international analysis and commentary

La dottrina che guida la guerra di Mosca

Questo articolo è stato pubblicato sul numero 97 di Aspenia

8,480

Alla base della politica estera e militare russa c’è la “Dottrina Primakov” che si estende a tutto il campo della sicurezza. In questa visione la Russia è chiamata a compensare l’inferiorità che presenta rispetto al suo principale nemico, la NATO, agendo nella zona grigia fra conflitto aperto e pace, con forme di guerra ibrida. La difficoltà a fronteggiare la potenza di fuoco atlantica rende, inoltre, più probabile il ricorso all’uso di armi nucleari tattiche o sub-strategiche.

Evgenij Primakov e Vladimir Putin nel 2000

 

Dall’inizio del XXI secolo, in Russia, la politica estera e quella di sicurezza sono ispirate dalla “Dottrina Primakov”. La prima, fissata dal “Concetto di Politica Estera” la cui ultima edizione è del gennaio 2021, si richiama, insieme alla seconda, a questa dottrina che trae il nome da Evgenij Primakov, già primo ministro e ministro degli Esteri della Federazione Russa. Si tratta di una visione del futuro della Russia, delle sfide e minacce che deve fronteggiare e dei principali obiettivi, interni ed esteri, a cui deve tendere, primi fra i quali un ordine mondiale multipolare e il ritorno di Mosca allo status di grande potenza, con una propria zona d’influenza.

Il mondo globalizzato e unipolare, dominato dagli Stati Uniti, ha posto infatti la Russia in condizioni geopolitiche ed economiche disperate. Mosca ha dovuto puntare sull’alleanza con la Cina e su un congelamento della situazione in Europa, prendendo atto della superiorità della NATO e dell’impossibilità di impedirne l’allargamento a est. Di qui l’Accordo Solana-Primakov del 1997, che mirò a limitare i danni con il NATO-Russia Founding Act, formalizzato nel 2002 a Pratica di Mare. Con questo accordo Mosca cercò di salvare il salvabile, ottenendo l’impegno dell’Alleanza a non schierare nei suoi nuovi membri armi nucleari, forze e basi permanenti, e missili “terra-terra”, in grado di colpire il territorio russo. Si tratta, del resto, di un impegno già preso da Clinton, nel 1993, nella sua risposta telefonica a Eltsin, quando il presidente russo chiese all’omologo americano di aiutarlo a far passare alla Duma l’accordo sulla Partnership for Peace.

 

LA DOTTRINA DELLA “ZONA GRIGIA”. La Dottrina Primakov si estende al campo della sicurezza anche militare. Alla base vi è l’idea che l’inferiorità quantitativa e qualitativa rispetto alla NATO imponga a Mosca di inventare un nuovo modo di fare la guerra. Lo hard power è divenuto troppo costoso, rischioso e incapace di garantire la sicurezza nazionale: va considerato, quindi, un mezzo solo di extrema ratio, a differenza di quanto affermavano i grandi capi militari sovietici, i marescialli Zhukov e Ogarkov. Inoltre, questo va sostenuto dalle altre risorse dello Stato: dalla disinformazione alla propaganda, dall’impiego di forze speciali all’azione di “quinte colonne” e di mercenari, fino alle pressioni economiche. Cessa così la distinzione fra pace e guerra; la Russia deve sfruttare la “zona grigia” sempre più larga esistente fra esse.

L’appeasement giunto fino alla collaborazione con l’Occidente, è scomparso a pochi anni dalla sottoscrizione degli accordi con la NATO, in particolare con il discorso di Putin alla Werkunde del 2007, in cui il presidente accusò gli occidentali di aver tradito la Russia. Taluni attribuiscono il mutamento di atteggiamento agli allargamenti dell’Alleanza atlantica del 1998 e del 2004. Non lo credo, visto che a Mosca li avevano già dati per scontati.

Quello che è certo è che il mutamento si è via via trasformato in un nazionalismo sempre più aggressivo e rancoroso, con toni addirittura mistici sulla missione della “Madre Russia”, a causa delle “rivoluzioni colorate” in Georgia, Ucraina e Kirghizistan, attribuite a complotti occidentali contro il regime di Mosca. L’aggressione all’Ucraina, pur ampiamente prevedibile (nel 2016 la CIA aveva sostenuto che sarebbe avvenuta entro cinque anni), rientra nel progetto di creare attorno alla Russia una fascia-cuscinetto non tanto strategica quanto culturale. Un progetto che era sul punto di crollare per la scelta degli ucraini di far parte dell’Occidente.

 

Leggi anche: La sconfitta del ‘soft power’ russo?

 

LA STRATEGIA DI SICUREZZA, UN MANIFESTO PER LA NUOVA RUSSIA. La più recente versione della “Strategia di Sicurezza della Federazione Russa” è stata approvata da Putin il 2 luglio 2021. Molti degli argomenti che tratta esulano dai settori che in Occidente si considerano connessi con la sicurezza. È un documento per molti versi curioso, un manifesto per la nuova Russia. Consiste in un vero e proprio programma per lo sviluppo, entro il 2035, delle istituzioni, dell’economia, della politica estera, del ruolo e missione della Russia nel secolo che si definisce post-americano. Tratta delle sue immense potenzialità, dei modi con cui trasformarle in realtà, delle sfide da affrontare e delle minacce da fronteggiare all’interno del paese o provenienti dall’estero. In tutto il documento è chiaro il rimpianto per l’antica grandezza imperiale e la volontà di porre rimedio al “maggior disastro geopolitico del xx secolo”: la frammentazione dell’Unione Sovietica.

Ampio spazio è dedicato al miglioramento della società (migliore classe dirigente, repressione del crimine organizzato e della corruzione, riduzione delle diseguaglianze, e così via) e soprattutto alla rigenerazione morale e spirituale del popolo russo. Quest’ultima è considerata premessa per permettere alla “Madre Russia” di assolvere la propria missione storica, quasi mistico-religiosa, nel mondo e di realizzare appieno quella che viene denominata “sovranità culturale”, basata sul rilancio dei valori tradizionali di fronte al “contagio” di quelli occidentali. Non ci si deve quindi meravigliare del frequente uso da parte di Putin di riferimenti religiosi: lo fa anche per sostenere la tesi che la Russia non è europea, ma eurasiatica. Per certi versi sono le tesi “sullo scontro di civiltà” di Samuel Huntington e quelle “euroasiatiste” di Alexander Dugin.

Il documento è caratterizzato da un forte antiamericanismo. Con l’ottimismo geopolitico proprio della tradizione sovietica, considera inevitabili il declino dell’Occidente e la fine dell’egemonia degli Stati Uniti. A questo dovrebbe subentrare un ordine multipolare delle grandi potenze, che avrebbero il diritto-dovere di imporre la loro volontà a quelle più deboli, parte delle loro zone d’influenza. Implicitamente, viene negata ogni validità alla teoria della “fine della storia” di Francis Fukuyama, base della globalizzazione e dei valori universali propri dell’internazionalismo democratico occidentale.

Il documento afferma che la Russia ha pochi alleati. I principali sono la Cina e l’India, ma Mosca è chiamata a cercarne altri in Medio Oriente, Africa e America Latina. A tale fine deve avvalersi di organizzazioni come l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO) e il BRICs, mentre stranamente il documento dà poco rilievo alla Comunità degli Stati indipendenti (CIS) e alle organizzazioni eurasiatiche promosse da Mosca (Eurasian Economic Union e Collective Security Treaty Organization). Tuttavia, a differenza del testo che lo ha preceduto nel 2015, nega la possibilità di cooperazione con l’Occidente, le cui sanzioni per l’annessione della Crimea nel 2014 non sarebbero motivate dal comportamento di Mosca, ma dalla volontà di indebolire il paese e di renderlo vulnerabile alla diffusione dei valori occidentali. La Russia, con le sue risorse naturali e la sua potenza nucleare può difendersi, purché rimanga fedele ai propri valori e salvaguardi la sua “sovranità culturale” dall’assalto a cui questi valori sono sottoposti da parte dell’individualismo, del permissivismo, dell’erosione della famiglia tradizionale e dell’ateismo dell’Occidente.

Con l’insistenza sulla rigenerazione morale della Russia, il documento anticipa le giustificazioni usate da Putin e dal Patriarcato di Mosca per l’aggressione all’Ucraina. Divengono chiari i significati attribuiti alla “de-nazificazione” e alla “liberazione dell’Ucraina dal peccato”. Si tratta di “de-occidentalizzarla” e forse di “de-ucrainizzarla”, perché l’Ucraina è considerata rea di preferire l’Occidente ai legami storici e spirituali con la Russia.

La Strategia di Sicurezza prevede, poi, un ammodernamento tecnologico ed economico, volto a salvaguardare l’indipendenza dell’industria russa e a renderla competitiva sui mercati mondiali. Tale ammodernamento è reso indispensabile anche dal minor affidamento che, nel medio-lungo periodo, la Russia potrà fare sull’esportazione di materie prime energetiche, insidiata dallo sviluppo delle rinnovabili.

Dal documento, che contiene le linee-guida da seguire per il rafforzamento degli aspetti non militari della sicurezza, risulta evidente che il rischio maggiore per la Russia, in relazione all’Ucraina, consista per Putin non tanto nella sua entrata nella nato, ma nel contagio che l’occidentalizzazione del paese comporta per l’identità e la “sovranità culturale e storica” della Grande Russia.

 

Leggi anche: Vladimir il Terribile?

 

LA STRATEGIA MILITARE: FRA CLAUSEWITZ E LA GUERRA IBRIDA. La strategia militare della Federazione Russa è stata approvata dal presidente Putin nell’aprile del 2021, sostituendo quella del 2015. Il documento andrebbe esaminato con le sue appendici, tra cui la “Dottrina Marittima” e la “Dottrina Artica”. In questo articolo esamineremo solo quella relativa alla “Dottrina Nucleare”.

La “Dottrina Militare” mette subito in rilievo, come peraltro fanno quelle di tutti i paesi, che questa è esclusivamente difensiva. Tratta poi argomenti molto più ampi di quelli operativi e tattici. È denominata in Occidente come “Dottrina Gerasimov”, dal nome del capo di Stato maggiore Valerij Gerasimov, o della “guerra ibrida”. Precisa la natura e le cause della guerra, oltre ai vari tipi di guerra, distinguendo fra guerra esterna e interna. La prima può essere locale, regionale, su larga scala e totale; la seconda non viene chiamata guerra, ma “operazione speciale congiunta” (con la Guardia nazionale, che comprende anche le forze del ministero dell’Interno). In Ucraina esse non operano, quindi è stato omesso l’aggettivo “congiunto” e aggiunto quello “militare”, fermo restando che per Putin si tratta di una questione interna della Russia.

Nel documento ampi spazi sono riservati al sostegno economico e tecnologico della sicurezza militare e ai condizionamenti che il declino demografico e la minore disponibilità dell’opinione pubblica ad accettare perdite pongono all’organizzazione delle forze e alla conduzione delle operazioni. Da questi due ultimi fattori deriva l’accentuazione della tradizionale importanza attribuita alla potenza di fuoco dell’artiglieria e dei lanciarazzi, a cui si aggiunge quella dell’appoggio aereo.

Il documento contiene una distinzione fra rischi e minacce. I primi, poco probabili e a medio-lungo termine, vanno considerati nella pianificazione delle forze. Le minacce sono a breve termine e devono dare luogo a misure operative di riduzione delle vulnerabilità delle forze, quali il loro rischieramento, la mobilitazione dei riservisti, le predisposizioni logistiche, e così via. La coscrizione di 12 mesi è mantenuta, ma agli arruolati va data la possibilità – con incentivi finanziari e sociali – di scegliere sin dall’arruolamento una ferma di due anni. Va inoltre aumentato, ad almeno il 50% del totale degli effettivi, il personale professionista e potenziata la Guardia nazionale, che include le forze degli altri ministeri (Interno, Trasporti, ecc.) e dell’fsb, il servizio di sicurezza interno (responsabile anche per le repubbliche ex-sovietiche, come l’Ucraina).

La probabilità di guerre totali, con l’impiego delle forze nucleari strategiche, è considerata diminuita dopo la fine della guerra fredda. Altri tipi di guerra di livello minore sono però più frequenti e imprevedibili. Ciò comporta la capacità di adeguarsi a situazioni del tutto nuove. A differenza dell’Occidente che aumenta la propria capacità di fronteggiare l’imprevisto dando autonomia ai livelli in sottordine e collegandoli in rete, la Russia prevede un’accentuata centralizzazione. Lo si vede in Ucraina. Solo dopo un mese è stato nominato un comandante in capo, ma Putin continua a interferire come si è visto quando ha ordinato di sospendere l’assalto all’Azovstal di Mariupol.

La dottrina prevede una stretta simbiosi fra le forze convenzionali e le armi nucleari tattiche, inesistente nella guerra fredda. La Russia non può sperare di fronteggiare la potenza di fuoco di precisione come quella della NATO, il suo nemico più pericoloso. Quindi, il ricorso all’uso di armi nucleari tattiche o sub-strategiche è considerato più probabile. L’argomento sarà approfondito nel successivo paragrafo.

La Dottrina Militare prevede uno stretto coordinamento fra gli strumenti propriamente militari o “cinetici” del conflitto e quelli non militari, come già previsto da Primakov. L’utilizzo dei secondi consentirebbe a Mosca di compensare la propria inferiorità militare. Essi sono: disinformazione; spionaggio; interferenze nei processi politici ed elettorali; utilizzo di quinte colonne, di sabotatori e di mercenari; attacchi cibernetici; speculazioni economiche ed embarghi di materie prime strategiche; e altri ancora. Secondo Gerasimov, sarebbero strumenti abitualmente già utilizzati dall’Occidente per indebolire la Russia e i regimi a essa favorevoli, come avvenuto nelle “rivoluzioni colorate”. Il generale russo, per indicare le sue teorie, non usa mai il termine “ibrido” che ha avuto fortuna in Occidente, specie dopo che nel 2014 i “piccoli uomini verdi” concorsero all’occupazione della Crimea. Impiega espressioni come “guerra di nuova generazione”; “operazioni nella zona grigia fra pace e guerra” o “guerra non lineare”. In realtà, si tratta di fatti ricorrenti nella storia, sempre presenti in ogni scontro militare. Le nuove tecnologie e la globalizzazione conferiscono, tuttavia, nuove potenzialità.

Per quanto riguarda le operazioni militari, Gerasimov segue l’impostazione clausewitziana propria del tradizionale pensiero strategico russo. Dà particolare rilievo al principio della massa. Attribuisce importanza determinante alle fasi iniziali di un conflitto e alla sua rapida conclusione. Le risorse disponibili non consentono alla Russia di adottare una strategia di logoramento. Deve puntare sin dall’inizio a obiettivi strategici in profondità, che le permettano una rapida vittoria. In caso di prolungamento del conflitto, non avrebbe alternativa al ricorso alle armi nucleari tattiche.

 

LA NUOVA CENTRALITÀ DELLE ARMI NUCLEARI. Le linee-guida da seguire per l’impiego delle armi nucleari tattiche o sub-strategiche sono contenute in un annesso alla Dottrina Militare. Quelle relative alle armi nucleari strategiche e alla dissuasione globale lo sono nel documento del giugno 2020 “Fondamentali della politica russa per la dissuasione nucleare”. Alle armi nucleari viene attribuita un’importanza centrale, maggiore di quella prevista nella guerra fredda. Allora l’Unione Sovietica adottava la “strategia dichiaratoria” del no first use, indicando cioè che non sarebbe stata la prima a far ricorso alle armi nucleari. Non ne aveva bisogno, dato che disponeva di una forte superiorità convenzionale nei confronti della nato (tra le nove potenze nucleare oggi solo la Cina adotta il no first use). Le armi nucleari venivano considerate importanti dai sovietici per la dissuasione strategica, non anche – come lo erano invece nella strategia nato della risposta flessibile – per il sostegno operativo delle sue difese avanzate. Fecero eccezione gli euromissili (ss-20, ecc.), capaci di distruggere con un attacco di sorpresa le forze nato nelle loro basi.

La situazione cambiò radicalmente con il collasso del Patto di Varsavia e dell’Unione Sovietica. Dopo il 1991, l’inferiorità convenzionale indusse la Russia a rivalutare il ruolo delle armi nucleari tattiche. Il loro uso è subordinato all’autorizzazione presidenziale con “tripla chiave” (presidente, ministro della Difesa e capo di Stato maggiore generale). È soggetto a un controllo ben maggiore di quello delle armi strategiche, che, per sopravvivere a un first strike, sono predisposte per meccanismi di risposta quali il “Launch on Warning” e il “Launch under Attack” e impiegate in packages consistenti (30-50 testate).

La dottrina non è del tutto chiara sugli obiettivi da perseguire e le condizioni che giustificano l’uso delle armi nucleari tattiche. Nella dottrina del 2015 se ne prevedeva l’uso in caso di minaccia alla sopravvivenza dello Stato. In quella del 2021, anche a minacce agli interessi vitali della sicurezza, senza precisare di quali si tratti. L’utilizzo delle armi nucleari tattiche va comunque sempre strettamente controllato e limitato per evitare l’escalation. Negli analisti occidentali prevale l’interpretazione che il loro uso vada finalizzato unicamente a ristabilire sul campo rapporti di forza favorevoli alla Russia, per poi tornare a operazioni solo convenzionali. Tale interpretazione è espressa dalla formula “escalate to de-escalate”. Secondo altri, un conflitto, una volta divenuto nucleare, continuerà a esserlo. In tal caso la “formula” dovrebbe essere modificata in “escalate to win”, pur potendo rimanere solo tattico, cioè “antiforze”, senza coinvolgere i deterrenti strategici “antirisorse” (cioè “anticittà”). La possibilità di separare nettamente le armi nucleari tattiche da quelle strategiche è confermata dalla tecnologia della miniaturizzazione e specializzazione delle prime e dal fatto che quelle più moderne minimizzano le ricadute radioattive (non hanno nulla a che vedere con le bombe di Hiroshima e Nagasaki). Tale interpretazione trascura gli effetti psicologici della rottura dopo 75 anni del tabù nucleare che a parer mio sarebbero disastrosi.

Le forze convenzionali rimangono quindi centrali per la dissuasione di una guerra, cioè per la pace. Le spese militari – a differenza di quanto da taluni viene sostenuto, soprattutto in Italia – non sono spese per la guerra, ma spese per la pace.

A parte le 1.550 testate strategiche (di numero pari a quello degli Stati Uniti) limitate dagli accordi New start, la Russia ha operative circa 2.000 testate tattiche, di potenza variabile fra i 0,5 e i 100 kilotoni (migliaia di tonnellate di tritolo). Esse possono essere lanciate da numerosi sistemi d’arma, solitamente dual use, con capacità sia convenzionali sia nucleari: cruise terrestri e aerei, missili balistici, lanciarazzi e artiglierie (da 203mm, con gittata di 55km). Risultano in sperimentazione proiettili nucleari da 152mm, calibro standard dell’artiglieria russa.

A livello strategico, la dissuasione russa, come quella americana, è fondata sulla MAD (Mutual Assured Destruction). L’“equilibrio del terrore” fra gli Stati Uniti e la Russia è regolato dal Trattato New start del 2010, in scadenza all’inizio del 2026. È in corso di adeguamento in complessi negoziati tenuti a Ginevra. Un nuovo accordo incontra difficoltà perché gli Stati Uniti vorrebbero che vi fosse coinvolta anche la Cina, mentre la Russia ne pretende l’estensione alle difese antimissili, alle armi iperveloci e al Prompt Global Strike convenzionale americano. Allo stesso tempo, prosegue da parte sia americana che russa l’ammodernamento degli arsenali nucleari sia tattici che strategici, incluso il centinaio di testate B-61 ancora schierate in Europa. Gli Stati Uniti stanno proseguendo l’enorme programma trentennale di ammodernamento delle loro forze nucleari, con un investimento di 1.300 miliardi di dollari. La Russia però li ha anticipati. I più noti sono i programmi relativi al deterrente strategico, iniziati nel 2000, che hanno portato alla costruzione di un nuovo icbm pesante (“Sarmat/SS-30” o “Satan 2”), di una bomba planante iperveloce, di un minisommergibile robotizzato e di un missile cruise ipersonico a propulsione nucleare.

Nel conflitto in Ucraina, sia Putin che Lavrov hanno varie volte cercato di utilizzare il potenziale nucleare russo non per la deterrence ma per la compellence. Cioè per indurre europei e americani a non interferire con la loro “operazione militare speciale”. I toni usati per la minaccia del ricorso al nucleare sono stati propri di quelli che usano “bulli mafiosi” e hanno irrigidito la risposta alle provocazioni di Mosca. Misure e toni, infatti, sono stati verosimilmente molto più duri di quelli che gli occidentali avrebbero impiegato qualora questi veri e propri tentativi di ricatto non ci fossero stati.

 

 


Questo articolo è stato pubblicato sul numero 97 di Aspenia.