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Come la guerra di Gaza cambia israeliani e palestinesi

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Sotto shock, disillusi, riportati indietro alla dura memoria di un tempo. Così hanno descritto il loro stato d’animo gli israeliani incontrati all’indomani del massacro di Hamas nel sud del Paese, un evento che ha sconvolto non solo l’apparato militare e l’intelligence, ma anche il complesso organismo – la società di Israele – che per mesi aveva già dato prova della sua vitalità, durante le manifestazioni contro e a favore della riforma della giustizia del premier Benjamin Netanyahu.

Anche se critiche nei confronti dei dirigenti del Paese  sono addirittura aumentate (Netanyahu è assediato fin nella sua odierna residenza dai contestatori), dopo il 7 ottobre la società civile si è compattata per difendere il territorio e intervenire al posto di un governo che, secondo molti, non è all’altezza della gravità del momento. Gruppi come Achim LeNescek (Fratelli in armi) – riservisti che in segno di protesta avevano rifiutato di partecipare agli esercizi militari – sono stati tra i primi a mobilitarsi, allestendo un grande centro di raccolta di aiuti per sfollati e militari al fronte e collaborando alla ricerca e all’individuazione dei dispersi, portata avanti – anche con il ricorso all’intelligenza artificiale – nell’apposita unità allestita a Tel Aviv.

Tra i cittadini è diffuso il senso di smarrimento, ma anche di tradimento. E’ stata palpabile l’incredulità nel constatare che l’esercito israeliano, pur possedendo armi e sistemi informatici tra i più avanzati al mondo non è riuscito a individuare la minaccia terroristica che stava prendendo corpo a due passi dal proprio confine, da quella striscia di terra da dove quotidianamente arrivavano lavoratori di Gaza in servizio nei kibbutz.

Soldati israeliani della “Brigata Golan” in posa nel parlamento di Gaza, prima di farlo saltare.

 

Un’arena pubblica plurale

La crisi generata da questa nuova fase del conflitto mostra quanto sia ampio lo spettro politico israeliano. A destra si registra una corsa alla reazione armata: ci sono i coloni che all’interno dei Territori Occupati Palestinesi aumentano le loro già numerose riserve d’armi, su invito del ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir, che ha facilitato l’ottenimento del porto d’armi, distribuendole personalmente ai civili. E molti haredim, gli ultraortodossi esonerati dal servizio di leva, ora vogliono arruolarsi. Sulle reti sociali circolano inoltre le immagini di post-it scritti a penna da simpatizzanti di estrema destra: la loro idea sarebbe quella di attaccarli sui missili diretti a Gaza.

 

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Nell’ala sinistra della politica israeliana – le cui posizioni sono sempre più marginalizzate dai recenti sviluppi – ci sono cittadini che continuano a fare da scudi umani per difendere i palestinesi dagli attacchi dei coloni durante la raccolta delle olive e anche intellettuali e attivisti che chiedono al governo di interrompere il circolo della violenza vendicativa. Tra loro si trovano anche alcuni familiari delle vittime dei terroristi. E’ il caso di Nadav Kipnis, il figlio della coppia di italiani sequestrati e uccisi da Hamas. Al funerale dei genitori ha chiesto esplicitamente di non scrivere il nome dei suoi cari sui missili sparati verso Gaza.

C’è poi la campagna lanciata dai familiari degli ostaggi, ad oggi il blocco più organizzato della società civile israeliana. Anche qui si delineano posizioni differenti. C’è chi sta facendo il possibile per contenere l’operazione di terra sulla Striscia, sperando nelle trattative per il rilascio di chi è stato fatto prigioniero da Hamas. Per chi si trova in questo stato d’attesa, un accordo di scambio che rimetterebbe in libertà migliaia di palestinesi dietro le sbarre non è necessariamente un prezzo troppo alto da pagare. C’è anche chi però pensa che l’unico modo per riportare a casa gli ostaggi sia una missione di salvataggio guidata dall’intelligence, e non l’occupazione militare della Striscia.

 

Il nodo degli arabi israeliani

Altro tassello del mosaico dello stato di Israele sono gli arabi israeliani, che compongono, come pochi sanno, il 20% della popolazione di Israele. All’indomani del massacro di Hamas, chi appartiene a questa comunità ha raccontato di vivere una crisi di identità, elaborando quello che in molti hanno descritto come un doppio lutto, difficile da consumare: la morte di concittadini israeliani, compresi i beduini del Negev uccisi da Hamas, e quella degli abitanti della Striscia o della Cisgiordania, dove non pochi di loro hanno parenti o amici.

 

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Gli arabi israeliani devono ora fare i conti con la crescente intolleranza che si sta diffondendo nei loro confronti. Nel dormitorio dell’Università di Netanya, un gruppo di studenti arabi è stato aggredito verbalmente da residenti ebrei che gridavano “morte agli arabi” dopo la diffusione di voci (false) secondo cui questi avrebbero sventolato bandiere palestinesi.

Ancora più tesa la situazione a Gerusalemme, dove alla quasi totalità dei palestinesi lì residenti mancano i diritti e le protezioni derivanti dall’essere cittadini israeliani. I ponti sociali e commerciali costruiti con fatica tra la parte est (araba) e la parte ovest (ebraica) sembrano essere crollati tutto d’un colpo. Nei quartieri ebraici, gli abitanti hanno iniziato a uscire armati, anche per le piccole incombenze quotidiane come la spesa, organizzando ronde di quartiere. Nella parte est invece, buona parte dei conducenti di autobus non si è presentata a lavorare, temendo di finire vittima di aggressioni che si stavano organizzando anche su gruppi WhatsApp. Lo riporta il quotidiano israeliano Haaretz, citando la National Labor Federation, secondo la quale a restare  a casa sono stati il 40% dei conducenti nel cosiddetto triangolo delle comunità arabe nel nord est di Tel Aviv e nella regione della Galilea.

A crescere, anche il sentimento anti-israeliano e antisemita degli arabi, soprattutto online. Solo nelle prime due settimane di questa nuova fase del conflitto sono stati denunciati – la fonte è la procura statale israeliana – oltre 250 casi di “linguaggio di odio”. Il timore dello scoppio della rabbia araba nel cuore di Gerusalemme – dove in effetti, come in Cisgiordania, sono sempre più intensi gli scontri tra arabi e polizia israeliana – ha spinto Israele a impedire, ai minori di 65 anni, la preghiera comunitaria del venerdì alla moschea di Al-Aqsa: il terzo luogo sacro per l’Islam, che una parte della politica israeliana vorrebbe demolire per costruirvi il Tempio ebraico, è un classico teatro di scontri e un nodo centrale di questa nuova fiammata di violenza.

 

Lo spettro politico palestinese

La Cisgiordania e la Striscia di Gaza sono terre palestinesi divise non solo da un punto di vista geografico, ma anche politico: visto che da una quindicina d’anni la prima continua ad essere governata dall’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), mentre la seconda da Hamas. Le manifestazioni tenutesi in Cisgiordania – e convocate soprattutto da Hamas – hanno confermato che la contestazione si indirizza non solo nei confronti delle “forze di occupazione” israeliane, ma anche verso Mahmoud Abbas. Il presidente dell’ANP è un leader anziano (ha 88 anni), accusato di corruzione e di collaborazionismo con Israele ed estremamente impopolare. Il suo mandato non si rinnova dal 2006.

La rabbia palestinese si è vista soprattutto nei centri urbani della Cisgiordania: Ramallah, Nablus, Tulkarem, Jenin, località dove da mesi la tensione era alle stelle per le continue operazioni israeliane e per gli abusi impuniti dei coloni. Nelle manifestazioni, numerose le bandiere dei movimenti della galassia dell’Islam politico, anche quelle di Hamas. La crescente presa di queste forze era in parte già stata anticipato dalle elezioni amministrative del 2021 (dove comunque né forze secolari né islamisti hanno incassato la maggioranza assoluta) e dalle più recenti votazioni interne alle università palestinesi.

 

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La scorsa primavera, per la prima volta in 10 anni, nell’ateneo con il più alto numero di iscritti della Cisgiordania, quello di Al-Najah a Nablus, Hamas ha vinto le elezioni del consiglio studentesco, una vittoria che si aggiunge a quella già conseguita dal Blocco islamico all’Università Birzeit, fucina dell’élite palestinese e un tempo baluardo di Fatah (il partito di Abbas) e delle organizzazioni laiche.

 

Le incognite del quadro regionale

Determinante per il difficile futuro politico palestinese, il ruolo dei tanti “padrini” dietro le quinte: Iran, Hezbollah, Arabia Saudita, Qatar, Turchia, Egitto e Siria. Negli ultimi decenni la questione palestinese ha perso centralità nella politica del mondo arabo, come provato dagli Accordi di Abramo, con cui Bahrein, Emirati, Marocco e Sudan inauguravano collaborazioni ufficiali con Israele. In questo momento però intervenire nella guerra tra Israele e Hamas diviene appetibile per le classi dirigenti dei Paesi arabi e mediorientali, in cerca quantomeno di consenso interno. Lo prova quanto fatto dagli Houthi – l’etnia yemenita sostenuta dall’Iran – che hanno lanciato missili su Israele, probabilmente pensando anche alla propria guerra contro l’Arabia Saudita. La milizia libanese Hezbollah – espressione della posizione iraniana – invece si è limitata a scontri di piccola scala con Israele, senza scendere apertamente nel conflitto come invece temuto da molti.

Importantissimo il ruolo del Qatar, dove vive un esilio dorato il leader di Hamas Khaled Meshal, arrivatoci una volta lasciata la Siria. Doha è appunto il centro nevralgico dei negoziati per il rilascio degli ostaggi: per anni il Qatar ha stanziato, in coordinamento con Israele, aiuti economici per Gaza, che potrebbe più avanti rivedere.

Cruciale anche la posizione della Turchia: Erdogan è uno dei leader politici più amati dai palestinesi. Anche nella recente telefonata con la premier italiana Meloni, il presidente turco ha chiesto al governo di Roma di sostenere l’opzione di un cessate il fuoco. Prima del 7 ottobre i rapporti tra Turchia e Israele erano in gran ripresa, ma ora le cose sono cambiate: per Erdogan Hamas non è una organizzazione terroristica, ma un movimento di resistenza.