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La guerra in Ucraina e la politica estera della UE: evoluzione senza rivoluzione

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Già prima della mattina fatidica del 24 febbraio 2022, l’Unione Europea aveva adottato sanzioni contro la Russia in risposta al riconoscimento da parte di questa delle due repubbliche separatiste del Donbass, quella di Lugansk e quella di Donetsk. Facendo un bilancio ad un anno dall’invasione, possiamo considerare quelle sanzioni come l’inizio di una politica estera sicuramente innovativa dal punto di vista della policy, ma non rivoluzionaria dal punto di vista giuridico-istituzionale, come ho spiegato in maggiore dettaglio nel mio ultimo libro.

La presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen e il presidente ucraino Volodymyr Zelensky

 

Meno di 24 ore dopo l’invasione di Mosca dell’Ucraina, l’Unione già delineava le linee direttrici della sua politica estera: assistenza all’Ucraina e sanzioni contro la Russia (e la Bielorussia). L’assistenza all’Ucraina si è svolta, e continua a svolgersi, attraverso aiuti finanziari, sia diretti che indiretti (per esempio, fondi dati agli Stati Membri per permettere il trasferimento di armi all’Ucraina) o umanitari. Le sanzioni contro la Russia (e la Bielorussia), che probabilmente erano state preparate, almeno in parte, già prima del 2022, colpiscono molti settori dell’economia del Paese, non solo con l’obiettivo diretto di asfissiare i settori dell’economia russa che sostengono gli sforzi bellici, ma anche con quello, strumentale al precedente, di colpire la popolazione civile.

La reazione dell’Unione Europea è stata immediatamente forte e unita, almeno in un primo momento – cioè fino a quando, ad aprile 2022, Victor Orban, forte di un nuovo mandato in Ungheria, ha cominciato ad ostacolare il perseguimento di una politica energetica unitaria. Ma la coesione nella risposta non è stata limitata agli europei, del resto: la reazione dell’UE e di molti Paesi vicini è stata inequivocabilmente coerente con la posizione degli Stati Uniti, e anzi molto probabilmente influenzata in misura significativa da questa (e non è inconcepibile che Putin stesso sia rimasto sorpreso da questa coesione del ‘fronte occidentale’): è un dato di fatto che l’UE non ha un esercito proprio e dipende in larga misura, per la propria difesa, dagli USA, e che in ogni caso non c’era questione che uno o più Stati Membri scendessero in guerra contro la Russia direttamente, le politiche di Bruxelles dovevano essere allineante a quelle di Washington.

Non credo, però, che vi sia alcunché di sorprendente né nell’unità né nell’intensità di questa politica estera dell’UE. L’invasione del febbraio 2022 chiama in questione i capisaldi del sistema di sicurezza non solo del dopo-guerra fredda, ma forse addirittura del post-1945. L’invasione ha come obiettivo la coercizione dell’Ucraina in una sfera di influenza russa, calpestando il principio di auto-determinazione. L’acquisizione di nuovi territorî e la modifica delle frontiere tramite conquista militare, per non parlare della minaccia nucleare, hanno riportato l’Europa alle ore più buie del XX secolo. E data la promessa di pace su cui si fonda l’UE come progetto politico, è difficile evitare la sensazione che la guerra contro l’Ucraina sia una guerra che Putin ha dichiarato all’”Occidente”. Insomma, l’equilibrio geopolitico del post-guerra fredda è stato schiacciato dai carri armati russi il 24 febbraio di un anno fa.

 

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È anche opportuno chiedersi se la reazione ad un evento così epocale abbia comportato dei cambiamenti a livello istituzionale e costituzionale dell’Unione Europea, cioè di un’organizzazione i cui processi decisionali, farraginosi e pieni di bizantinismi, sono spesso invocati come causa di una politica estera inefficace. La reazione dell’Unione Europea è stata sicuramente significativa in termini di policy, ma non ha stravolto la situazione intraeuropea preesistente (al contrario di quanto suggeriva una certa retorica istituzionale della prima ora). Gli attori, i processi, e gli strumenti sono stati ‘i soliti noti’.

Per quanto riguarda gli strumenti, cioè le sanzioni, l’assistenza finanziaria, e gli aiuti umanitari, l’Unione ha mostrato una coesione forse mai vista prima, ma pur sempre ancorata alle strutture costituzionali del Trattato di Lisbona. A differenza di quello che era successo in reazione ad altre crisi, gli Stati Membri non hanno perseguito modifiche (esplicite o implicite) dei trattati, né sono state necessarie particolari acrobazie interpretative per far dire ai trattati quello che non dicono. In passato non era sempre stato così: il Next Generation EU, adottato nel 2020 per far fronte all’emergenza del Covid, prevedeva anche la decisione sulle ‘risorse proprie’. Questa decisione, che ha permesso alla Commissione di acquisire risorse proprie (cioè, comportandosi come uno Stato, e non come un agente degli Stati-membri) per la prima volta nella storia, è stata considerata (a mio avviso a ragione) una svolta cruciale nell’evoluzione costituzionale dell’UE. Un altro esempio è il Meccanismo Europeo di Stabilità (MES): concepito come trattato internazionale, cioè, non uno strumento dell’UE, la sua adozione nel 2012 da parte dei membri dell’Eurozona ha nondimeno richiesto una modifica dei trattati dell’UE.

Per quanto riguarda gli attori, gli Stati membri hanno preso decisioni tramite l’Unione Europea, e in particolare tramite Consiglio e Commissione, che hanno agito sulla scorta di quanto stabilito a livello politico dai capi di Stato e di governo nel Consiglio Europeo. Questa è, ovviamente, una tendenza generale, e ci sono stati anche casi di azioni ‘isolate’: la Polonia aveva in un primo momento indicato di voler fornire aerei militari all’Ucraina in maniera unilaterale, salvo poi cambiare idea; la Lituania ha riferito la situazione in Ucraina alla Corte Penale Internazionale a inizio Marzo 2022 – e gli altri Stati membri hanno seguito poco dopo.

 

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Non sono comunque state create nuove istituzioni, o agenzie (la Comunità Politica Europea, CPE è forse l’unica, significativa, eccezione, di cui dirò a breve). In passato, invece gli Stati membri non hanno esitato a ri-organizzarsi al di fuori dell’UE. La governance dell’Eurozona, per esempio, si è svolta anche, come ricordato a proposito del MES, attraverso attività svolte in parallelo ai trattati, e con conseguenti grandi dubbi sulla legalità di tali azioni dal punto di vista del diritto UE. Il MES, per esempio, ha stabilito un’istituzione internazionale basata in Lussemburgo tramite un trattato fra alcuni Stati Membri (quelli dell’Eurozona), ma al cui funzionamento partecipano anche istituzioni dell’UE (la Commissione e la Banca Centrale). Lo stesso sarebbe potuto succedere per la guerra in Ucraina: gli Stati Membri avrebbero potuto usare la European Intervention Initiative (EI2), un accordo multilaterale di origine francese che offre una piattaforma per la cooperazione e il coordinamento di una cultura strategica in Europa. La differenza fra l’EI2 e la Comunità Politica Europea sta anche nella membership: la CPE è aperta ai Paesi del vicinato (fra cui l’Ucraina) – anzi è pensata apposta per loro. È, insomma inclusiva e futura, mentre l’EI2 è esclusiva e già esistente.

Insomma, l’UE, anzi più precisamente gli Stati Membri tramite essa, ha reagito nel modo che gli estensori del Trattato di Lisbona del 2009 le avevano predisposto: l’ordine costituzionale dell’UE ha resistito all’impatto. Questa breve analisi giuridico-istituzionale non deve tuttavia oscurare il fatto che la guerra in Ucraina è un vero spartiacque nel mondo post-1989, come manifestato anche dalla reazione provocata nell’Unione Europea: unità inequivocabile e, per certi versi, senza precedenti nella condanna dell’aggressore.