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La Germania che va verso destra

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Le elezioni tedesche ci dicono due cose: l’armonia interna del paese è più fragile di quanto si pensasse, e la Germania tende verso destra. Confermando comunque per la quarta volta Angela Merkel alla Cancelleria, i tedeschi sembrano aver voluto guadagnare tempo, per trovare una posizione sicura da cui, inevitabilmente, dovranno fare i conti con un mondo che cambia sempre di più. Per gestire con attenzione mutazioni e metamorfosi, Merkel continua a loro avviso ad essere la leader migliore.

Le elezioni del 24 settembre hanno comunque mostrato crepe profonde nel tradizionale equilibrio politico. La Große Koalition uscente CDU-SPD è stata bocciata. La CDU-CSU si è ritrovata con il 33% dei voti, ben 8,5 punti in meno rispetto al 2013: un risultato molto al di sotto delle aspettative. La SPD ha avuto il peggiore risultato dal dopoguerra, con il 20,5% dei voti. La destra populista di Alternative für Deutschland si è invece affermata come terzo partito con il 12,6%. Sono rinati anche i liberali di FDP, che con il 10,7% delle preferenze si sono riconquistati un ruolo di primo piano nella politica tedesca. Nel 2009 la FDP, allora guidata da Guido Westerwelle, era prepotentemente entrata nel Governo Merkel II con il 14,6% dei voti, ma dopo quattro anni nell’esecutivo, nel 2013, il partito era stato severamente punito dagli elettori, finendo sotto la soglia del 5% per la prima volta nella sua storia.

Da un punto di vista demografico, a tradire la CDU (e anche la SPD) sono stati soprattutto i giovani tra i 18 e i 29 anni, mentre a salvarla sono stati gli over 60, in particolare le donne. Per gli altri partiti le differenze di età sono state meno rilevanti. Le differenze di genere sono invece significative per AfD, fortemente spinta da un elettorato maschile. I populisti hanno anche beneficiato di un buon successo tra i lavorator manuali, con una percentuale quasi a pari merito con quella dei socialdemocratici, e tra i disoccupati.

C’è poi da considerare l’enorme scissione elettorale tra est e ovest della Germania. Il voto per partiti come la Linke (la formazione di sinistra “tradizionale” che aveva raccolto circa l’8% nella passata legislatura) e AfD è incredibilmente legato agli stati federali dell’ex DDR, dove la sinistra socialista ha raccolto oltre il 16% (contro il 9,2% su scala nazionale) e la destra populista è addirittura il secondo partito, con il 21,5% delle preferenze, a soli 5 punti dalla CDU di Merkel. In Sassonia (uno tra i Länder meno ricchi), AfD è diventata il primo partito. I Verdi hanno invece raccolto l’8,9% su scala nazionale, confermando il proprio radicamento tra gli elettori più giovani e tra quelli con un titolo di studio più alto. Geograficamente, Die Grünen hanno potuto contare su un voto piuttosto uniforme, ma hanno trovato soprattutto sostegno nella Germania sud-occidentale e di alcune città tedesche, inclusa la capitale Berlino.

La prossima coalizione e la stabilità sociale

Appena appreso del disastro elettorale, la SPD ha dichiarato che il suo posto sarà fuori dal governo. L’obiettivo del principale avversario sconfitto dalla Markel, Martin Schulz, è chiaro: non permettere ad AfD di diventare la maggiore forza di opposizione. Se questa posizione verrà mantenuta, Merkel potrà solo costruire un’alleanza “Jamaika” (nero-giallo-verde) con i liberali FDP e i Verdi.

All’interno del prossimo esecutivo, la stessa CDU sarebbe la forza più “sociale”. Da sinistra, sarebbe sostenuta dall’impostazione dei Grünen: i Verdi sono un partito d’opinione ambientalista ma poco radicato nel mondo sindacale e delle parti sociali. L’FDP, invece, si presenta forte del credito di cui gode presso il gotha economico tedesco. L’agenda dei liberali dell’astro nascente Christian Lindner prevede l’alleggerimento fiscale, tagli allo stato sociale e una maggiore flessibilità nel mondo del lavoro. Un’impostazione più che sostenibile per un’economia in crescita come quella tedesca, a patto che, appunto, la crescita continui, creando sempre nuova occupazione e poggiando sul contestato surplus commerciale delle esportazioni sulle importazioni. Anche sulle questioni europee i liberali hanno posizioni specifiche, che ad esempio preoccupano molto un partner cruciale di Merkel come il Presidente francese Macron. I liberali punteranno probabilmente alla conquista del Ministero delle finanze tedesco e da qui potrebbero mettere tutti i loro paletti: no al bilancio comune europeo, niente debito in qualche modo condiviso e poteri limitati per un eventuale Ministro delle finanze europeo. Si tratta di un’impostazione che troverebbe molto sostegno all’interno della CSU bavarese (il “partito fratello” della CDE) e, soprattutto, in ampi settori della Bundesbank, che è sempre più ansiosa di invertire la rotta segnata da Mario Draghi alla BCE.

In caso di scontri finanziari sui mercati internazionali o di turbolenze nell’area euro ci sarebbero ripercussioni sociali interne e un governo CDU-FDP-Verdi si ritroverebbe con una forte opposizione di sinistra (e, anche, della destra populista). Una situazione in cui potrebbero emergere le differenze interne alla “Jamaika” portando l’alleanza in cattive acque, ad esempio entrando in un circolo vizioso in cui si provi a esternalizzare le difficoltà interne rincorrendo ancora di più quel surplus commerciale che è alla base dell’insoddisfazione di tanti partner internazionali. In quel caso, un esecutivo di centro-sinistra CDU-SPD avrebbe invece un contatto diretto con il mondo sindacale, almeno quello tradizionale e più consolidato: uno scenario non trascurabile in un paese in cui il conflitto tra le parti sociali è visto come una ferita e il consenso è un metodo di governo consolidato.

Non solo: le differenze in una coalizione nero-verde-gialla potranno emergere anche senza troppi problemi economici, ad esempio quando si discuterà su come spingere il percorso di digitalizzazione del paese o quando si dovrà decidere cosa fare con l’industria dell’auto.

In un possibile scenario di difficoltà del prossimo governo Merkel, sarà anche rilevante la questione dei due estremi politici anti-establishment. Un’alleanza con l’SPD avrebbe permesso alla CDU di contenere la spinta critica della Linke, con cui SPD mantiene un contatto conflittuale ma diretto. L’alleanza con FDP significa, invece e soprattutto, arginare l’opposizione di Alternative für Deutschland. Mentre, restando insieme all’opposizione, la Linke e la SPD sarebbero più libere di costruire un fronte comune – capace forse di fare pressione sui Verdi e quindi sullo stesso esecutivo.

AfD, immigrazione e identità nazionale

Negli ultimi mesi molti media tedeschi hanno indugiato nel wishful thinking di un declino di Alternative für Deutschland. Alcuni cristiano-democratici hanno addirittura parlato dell’obiettivo di spingere AfD al di sotto del 5%, una percentuale che avrebbe tenuto i populisti fuori dal Bundestag. Ora, invece, è diventato chiaro che lo spazio in cui AfD si è inserita è minoritario, ma profondo e radicato. AfD, del resto, ha sottratto più di 1 milione di voti alla stessa CDU e portato alle urne 1,5 milioni di tedeschi che nel 2013 avevano scelto di astenersi. L’affluenza alle urne è cresciuta rispetto al 2013 dal 71,5 al 76,2%, con quasi tre milioni di votanti in più.

Se si considera la vecchia profezia di uno dei padri nobili dei cristiano-democratici, Franz-Josef Strauss, i guai in Germania cominciano quando arriva “un partito alla destra della CDU/CSU”. Adesso, è successo. Può suonare come una provocazione, ma sul piano simbolico il quasi 13% di AfD in Germania vale quanto un 25% populista in un altro paese.

Alternative für Deutschland non ha pagato la recente crisi interna, quando l’ala più radicale ha bloccato il tentativo di svolta liberale della leader in uscita Frauke Petry, che subito dopo le elezioni di domenica ha peraltro confermato la lacerazione interna rifiutandosi di entrare nel gruppo parlamentare del suo stesso partito. AfD si è comunque presentata con una doppia candidatura al Cancellierato: oltra alla trentottenne Alice Weiland, anche il controverso Alexander Gauland, che a pochi giorni dal voto ha rivendicato il diritto ad essere orgogliosi dei soldati tedeschi della Seconda Guerra mondiale.

Da un punto di vista del radicamento sul territorio, da tempo c’è chi prova a sostenere che non ci sia alcun legame tra voto populista e disagio socio-economico. Ma il legame esiste: è sufficiente guardare i risultati nell’ex DDR, nelle periferie tedesche, nei centri meno abitati, nelle aree più depresse. Ovviamente non è tutto qui, perché il voto per AfD è trasversale, arriva anche dal ceto medio e da quello alto. Ma questo scenario eterogeneo non facilita certo le cose per i partiti tradizionali, anzi, le complica ulteriormente. La trasversalità del successo di AfD dimostra l’emergere di una questione culturale difficile da neutralizzare con un semplice aumento di attenzione sugli strati sociali più deboli. Alternative für Deutschland scava e attinge anche in una problematica più profonda, finora considerata quasi oscena, intrappolata nel vaso di Pandora dell’identità nazionale tedesca.

L’accelerazione nei consensi di AfD era iniziata in risposta alla cosiddetta crisi dei migranti del 2015-2016, con un momento di svolta nel gennaio 2016, dopo le molestie sessuali di massa del Capodanno di Colonia. In seguito, però, Merkel, pur non rinnegando mai i principi etici della sua Willkommenspolitik, che ha portato in Germania circa un milione e mezzo di rifugiati, ha sostanzialmente promesso che una crisi dell’immigrazione come quella dell’estate 2015 non si sarebbe mai ripetuta. In pratica, la soluzione della Cancelliera è stata il blocco della via balcanica dei migranti tramite gli accordi con il governo turco di Recep Tayyip Erdoğan. Proprio la diminuzione dell’afflusso di rifugiati e il grande sforzo del welfare tedesco di integrare i nuovi arrivati avevano fatto credere a molti che l’ondata populista potesse scemare. Non è andata così.

Poche settimane fa “Der Spiegel” ha pubblicato i risultati di una ricerca sociologica basata su lunghe interviste fatte a cittadini tedeschi da parte del team di psicologi del Prof. Stephan Grünewald. Il ricercatore ha sottolineato un risultato in particolare: “Nelle interviste più approfondite, tutto quello di cui la gente volesse parlare era la crisi dei rifugiati, la crisi dei rifugiati, la crisi dei rifugiati”. Lo studio conferma l’enorme impatto, non solo pratico ma anche simbolico, della questione immigrazione in Germania. La verità è che l’arrivo dei nuovi immigrati dell’ultimo biennio si è sovrapposto al problema già complesso della volontà tedesca di accettare realmente una società multiculturale, al di là dei buoni propositi da prima della classe dell’ordine liberale (che rimangono ancora maggioritari).

Multiculturalismo e Leitkultur

Il multiculturalismo necessita un’apertura alle differenze, un’accettazione di forme di frammentazione sociale, ma in Germania l’idea di una società diversificata non trova sempre fondamenta su cui poggiare con facilità. Sono tanti i tedeschi che credono nel bisogno di una comunità riunita da un’autorappresentazione compatta, definita, ben riconoscibile, in cui l’alterità è destinata a essere assimilata o respinta. Da tempo questo bisogno è sotterrato dall’impegno istituzionale in nome dei principi di tolleranza, ma le difficoltà oggettive dello stesso concetto di tolleranza sembrano in grado di far riemergere questo paradigma mai scomparso. Si tratta di una tendenza che per decenni si è rafforzata a est tramite il social-patriottismo dell’ex DDR, ma che è per certi versi insita nella stessa lingua e nelle strutture culturali della Heimat tedesca intesa complessivamente. Una realtà a cui contribuisce la geografia: il territorio tedesco possiede una barriera orografica solo a sud, ma è aperto e vulnerabile su tutti gli altri fronti. Ciò significa che in Germania, per tradizione, non è la terra ma il popolo a fare la nazione. Questa ricerca di un’unità comunitaria può essere a volte addirittura inconsapevole, ma sfocia ad esempio nel ciclico riemergere del dibattito sulla cosiddetta Leitkultur, un termine che può essere tradotto come “cultura guida” del popolo tedesco.

Nello scorso maggio, il dibattito su questo tema è stato rilanciato nientemeno che dal Ministro degli Interni, il cristiano-democratico Thomas de Maizière. Questi ha proposto dieci punti per una “nuova Leitkultur”, ponendo enfasi su uno in particolare: “Wir sind nicht Burka” (“Noi non siamo burqa”). Si è trattato di uno dei più chiari tentativi di riappropriazione da parte della CDU dei temi politici di AfD, e non è da escludere che iniziative di questo genere abbiano arginato una maggiore perdita di voti cristiano-democratici in favore dei populisti.

Per chi si oppone o è diffidente verso l’immigrazione, quello dell’integrazione delle molteplici forme delle culture islamiche in Germania è ovviamente uno dei punti  irrinunciabili . Molto importante è notare che, per certi versi, proprio questo tema ha legittimato AfD ben oltre il proprio elettorato. Secondo un’indagine Infratest dimapriportata dal telegiornale pubblico di Ard, il 37% dei tedeschi ritiene comunque “positivo che AfD voglia limitare l’influenza dell’Islam in Germania” e il 35% trova “positivo che AfD voglia fermare di più l’immigrazione”. Poi, però, l’86% degli stessi tedeschi afferma che AfD “non si distanzia sufficientemente dalle posizioni di estrema destra”. In questi tre dati c’è tutta l’ambiguità e la solidità del successo di Alternative für Deutschland, che ha sfruttato i problemi oggettivi dell’integrazione e l’etnicizzazione dell’insoddisfazione sociale per arrivare fin dentro al Bundestag.

La domanda, ora, è quali temi di AfD saranno assorbiti da CDU-CSU e FDP e quali, invece, saranno lasciati fuori con consapevole intransigenza. La vera forza dei populisti, infatti, sarà la loro capacità di condizionare l’agenda degli altri partiti, soprattutto se questi avranno l’impressione di poter perdere altri elettori verso l’estrema destra.

Quella dell’identità nazionale tedesca e dei valori condivisi di chi vive in Germania, ad esempio, è una questione che le formazioni tradizionali non vorranno più lasciare dentro impostazioni apertamente e ufficialmente xenofobe.

Gli attuali mutamenti geopolitici, del resto, stanno imponendo alla Germania una nuova autonomia e una nuova indipendenza sullo scacchiere internazionale. Diventa quasi naturale che i tedeschi si interroghino oggi su quale sia l’identità che li definisce come popolo e nazione. Il problema è che si tratta di un interrogativo a cui possono essere date risposte molto diverse tra loro. Comunque vada, saranno risposte cruciali.