La crisi europea vista dagli analisti americani
Nel 2008 era il Vecchio continente a interrogarsi su cosa stesse capitando all’economia americana, mentre oggi è da Oltreoceano che arrivano i dubbi e la difficoltà a capire la crisi europea e il suo epicentro mediterraneo. Il tema della crisi europea è, ovviamente, dibattuto con preoccupazione: si continua a temere un’influenza negativa sulla lenta ripresa americana, e al tempo stesso si comparano le reazioni americane alla crisi con quelle europee (e il contesto istituzionale in cui esse avvengono).
Cominciamo dalla discussione sulle Banche centrali. Negli Stati Uniti c’è chi critica il Presidente della Fed Bernanke per non intervenire abbastanza nella crisi, e chi invece sostiene che gli Usa dovrebbero imparare dalla BCE, risoluta custode del rigore e del tasso di inflazione basso. Il presidente della BCE ha un mandato chiaro, preservare il potere d’acquisto dell’euro. Per questo, quando l’inflazione è cresciuta sopra il tasso stabilito del 2%, l’allora presidente Trichet ha alzato il tasso di interesse di un quarto di punto – scrive in sintesi Michael Pento, un noto analista economico, ospitato dal Wall Street Journal. Secondo questo economista di scuola austriaca, Trichet ha fatto meglio di Bernanke, che “ci assicura che l’inflazione sia transitoria. Gli americani – conclude Pento – prendono lezione dai francesi su come condurre una politica monetaria solida”. L’ironia non sfugga: ciò significa più o meno “stiamo perdendo la nostra cultura di mercato”.
Ezra Klein, columnist e blogger economico del Washington Post – piuttosto liberal – mette in risalto i due approcci nei confronti dei limiti mostrati dalla politica: Bernanke ha agito al posto di un Congresso incapace di trovare compromessi, mentre Trichet ha cercato di spingere la politica ad agire attraverso gli strumenti di cui è dotato – per esempio evitando di rassicurare i mercati in alcuni frangenti e mettendo in difficoltà, di conseguenza, i governi greco e italiano.
Ben Steil, direttore del programma di Economia internazionale del Council on Foreign Relations, sottolinea un altro aspetto: il ruolo della politica nelle scelte dei banchieri centrali. Secondo Steil, Bernanke ha un grado di indipendenza di fatto maggiore del suo collega Draghi. “Bernanke è molto meno condizionato da Ron Paul (rappresentante repubblicano-libertario che propone di abolire la Fed) che non Mario Draghi da Angela Merkel”; inoltre, la Germania, sia a livello di establishment che di società nel suo complesso, tende ad essere conservatrice in materia di politica monetaria. Le scelte non ortodosse di Bernanke in questi anni non sarebbero piaciute a Berlino; e visto che il creditore ultimo dell’Europa è proprio la Germania, afferma ancora Steil, i margini di azione per la BCE sono molto limitati.
Quanto alle scelte di policy, è un’opinione piuttosto diffusa tra gli analisti e i commentatori economici americani che le istituzioni europee commettano l’errore di rimandare gli interventi fino all’ultimo momento utile, non rassicurando mai i mercati sulla loro risolutezza. Ogni volta che la BCE ha comprato titoli di Stato italiani lo ha fatto con riluttanza, lasciando intendere che si trattava di un intervento una tantum, non di una scelta irrevocabile dettata dalla necessità di salvare l’euro – mentre proprio di questo si tratta, come ritengono ormai quasi tutti gli osservatori americani. Allo stesso modo, gli accenni vaghi alla possibilità che la Grecia esca dalla moneta unica, o gli annunci di possibili riforme dell’eurozona mentre la crisi è in corso, renderebbero più fragile la tenuta del sistema.
Tra gli economisti d’oltreoceano che intervengono anche sui giornali italiani c’è Nouriel Roubini che, implicitamente, compie di fatto un parallelo indiretto con la crisi americana del 2008. Osservando che la periferia d’Europa perde competitività e consuma troppo, mentre la Germania produce e risparmia (due destini legati come quello di Usa e Cina) Roubini prevede che, a meno di un cambiamento dell’atteggiamento tedesco nei confronti del ruolo della Bce e dell’inflazione, a essere a rischio sia l’eurozona. E sottolinea, come molti altri, il paradosso della situazione italiana (e degli altri paesi periferici): “Far crescere il risparmio troppo e troppo in fretta accelera la recessione e rende il debito ancora meno sostenibile”. A suo parere, l’opzione che resta, a meno di un cambio di ruolo della BCE e di un certo deprezzamento dell’euro, è quella dell’uscita dalla moneta unica e di rilancio della competitività attraverso il ridotto costo delle merci esportate in dracme, lire, pesetas o escudos. Le conseguenze sarebbero però catastrofiche sul piano della architettura finanziaria mondiale.
Un altro tema cruciale è quello della governance. Negli Stati Uniti in molti sottolineano la differenza che c’è tra il sistema americano – un Paese, una moneta – e quello europeo: diciassette Paesi che usano la stessa valuta, il cui valore è troppo alto per troppe realtà economiche. Come scrive Paul Krugman “Aderendo all’euro, Italia e Spagna si sono ridotte al ruolo di Paesi del terzo mondo costretti a chiedere in prestito la moneta di qualcun altro, con tutta la mancanza di flessibilità che questo implica”. Niente svalutazione, quindi, ma non solo: le banche centrali nazionali non possono stampare moneta e possono quindi trovarsi senza fondi. “Una cosa che a chi non ha dato via la sua moneta non capita”.
Su un fronte lontano dal liberal Krugman, l’analisi non diverge troppo. Desmond Lachman, del conservatore American Enterprise Institute, sottolinea proprio la difficoltà delle istituzioni europee ad intervenire contro l’opinione pubblica dei Paesi virtuosi. “C’è una crescente riluttanza degli elettorati europei a intervenire in favore della periferia ed è quindi difficile vedere come Portogallo, Irlanda e Spagna possano essere salvate dal destino greco, il default. Sembra di capire che il meglio che si può sperare sia la sopravvivenza dell’euro ma in una forma che escluda i Paesi periferici”. In forma transnazionale, si ripete il meccanismo che ha contribuito a generare il Tea Party: perché io, cittadino onesto, devo pagare i debiti di banche e persone che si sono indebitate scriteriatamente?
Infine, le ricette. Tutti – tranne i difensori a oltranza della ortodossia monetarista e del non intervento pubblico – tendono a ritenere sbagliato il modo restrittivo in cui la BCE ha interpretato i suoi compiti, considerando la Grecia come di fatto destinata a uscire dalla zona euro. Gli economisti più favorevoli all’intervento pubblico, ma non solo loro, ritengono inoltre che la situazione attuale richieda un approccio meno rigoroso alla questione del deficit. Occorrono programmi di spesa oculati e rivolti a riformare e ripensare le economie nazionali, divenute poco competitive; soltanto in una seconda fase, pur assumendo impegni e precisando obbiettivi fin da ora, si potrà affrontare in maniera strutturale il taglio della spesa e l’eventuale aumento delle entrate. Il solo rigore sarebbe pericoloso, come sostiene tra gli altri il premio Nobel Michael Spence: in un articolo che discute di globalizzazione e crisi, l’economista scrive della necessità, per i governi, di pensare in grande. “Il policy-making occidentale è prigioniero di una mentalità ciclica” mentre la globalizzazione ha cambiato le carte in tavola in maniera permanente. Per questo, Europa e Stati Uniti devono “agire e imparare” anziché “discutere e aspettare”. L’approccio suggerito è quello della pianificazione flessibile di fronte alle sfide poste dalla globalizzazione. Nessun “piano quinquennale”, ma il riconoscimento che le sfide sono diverse dal passato e che c’è qualcosa da imparare da quei nuovi giganti economici che sono cresciuti in un mondo disegnato da altri (le potenze economiche occidentali), ma che sono ormai in grado di plasmarlo.
Come suggerisce Spence, “In Europa il processo dovrebbe cominciare (piuttosto che finire) con una esplicita visione di cosa sarà l’Eurozona in 3-5 anni. Dovrà diventare un’unione fiscale dei suoi 17 membri sostenuta da una integrazione politica più profonda e meno sovranità nazionale? Oppure diverrà un’unione più piccola e meno imperfetta di Paesi in condizioni di partenza simili?” Presa questa decisione, occorrerà sviluppare le politiche necessarie. Non solo rincorrendo la crisi per uscire dalla fase di recessione e alta disoccupazione, ma anche adattandosi alla globalizzazione e cambiando con essa.