La guerra per il clima – Conversazione con Gerardo Greco
Conversazione con Gerardo Greco
“Guerra calda” è un racconto, e al contempo un libro-inchiesta (Feltrinelli, 2020), basato fedelmente sui fatti. E’ un saggio travestito in una forma narrativa diversa. E ruota attorno al “climategate” che, da fine 2009, ha rischiato di mettere in dubbio il vasto consenso della comunità scientifica sui cambiamenti climatici antropici.
Aspenia Online: Come evocato dal titolo, è in corso una vera battaglia su scala globale: uno scontro politico, economico, culturale. Siamo di fronte alla creazione di un possibile nuovo impianto ideologico, una “visione del mondo” incentrata sull’idea che l’umanità sia colpevole di una sorta di peccato originale contro il Pianeta… rischiamo forse di scegliere la via dell’espiazione, dimenticando quanti vantaggi abbiamo tratto dai vecchi modelli di sviluppo e di crescita anche in termini di conoscenze che ora possiamo sfruttare per porre rimedio ai danni? Finiremo per gettare il bambino (la fiducia nella scienza e nel progresso) assieme all’acqua sporca (le tante cattive abitudini nello sfruttamento dell’ambiente)? Gli scienziati sapranno svolgere il loro ruolo indispensabile ma delicatissimo?
Gerardo Greco: Credo si debba essere pragmatici, siamo in un momento storico in cui il modello di sviluppo può cambiare. Ci saranno economie che resteranno legate a un vecchio schema industriale e altre, quelle più avanzate, che prenderanno il cambiamento climatico come opportunità economica per evolversi. E’ la teoria della Green economy che non per caso ha tanta parte nella piattaforma della nuova Commissione Europea guidata da Ursula von der Leyen. Avremo, anzi abbiamo già, un mondo industriale a diverse velocità, con grandi differenze nelle innovazioni dei processi. E con tassi di emissione di gas serra molto diversi. Però non basta che solo l’Europa sia virtuosa, che solo noi si appartenga al “primo mondo” e si metta in piedi una rivoluzione industriale eco-sostenibile solo in casa nostra.
AO: Un ingrediente fondamentale per affrontare la sfida climatica è chiaramente quello della comunicazione: come gestire le informazioni della comunità scientifica (tipicamente complesse, tecniche, e probabilistiche più che “certe”), la divulgazione per l’opinione pubblica, le scelte politiche che spettano alle autorità preposte, e infine l’impatto (a volte collaterale e indesiderato) delle scelte (o delle scelte non fatte) sui cittadini più esposti e vulnerabili economicamente. Un intreccio davvero intricato. La circolazione quasi impazzita di dati digitali – comprese le attività di hacker vari – ci condannano a non fidarci più di nulla e di nessuno? E’ il trionfo della cosiddetta “post-verità”?
GG: Viviamo in un mondo di comunicazione digitale velocissima, mossa da algoritmi, intelligenze artificiali che rischiano di cambiare la percezione del mondo reale. Per esempio sono convinto che la Scienza (quella con la S maiuscola) stia attraversando un periodo di enorme fragilità. La storia di “Guerra calda” è in fondo la storia di una sconfitta della scienza attaccata sui social network nel 2009. La scienza ufficiale del clima, che come tutte le scienze è fatta di dubbi e procede per falsificazioni, viene messa sotto scacco in America, per alcune frasi di e-mail estrapolate dal contesto. E gli scienziati non riescono a fermare l’onda di discredito. Non riescono a spiegare. Non riescono, ancora prima, a comunicare certezze. Forse perché neanche loro ne hanno.
La scienza del clima è complessa e comunicare la complessità, nell’epoca dei social immediati, è quasi impossibile. Per questo credo che la Scienza, non solo quella del clima, stia attraversando un momento difficile e pericoloso. Non è più in grado di comunicare immediatamente senza essere messa in dubbio da chi pure ne sa poco. La logica per cui “uno vale uno” (anzi uno vale tutti i follower che mi porto dietro) che prevale in rete rappresenta un rischio di delegittimazione del pensiero e delle teorie scientifiche. La Scienza non può essere populista. E’ elitaria. E’ fatta da chi studia. Ma deve ripensare un modello di comunicazione più efficace.
AO: In particolare, nel libro si evidenzia il problema dell’accelerazione degli eventi, con la difficoltà a immaginare e capire un concetto in effetti sfuggente: esistono punti di svolta o di rottura, i famigerati “tipping points”, cioè quei passaggi in cui i fenomeni cambiano ritmo e diventano perfino qualitativamente diversi. Il compito della divulgazione scientifica è decisivo, come abbiamo sperimentato con il “coronavirus” di origine cinese. Ma cosa possono fare i media generalisti in senso più ampio per informare correttamente senza generare panico inutile?
GG: Ecco, proprio in questo momento di crisi di credibilità, l’informazione generalista ha un ruolo preminente. I media credibili, autorevoli, di cui il lettore si fida (magari lo stesso Servizio Pubblico) devono entrare in gioco per cercare di divulgare e spiegare la complessità. Il caso del coronavirus è emblematico. L’informazione professionale ci deve traghettare fuori dal mondo confuso e scorretto di una informazione non controllata che può dar luogo a leggende e teorie bislacche. Altrimenti il sonno dei media genera incubi.
AO: Gli episodi e le storie raccontate nel libro portano l’attenzione anche su un aspetto spesso – e stranamente – sottovalutato del rapporto tra umanità e ambiente naturale: l’abitudine perduta a vivere a contatto con gli elementi, nel bene e nel male. Si stanno perdendo le tradizioni legate all’uso quotidiano delle risorse naturali, all’interazione costante con il mondo vegetale e animale, con il freddo e con il caldo. In effetti, la cultura di gran lunga prevalente perfino nei movimenti ambientalisti più attivi sembra tutta “urbana”, molto tecnologica, e manca quasi sempre di una vera memoria delle società rurali, ad esempio. C’è realmente questa sconnessione culturale, e che effetti può avere sul nostro approccio alle questioni ambientali?
GG: Viviamo in un mondo che ci illudiamo sia controllato dalle nostre app. O quanto meno addomesticato. Eppure ci accorgiamo che il cambiamento climatico ci riporta a uno stato quasi primordiale di rapporto con la natura. Ce ne accorgiamo quando arrivano le tempeste perfette, come quella dell’ottobre del 2018 (la tempesta “Vaia” che distrusse intere foreste nel Nordest italiano), e bussano alla porta di casa. Qualcosa di inaspettato nel nostro mondo rigorosamente a portata di dito. Quando vediamo le trombe d’aria, le mareggiate che si abbattono sulle nostre coste. E’ allora che sentirete: mai visto nulla del genere a memoria d’uomo. Che è un po’ l’ammissione di una sconfitta. Non immaginavamo una cosa del genere. Ecco, per arginare il cambiamento climatico bisogna rendersene conto. E il rapporto con la natura è l’unico modo per farlo. Solo che bisogna anche razionalizzare la nostra improvvisa paura. E trovare risposte.
AO: Osservando i nuovi movimenti ambientalisti, possiamo fare una specie di radiografia del nuovo giovane attivista – che peraltro tra qualche anno potrebbe essere un leader politico? Soprattutto, è in fondo ancora un ottimista, oppure è rassegnato alla gestione di una catastrofe, con una visione apocalittica?
GG: I ragazzi che scendono in piazza con Greta, che spesso sono giovanissimi (io ho un figlio di 14 anni che è andato ai Fridays for future) sono di frequente animati da pessimismo cosmico. Come se fossero davanti a un estremo peccato originale, per il quale non c’è redenzione. Sono millenaristi. Sfiduciati. Io credo che invece anche questa sia un’opportunità. Un movimento così globale ed efficace deve essere l’occasione per premere sulle politiche nazionali e per trovare una rappresentanza. Anche se per ora un vero soggetto politico che rappresenti le istanze di chi si pone i problemi climatici, in Italia non c’è.
AO: Nella guerra calda che si sta combattendo, non c’è dubbio che la geopolitica dell’energia, e soprattutto delle fonti fossili, abbia un ruolo centrale: come possiamo valutare la decisione assunta da diverse grandi compagnie energetiche, alcuni investitori, e perfino il governo saudita, di avviare una vasta transizione verso un modello economico e produttivo più “verde” e sostenibile? Sono passi tardivi e simbolici, o anche qui è finalmente arrivato un “tipping point”, stavolta positivo?
GG: Credo che siamo davvero a un punto di svolta. Stiamo cominciando ad immaginare un mondo a impatto più basso. Con meno energia fossile. Persino la Cina, che è uno dei grandi produttori di gas serra del pianeta, ha però sviluppato una produzione quasi monopolistica di batterie elettriche per la mobilità. L’importante è che l’Europa acceleri il suo passo di innovazione. C’è una prova di tutto questo. Sui mercati finanziari i fondi che investono su titoli ecosostenibili hanno mediamente un rendimento più alto dei titoli ordinari. Questo non indica una moda ma una direzione precisa dei mercati.
AO: Poi c’è la sfida globale di tipo ancor più ampio: come tenere assieme, come far cooperare con impegni costosi e prolungati, Paesi ed economie che si trovano su livelli molto diversi di sviluppo e di benessere. Insomma, come si può rispondere alla drammatica domanda: e se il mondo non occidentale e non ancora ricco non si potesse (o non si volesse) permettere le politiche contro il climate change?
GG: E questo è il punto centrale dell’analisi che io faccio in questo libro, che è un racconto, ma è soprattutto una inchiesta su fatti di cronaca realmente accaduti. Secondo me esiste una sorta di “lotta di classe” che si gioca sul futuro industriale del pianeta. Da una parte ci siamo noi, il nostro “primo mondo” occidentale, ormai maturo da un punto di vista industriale ed energetico. Dall’altra ci sono le economie in espansione (India, Cina, alcuni paesi africani) che nel dibattito si pongono la domanda: “E perché dovremmo fermarci se voi avete inquinato liberamente per 150 anni? Perché noi dovremmo pagare per i vostri peccati?” A questa domanda ci sono mille risposte razionali che noi, da questa parte possiamo dare. Per esempio: è tutto il pianeta che muta. E i primi paesi a pagare saranno quelli asiatici ed africani tra riscaldamento e inondazioni. Ma la nostra coscienza ambientale è diversa. Costruita nei decenni. Nutrita di buoni propositi e di alta qualità della vita. In altri paesi è diverso.
C’è una lettera, che io riporto fedelmente nel libro. E’ la lettera di Mister FOIA, da “Freedom of information act”, l’hacker di questa storia. E’ l’uomo che si è impossessato delle e-mail dei climatologi e ne ha estrapolato alcune frasi compromettenti che poi, date in pasto all’opinione pubblica, hanno fatto crescere il Climate Gate, lo scandalo del clima che ha, tra le altre cose, affossato la conferenza COP di Copenhagen del 2009.
Nella lettera l’hacker scrive:
“Non c’è nessun complotto dietro a questa operazione, non ci sono i soldi dei petrolieri. Non ci sono pirati ragazzini pagati dei servizi. Non ci sono partiti conservatori, non sono stati i repubblicani americani.
Non mi frega nulla di loro. Sapete cosa mi interessa? Mi interessa fermare tutto questo circo finché sono in tempo.
Mi interessa fermare miliardi di investimenti. Mi interessa che la capacità dell’uomo non prenda strade sbagliate.
Che la scienza del clima non ci faccia buttare i soldi, quanti nessuno ne ha mai visti, per fermare il progresso.
Tanto non sarete voi a pagare. Nossignori. Saranno i paesi più poveri. Non preoccupatevi. Se l’economia si deteriora, per voi sarà solo un piccolo inconveniente verde, nulla di più. Che vi farà sentire giusti. Magari con qualche sovvenzione in più, non ve ne accorgerete nemmeno. Per gli altri, quelli che non vivono nel vostro magnifico mondo occidentale, saranno ancora violenza, fame, malattie. Non avranno il lusso di sentirsi in pace con la loro coscienza ambientalista. La protezione climatica, con i suoi effetti collaterali, rovinerà miliardi di persone per decenni e generazioni. Io sono il cattivo di questa storia. O invece sono il vero eroe.”
Ecco, quando riusciremo a vincere le ritrosie degli altri, di quelli che non ci stanno, che negano il cambiamento climatico, quando riusciremo a rendere immediata la scienza, a far vedere le opportunità dietro a una economia più sostenibile anche agli altri mondi, fuori dal nostro, allora avremo vinto la partita. Vale la pena continuare a provarci perché è davvero la partita della vita.