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La crisi delle élite e della politica in Occidente

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Il secondo decennio del XXI secolo si sta rivelando un periodo di grande fertilità inventiva: è uno di quei momenti in cui la storia d’improvviso accelera e crea punti di svolta che segnano per anni la vita dei popoli.

Il punto focale della trasformazione in atto sono gli enormi progressi della tecnologia digitale: potenza di calcolo, efficacia delle reti, miniaturizzazione, robot. Le conoscenze circolano a ritmo vorticoso, più rapidamente anche delle merci; i processi di lavoro acquistano su scala globale efficienza, velocità, dimensioni; la globalizzazione economica accelera. Il nuovo paradigma tecnologico trasforma l’agire sociale e produttivo: appena l’innovazione raggiunge massa critica, dissesta gli assetti esistenti della produzione e dei servizi, riorganizza le attività (ne lancia di nuove e delle restanti alcune si potenziano, altre chiudono), porta nell’arena mondiale soggetti imprevisti. Come accadde a inizio Novecento, in un’altra fase di sconvolgimento tecnologico e di incipiente globalizzazione, anche nel XXI secolo emergono riflessi politici che inaspriscono i rapporti fra le potenze e, rompendo gli equilibri, li virano verso il conflitto. Le due globalizzazioni, quella economica e quella politica, si divaricano e generano divisioni.

I punti-chiave – trattati in maggior dettaglio nel libro “La catastrofe delle élite. Potere digitale e crisi della politica in Occidente”, edito da Guerini e Associati, che sarà presentato a Roma al Centro Studi Americani il 27 febbraio con Giulio Tremonti, Marcello Foa e Giovanni Minoli – sono almeno quattro.

Locandina dell’evento

 

Primo: l’integrazione dei mercati fa crescere alcune economie, Cina in testa, con più forza e rapidità di altre (basso costo del lavoro, delocalizzazioni, catene del valore integrate). In Europa la disciplina mercantilista, che si forma a inizio secolo quando la Germania del cancelliere Gerhard Schroeder aggiusta l’economia e comincia a sfruttare il vantaggio di cambio implicito nell’associazione con Stati più deboli (eurozona), s’impone come un dogma e in breve ottiene grandi risultati gonfiando gli avanzi commerciali: 3,5% del PIL nell’eurozona, 8% in Germania. Gli interessi economici di cinesi e tedeschi, i due leader dell’export mondiale, si allineano e debordano in ambito politico: ciò crea occasioni di scontro fra Germania e Stati Uniti, come dimostrano le frequenti dissociazioni strategiche di Berlino (dissenso sulla guerra in Iraq nel 2003, accordi con l’Iran sulla questione nucleare, gasdotto Nord Stream e rapporti con la Russia).

Secondo punto: il primato economico americano si indebolisce e provoca a cascata scompiglio nel sistema delle relazioni politiche. L’economia modifica poteri e gerarchie, la scena politica avverte le ricadute e le amplifica. L’assetto unipolare di fine Novecento non tiene più, gli Stati Uniti scoprono rivali (Cina) in ascesa, alleati che praticano autonomia strategica (Germania con Europa al seguito), nemici considerati allo sbando (Russia) in ripresa su scala mondiale. Il disallineamento innesca scontri: gli USA cominciano a coltivare sentimenti revisionisti, alleati e rivali dissimulati pretendono invece continuità con il passato (tributi alle istituzioni sovranazionali, americani che pagano alleanze e stabilità).

Terzo punto: l’Occidente si divide, anzi si frastaglia al suo interno. Fino all’inizio del XXI secolo, quando domina una globalizzazione basata sulla circolazione capillare delle merci, gli interessi economici delle élite non sono così divergenti da quelli della classe media e dei lavoratori poco qualificati: la crescente ricchezza favorisce tutti, anche se in misura differente. Quando la rivoluzione digitale si estende, interessi e sentimenti divergono: una parte della società perde lavori e reddito (delocalizzazioni, robot, attività che finiscono fuori mercato a causa dell’innovazione digitale), un’altra parte (finanza, giganti del web) aumenta in misura imponente ricavi, profitti, retribuzioni. E’ una forbice che squassa la società perché investe, oltre all’economia, anche l’ambiente quotidiano di vita: crescita di immigrati poco assimilati, trionfo di irraggiungibili modelli di vita cosmopoliti, svalutazione della tradizione per far posto a figure ideologiche dissonanti (in tema di famiglia soprattutto). In Europa la crisi differisce molto da nazione a nazione: in alcuni Stati, come la Grecia, investe la quasi totalità della popolazione con una tragica caduta dei redditi; in altri, come nel resto della costa mediterranea, colpisce in modo intensivo specifici strati sociali (giovani, fasce di classe media); infine, negli Stati più fortunati, Germania anzitutto, coinvolge solo minuscole frange (ma anche qui le cose stanno peggiorando). In realtà nel continente la spaccatura sociale è aggravata dai meccanismi dell’Unione: l’impianto mercantilista (export come perno dell’economia, impulsi deflazionisti per estendere la spinta competitiva sull’estero) premia i Paesi creditori, di regola coesi e strutturati, e punisce i debitori, per lo più disordinati e fragili negli apparati istituzionali.

Quarto punto: le classi dirigenti sono cieche di fronte alla caduta sociale (e al dolore esistenziale) di chi soffre con la nuova globalizzazione ipertecnologica. Ciò enfatizza (e avvelena) le spaccature nazionali: le dinastie al comando della politica americana lungo sette presidenze (dal 1988 al 2016, da Bush senior, già capo della CIA, che abita la Casa Bianca dal 1980, fino a Bill Clinton e per conformità ideologica a Barack Obama) sono estasiate dal successo dei benestanti, che credono valga per tutti, e si beano per la diffusione mondiale della propria ideologia di perfezione morale (aiuti umanitari, diritti per tutti, primato della legge sulla ragion di Stato). Anzi, con il sussiego dei privilegiati non si negano il gusto di far la morale a chi è disperato. La spaccatura diventa insanabile e il conto arriva a partire dalle elezioni del 2016: Brexit, Donald Trump e poi elezioni tedesche, italiane, austriache, gilet gialli…

Di fronte alla spaccatura le nazioni occidentali reagiscono in modo diverso. Gli Stati Uniti si dedicano a riaffermare la propria supremazia, l’Europa invece smarrisce la rotta, va in stallo e si divide. Gli Stati autoritari traggono vantaggi tattici e il disordine aumenta.