 2011-2012 – hanno acuito il senso di accerchiamento e la paranoia del Cremlino. Questo ha portato a specifiche reazioni, ideologiche e politiche, che non erano inevitabili, e che hanno accelerato in determinati snodi il processo di autoritarismo crescente già in corso, probabilmente nel lungo termine comunque inevitabile.
Leggi anche: A state of mind: how conspiracy theories became the Kremlin’s ideology
Alle prime elezioni a cui partecipa, nel gennaio 2000, Putin era sconosciuto fino a quattro mesi prima alla popolazione, eppure gode improvvisamente dell’80% dei consensi grazie all’operazione di successo in Cecenia, che porta i russi a occupare la capitale Grozny in poche settimane. Per sostituire al più presto uno Eltsin malato, e al fine di sfruttare il sostegno alla campagna militare, vengono indette elezioni anticipate. Putin non ha un suo partito, ma un cartello che lo sostiene nella sostanziale continuità con il suo predecessore. Allora come oggi, il partito d’opposizione principale è il Partito comunista russo (KPRF), guidato dal suo leader storico Gennady Zyuganov, che all’epoca ha ancora una popolarità reale. È una popolarità che aveva minacciato la vittoria di Eltsin nel 1996 e che dalla successiva tornata elettorale perderà, trasformandosi in un partito che – pur restando importante e radicato su tutto il territorio nazionale – sarà utile strumento per garantire a Putin una finzione democratica più che una vera forza d’opposizione.
Nel 2004, anno dell’avvio del secondo mandato putiniano, il contesto è già cambiato. Nel 2001 viene creato il partito di governo che esiste tuttora, Russia Unita: sono gli anni d’oro del putinismo, sostenuto convintamente dalla popolazione grazie a un miglioramento rapido e progressivo della qualità di vita dopo la crisi economica del 1998. Putin vince, sempre da indipendente e non come leader di partito, contro il candidato comunista Nikolay Kharitonov, che ottiene il 13% dei voti contro il 30% di Zjuganov quattro anni prima.
La Rivoluzione delle Rose in Georgia (2003) e la Rivoluzione Arancione in Ucraina (2004), che portano al governo politici apertamente pro-occidentali e antirussi (soprattutto nel caso georgiano, con Michail Saakashvili), vengono viste al Cremlino come il risultato di un’interferenza diretta occidentale e non come movimenti spontanei. L’eminenza grigia di Putin all’epoca, Vladislav Surkov, elabora all’epoca, al fine di scongiurare ogni forma di influenza esterna, l’idea di “democrazia sovrana” (la Russia è democratica, ma a suo modo, non contestabile né modellabile dall’esterno) e, più in generale, sostiene che sia essenziale che il partito si doti di un’ideologia e una struttura più forti. L’idea di democrazia sovrana di Surkov, per quanto fumosa, ha delle implicazioni concrete, poiché porta a teorizzare una differenza tra partiti “sistemici” e “antisistemici”, con i primi autorizzati a partecipare alle elezioni per dare ai cittadini un’impressione di democrazia, ma non seriamente opposti al regime, e i secondi da tenere a ogni costo al di fuori della competizione attraverso vari meccanismi di ingegneria elettorale, più che di aperta repressione.
Dopo la parentesi del Primo Ministro Dmitry Medvedev, eletto presidente tra il 2008 e il 2012 con un programma “liberale” in economia e nelle relazioni con l’Occidente presto naufragato, Putin forza la Costituzione – che prevedeva il divieto di partecipare a nuove elezioni dopo due mandati consecutivi – e si candida per una terza volta. È in quel momento che si capisce formalmente, chiaramente, che Putin non se ne andrà più, e che si svolgono a Mosca e San Pietroburgo le più importanti proteste degli ultimi venticinque anni, guidati da vari politici liberali, tra cui Boris Nemtsov – assassinato nel 2015 – e il vero leader carismatico delle manifestazioni, Aleksey Navalny.
Leggi anche:
Putin, now and forever
Boris Nemtsov, il memoriale e le uccisioni politiche nella Russia di Putin
Man against the machine: Aleksei Navalny, Russian society and the Kremlin
Le proteste sono uno shock per il Cremlino, e portano a rafforzare, molto rapidamente, la repressione sui media e le organizzazioni non governative (in particolare i finanziamenti esteri) che era già iniziata in maniera graduale a partire dalle Rivoluzioni Colorate. Anche il contenuto politico del messaggio cambia, incentrandosi molto più di prima sui valori tradizionali e religiosi ortodossi, oltre che sull’importanza e superiorità dell’identità slava rispetto alle altre presenti nella Federazione Russa. Da quel momento in poi, e in parallelo, il partito Russia Unita, che era stato uno strumento essenziale per rappresentare Putin nei territori negli anni precedenti attraverso figure politiche locali, si svuota di importanza e si spoliticizza, diventando una scatola vuota che viene riempita ormai dalle nomine in stile nomenklatura sovietica dall’Amministrazione presidenziale, diventata, come in passato il Partito Comunista, la macchina di controllo politico centralizzato del Paese.
La terza presidenza putiniana è segnata dall’annessione della Crimea e dalla (prima) guerra in Ucraina a partire dal 2014, che allontana la Russia dall’Occidente e porta internamente a un sostegno che serve a Putin per legittimare il regime, ma che non è così duraturo: nel 2018, causa la riforma delle pensioni, l’apprezzamento della popolazione è ai minimi – circa il 60% rispetto all’80% del post-2014 – e include la fascia di persone più anziane tradizionalmente più favorevoli al presidente.
Leggi anche: 2014 – Storia e geopolitica dietro la vicenda ucraina
È in un contesto di invecchiamento e chiara involuzione autoritaria del regime che Navalny dichiara la sua intenzione di partecipare alle elezioni presidenziali del 2018 – da cui viene escluso con dei pretesti – dopo aver ottenuto il 27% alle elezioni a sindaco di Mosca nel 2013, e che il Cremlino decide, come Navalny ha dimostrato insieme al sito di investigazione Bellingcat, di eliminarlo fisicamente. Mentre la repressione aumenta e Putin avvia il quarto mandato, viene riscritta la Costituzione, che ora prevede il diritto del presidente in carica di governare per ulteriori dodici anni – fino al 2036 – e nuove regole stringenti sulle condizioni per potersi candidare, tra cui non aver mai risieduto all’estero nei (guarda caso) venticinque anni precedenti.
Dalla guerra in Ucraina nel 2022, nessuna forma di dissenso è più ammessa, e il presidente non cerca più una legittimazione dal basso della popolazione. L’abbiamo visto con l’esecuzione pubblica di Evgeny Prigozhin in estate, pochi giorni fa con Navalny. Le elezioni del 2024 sono le prime della Russia post-sovietica in cui non è rimasto nulla della parvenza, seppur vaga, di un voto democratico, e in cui la popolazione ha paura.