La crisi dei partiti che hanno fatto l’Unione Europea
Il rinnovamento – del personale e dei programmi, dei sistemi di selezione, dei metodi operativi – è un tema su cui le classi dirigenti del continente sono state chiamate a impegnarsi negli ultimi anni, e con urgenza. Due novità hanno accelerato cambiamenti già in corso da tempo – anche se su una traccia meno evidente rispetto all’oggi.
Primo: a quasi dieci anni dall’inizio della grande crisi economica (particolarmente dura per l’eurozona), i cittadini restano più che insoddisfatti della classe politica. Chi non ha saputo prevedere, gestire, correggere squilibri che hanno cambiato le coordinate fondamentali delle nostre economie – si dice – non ha più la legittimità per amministrare la cosa pubblica. Le diseguaglianze non hanno mai spaventato come ora: ce lo dicono i sondaggi, se non bastasse l’esperienza quotidiana.
Ma c’è una seconda novità: sono nate e cresciute diverse forze politiche che sono lanciate alla caccia del consenso in uscita da quelle tradizionali, mettendo in discussione alcuni principi generali considerati acquisiti: il ruolo della nazione, l’organizzazione della spesa pubblica, il rapporto tra i giovani e il lavoro, la presenza di una éliteprofessionale economico-politico-amministrativa (accusata di essere una “casta”). Temi che si sono rivelati subito sensibilissimi: agli occhi di molti la crisi, grave e insistente, giustifica proposte di rinnovamento radicale.
Sfide di tale calibro avrebbero richiesto risposte di respiro altrettanto ampio. Il riflesso iniziale, però, è stato quello di isolare le nuove forze. D’altronde, negli scorsi decenni, la crescita dell’estrema sinistra spagnola come dell’estrema destra francese, e del nazionalismo inglese come di quello tedesco, era stata sempre tamponata – sia grazie alle barriere poste dai sistemi elettorali che alla brevità di quei “risvegli”.
Tuttavia, è successo qualcosa di inatteso nella politica europea occidentale, cioè di quei paesi che erano membri dell’Unione già prima della caduta del Muro – seppure in maniera diversa da caso a caso. Mentre i vecchi partiti erano colpiti da una crisi epocale, il consenso delle nuove forze si è amplificato e prolungato tanto da annullare i soliti anticorpi. Quindi, i “contestatori” sono entrati in pianta stabile nell’arena politica con lo scopo preciso, cardinale, di marcare una discontinuità tra un vecchio sistema – fallimentare, nelle loro parole – e uno nuovo, naturalmente più giusto, efficiente, onesto, personificato da queste nuove leadership.
Fallito il tentativo di isolamento, un’altra cosa è successa: il modo di distinguere i partiti l’uno dall’altro è cambiato. “Perché queste distinzioni non avevano più senso”, dicono alcuni; “Perché il vocabolario imposto dalle nuove forze ha avuto successo”, rispondono altri. Fatto sta che se prima a grandi linee questi erano divisi tra destra e sinistra o secondo altre simili declinazioni, ora emerge un’altra distinzione: tra sistema e antisistema. A seconda dei casi: la tecnocrazia, la casta, la vecchia politica da un lato; il popolo, la cittadinanza, il rinnovamento dall’altra. Indipendentemente dai marchi ideologici originari.
Una distinzione, non serve dirlo, del tutto favorevole alle nuove forze. Quando i partiti tradizionali hanno cominciato a scricchiolare, non sono stati i loro avversari storici ad avvantaggiarsene. In Spagna il picco negativo dei popolari coincide con quello dei socialisti, e un terzo dei voti si sposta sui neonati Podemos e Ciudadanos; in Francia, la crisi nera dei socialisti non rafforza un centro-destra più diviso che mai, ma fa da contraltare ai record del Front National; nel Regno Unito elettori sia laburisti che conservatori passano al nazionalismo inglese o scozzese; in Germania, al lento logoramento della CDU di Angela Merkel corrisponde il peggior momento dei socialdemocratici.
E’ anche vero che non siamo di fronte a un collasso: in effetti, le classi dirigenti espresse dai partiti classici sono ancora al potere in tutti i paesi dell’Europa occidentale – con l’eccezione della Grecia. Uno dei motivi, è bene sottolinearlo, è la grande eterogeneità delle forze nuove che abbiamo descritto: questo fa sì che la loro azioni pratiche e le loro elaborazioni teoriche siano tutt’altro che coerenti da caso a caso, pur esistendo importanti punti in comune. Per farvi fronte, le leadership tradizionali si sono mosse soprattutto in due modi. Intanto, con un discorso teso a dimostrare agli elettori che la crisi è acqua passata.
In Spagna, il primo ministro Mariano Rajoy ha ritardato il più possibile le elezioni (infine svolte a dicembre 2015) in attesa che il paese si convincesse che la ripresa era arrivata. Invano: il tasso spagnolo di senza lavoro è restato il più alto dell’UE (dopo la Grecia) e il suo partito ha perso il 16%. Per il presidente francese François Hollande il dato della disoccupazione è una vera ossessione: promessa la sua discesa sotto il 10%, il Capo di Stato ne ha fatto la condizione per la sua ricandidatura il prossimo anno. In acque (apparentemente) più tranquille Angela Merkel, che allo scadere del suo ultimo mandato a fine 2017 festeggerebbe i dodici anni al potere: i numeri dicono che l’economia tedesca è in salute. Ma non manca in Germania la preoccupazione per le diseguaglianze, tema sentito sia dagli esperti che dall’opinione pubblica: tra i primi atti dell’ultimo governo Merkel c’è stata, a inizio 2014, l’introduzione di un salario minimo crescente. Una strada imboccata anche da Londra: David Cameron, nonostante l’ultima vittoria elettorale, ha annunciato recentemente a sua volta un piano di incremento degli stipendi più bassi – del 25% in 5 anni.
L’altra strada percorsa dalle classi dirigenti in difficoltà è stata quella di fare propri – quando possibile – slogan e pratiche dei partiti contestatori.
Un modo è ricorrere all’arma politica democratica per eccellenza, il referendum. Molte delle nuove forze infatti brandiscono questo strumento nel nome della sovranità da restituire al popolo: votare sull’euro come molti chiedono, sull’appartenenza nazionale come ha ottenuto la giovane leader nazionalista scozzese Nicola Sturgeon, sulle politiche economiche come ha voluto il “ribelle” Alexis Tsipras (pur compiendo poi un contraddittorio giro di walzer per accettare di fatto le regole europee), e se questo non bastasse, anche sul trattato di associazione tra Unione e Ucraina, come stanno per fare gli olandesi. Ed ecco spuntare fan del referendum anche nei partiti tradizionali: Cameron farà votare gli inglesi sulla permanenza nell’UE, a suggello delle sue scelte su economia e immigrazione. Il centro-destra moderato catalano di Convergència i Uniò ha abbracciato la causa del giudizio popolare sullo status della Catalogna in Spagna per riallacciare (anche qui, con successo) il rapporto con un elettorato che gli voltava le spalle dopo anni di scandali e logoramento. E in Italia, le riforme del primo ministro Matteo Renzi, la cui nomina non è passata dalle urne, saranno sanzionate – o comunque valutate – tra qualche mese proprio da un referendum.
Un altro modo è di mostrarsi vivaci, reattivi, potremmo dire rinnovabili. Renzi e la sua “rottamazione” hanno fatto scuola. Abbiamo visto in effetti una moltiplicazione, negli ultimi anni, di leader quarantenni nelle forze di centrosinistra europee: facce giovani e disinvolte che vogliono simboleggiare l’addio a una sorta di gerontocrazia. Ma non tutto funziona per il meglio, ad esempio se si guarda a Manuel Valls, nominato da Hollande a capo del governo francese, e Pedro Sanchez, scelto dai baroni socialisti spagnoli come volto dell’ultima campagna. Il problema è che i nuovi dirigenti non sempre hanno conquistato il loro posto contro i vecchi: invece, ne sono stati cooptati, come polizza di sopravvivenza. L’elettorato potrebbe così interpretare il passaggio di consegne, e non apprezzare. Accolta meglio, invece, la scalata (autonoma) di Jeremy Corbyn ai laburisti inglesi: l’età è sì avanzata, ma la non partecipazione – un po’ come accade per Bernie Sanders nei Democratici americani – alle ultime svolte ideologiche e alle esperienze di governo, per ora basta ad alimentare l’entusiasmo; da verificare, invece l’effetto nelle urne.
Ma come si misura il rinnovamento di un sistema? Difficile dirlo, perché nemmeno nei casi di rottura più eclatanti una classe politica e amministrativa è sostituita del tutto da un’altra. Resta il fatto che, dopo due o tre decenni in cui le si rimproverava di votare “come i genitori”, è soprattutto la fascia di età sotto i 35 anni – in tutti i paesi, secondo le inchieste – a rivolgersi alle nuove forze: una “devianza” difficilmente recuperabile.
Tornando alla Francia, un recente editoriale di Le Monde faceva notare che “il tipico candidato presidenziale per il prossimo anno è un maschio, bianco, tra i 60 e i 70 anni, con un cumulo di incarichi politici alle spalle, e già pluricandidato. Un profilo così rende attraente anche Marine Le Pen”. Tanto più resistente sarà il vecchio sistema al rinnovamento interno – sembrano suggerire queste parole – più forte rischierà di essere scosso dall’esterno.