La crisi climatica: una crisi umanitaria che pesa sull’Africa sub-sahariana
Per portata e gravità, le inondazioni che in questi mesi sferzano la Nigeria sono le peggiori degli ultimi trent’anni. L’ultima, improvvisa e devastante, ha colpito almeno 239mila persone nello stato del Borno, nel nord-est, in una sola notte, tra il 9 e il 10 settembre. Complessivamente, dall’inizio della stagione delle piogge, quasi 1 milione e 300mila nigeriani, in 34 dei 36 stati federati del paese, quest’anno sono stati investiti dalla furia dell’acqua. La conta dei danni richiede tempo: la National Emergency Management Agency censisce oltre 700 mila sfollati, più di 119 mila case andate distrutte, quasi 200 mila ettari di terreni agricoli coltivati sommersi, poco meno di 2900 feriti, 320 vittime. Rifugi, acqua potabile e pulita, cure mediche, cibo. È facile immaginare quanto i bisogni umanitari siano enormi per una popolazione assai vulnerabile, intrappolata in situazioni e logiche di violenza, che già prima soffriva tassi critici di povertà estrema, livelli allarmanti di insicurezza alimentare e malnutrizione, come anche ricorrenti e diffuse epidemie di malattie prevenibili.
Fenomeni atmosferici senza precedenti
Restando in Africa Occidentale e Centrale, anche Burkina Faso, Camerun, Ciad, Guinea, Mali e Niger sono stati di recente travolti da inondazioni ripetute e senza precedenti (solo nel bacino del Lago Ciad le precipitazioni sono rese più intense di circa il 20% a causa del cambiamento climatico indotto dall’uomo, secondo una ricerca degli scienziati della WWA appena pubblicata), con conseguenze non meno catastrofiche nell’immediato quanto sul lungo termine. È crisi umanitaria: almeno 4 milioni di persone coinvolte (numero che è triplicato rispetto allo stesso periodo dello scorso anno), oltre 1.500 morti, 1,2 milioni di sfollati. Centinaia di migliaia tra case e infrastrutture vitali danneggiate o ormai andate perse. Quasi un milione di acri di campi e più di 36 mila animali da allevamento spazzati via dall’acqua. L’accesso alle strutture sanitarie, alle scuole, ai mercati gravemente interrotto, le fonti idriche compromesse. Di tali disastri, sono profondissime le ripercussioni attese anche sulle fragili economie nazionali.
Pochi mesi prima, ondate di caldo mortale che per i climatologi del gruppo World Weather Attribution (WWA) “non si sarebbero verificate senza il cambiamento climatico indotto dall’uomo” avevano soffocato il Sahel, già preda di uno dei tassi di desertificazione e degrado ambientale più rapidi al mondo: tra fine marzo e inizio aprile il Burkina Faso registrava temperature minime sui 32°C, il 3 aprile il termometro aveva toccato 48,5°C in Mali. A febbraio, anche la costa meridionale dell’Africa Occidentale, la zona della Guinea, aveva sperimentato caldo eccezionale, con una combinazione di temperature elevate e aria umida che aveva portato a valori medi dell’indice di calore di circa 50°C (classificati come “pericolo”), che localmente avevano raggiunto picchi anche di 60°C (“pericolo estremo”). È ancora uno studio della WWA a spiegare che sempre “a causa del cambiamento climatico indotto dall’uomo”, l’indice di calore medio nell’area, in sostanza il caldo effettivo percepito nella combinazione di alte temperature ed elevati tassi di umidità, è aumentato di circa 4°C a fronte di un + 1,2°C registrato sulle temperature reali, e le ondate di calore umido sono adesso almeno 10 volte più probabili.
Parliamo di quel caldo estremo che recenti ricerche dimostrano sta già incidendo fortemente sulla mortalità perinatale nell’Africa sub-sahariana. E che, stando all’ultimo report del Fondo ONU per la Popolazione, inciderà su un fenomeno solo apparentemente slegato, la violenza domestica, che per il 2060 sarà triplicata nella macroregione se non saranno intanto potenziati gli sforzi di adattamento e mitigazione del clima, come anche gli interventi di sviluppo socioeconomico, quelli relativi all’istruzione femminile soprattutto.
Gli impatti, diretti e indiretti, del caldo estremo e dello stress ambientale sulla vulnerabilità alla violenza dal partner (IPV) sono enormi, ancor di più nella regione che ne registra già tra i più elevati livelli al mondo: le ricerche provano un nesso tra le temperature estreme e l’aumento dell’aggressività del partner, il ruolo di trigger dei conflitti intra-familiari e della violenza domestica giocato dalle situazioni di insicurezza alimentare, idrica o abitativa determinate dal caldo estremo e dagli shock climatici ad esso connessi, e ancora la crescita dei livelli di violenza dal partner nei contesti di sfollamento forzato guidato dai disastri naturali, per citarne solo alcuni.
“Secondo le stime, un aumento di una deviazione standard (DS) nell’anomalia della temperatura comporta un aumento del 2,79% nelle probabilità che le donne siano colpite da qualsiasi forma di violenza fisica, inclusa quella meno grave, grave e sessuale”, si legge sullo studio che indica anche quanto le donne giovani e meno istruite siano anche quelle colpite in modo sproporzionato.
Non va meglio a est del continente, anzi. Sono ormai cinque le stagioni consumate dalla più severa e prolungata siccità degli ultimi 40 anni nel Grande Corno d’Africa, che da solo – così scrive nel suo rapporto più recente l’Ufficio ONU per il Coordinamento degli Affari Umanitari – “rappresenta circa il 22% del carico di casi umanitari globali del 2024”. E gli ultimi mesi hanno visto arrivare precipitazioni eccezionali, con una stagione umida da record storico soprattutto tra il Sudan e l’Etiopia, seguite da impetuose inondazioni, e poi ancora maggiore siccità. È un rincorrersi sempre più veloce e intenso di estremi metereologici e climatici, che spinge milioni di persone in miseria, o le sradica, o le uccide: per quanti hanno perso dall’80 al 100% del proprio sistema di sostentamento potrebbe servire fino un decennio perché possa parlarsi di ripresa.
Crisi climatica tra guerre e shock economici
Una sconvolgente convergenza di crisi climatiche, conflitti, epidemie e shock economici colpisce la regione. Ed è emergenza su ogni fronte, dalla sanità pubblica alla sicurezza. Il Famine Early Warning Systems Network stima più di 50 milioni di persone con urgente bisogno di assistenza alimentare oggi nell’area, e sono quasi 11 milioni i bambini sotto i cinque anni affetti da malnutrizione acuta. Nel Sudan imbrigliato nella più difficile crisi di fame della sua storia, nel Nord Darfur, più precisamente nel campo per sfollati di Zamzam, è stata ufficializzata la carestia (per la quarta volta a livello globale). Questo giugno l’Agenzia ONU per i Rifugiati registrava 20,8 milioni di sfollati interni, guidati dai conflitti e dai mortali disastri legati al clima, nel più ampio quadro che comprende Africa Orientale, Corno d’Africa e Grandi Laghi (EHAGL).
Lo scenario si fa anche più cupo nell’Africa meridionale, in parte stretta nella morsa della peggiore siccità in oltre un secolo per cui sei Paesi – Lesotho, Botwana, Namibia, Malawi, Zimbabwe e lo Zambia nella sua crisi più grave in quattro decenni – hanno dovuto dichiarare lo stato di calamità, in parte allagata dalle estese inondazioni dovute alle grandi tempeste abbattutesi su Madagascar, Mozambico, Malawi e Zambia.
C’è poi il più infausto El Niño della storia recente, quel fenomeno naturale ricorrente di riscaldamento delle temperature della superficie oceanica del Pacifico fino a 0,5°C capace di provocare, come fa anche il suo opposto perfetto La Niña, effetti metereologici particolarmente intensi e di influenzare i modelli climatici a livello globale. Intervenendo su un contesto di complesse vulnerabilità preesistenti e significativamente esacerbato dai cambiamenti climatici, questo fenomeno atmosferico, molto studiato ma assai complesso, lascia 61 milioni di persone bisognose di assistenza umanitaria, 20 milioni – il 10% della popolazione totale della regione – alla fame sul livello “Crisi” della scala IPC. Carenze idriche che sono anche carenze igienico-sanitarie, epidemie che dilagano (colera e vaiolo Mpox, soprattutto). Fallimento diffuso dei raccolti (fino all’80%), morie di bestiame, inflazione dei prezzi dei prodotti alimentari. Spostamenti su larga scala, fame. E ovviamente l’aggravarsi dei conflitti e dei disordini civili che già tenevano sotto scacco la regione. Il copione sembra quello ben noto da molti anni, oggi aggravato da condizioni climatiche complessivamente più avverse.
Per rispondere alle necessità di sopravvivenza delle popolazioni, alcuni governi hanno dovuto far ricorso a misure drastiche: Zimbabwe e Namibia, per citarne soltanto una, hanno avviato campagne di abbattimento di animali selvatici. E sono molte le famiglie che hanno iniziato ad adottare meccanismi di adattamento negativi, che sempre vanno a danno delle donne e dei più piccoli: cresce a dismisura il rischio di matrimoni forzati e infantili, abbandono scolastico, lavoro minorile, separazioni familiari. Era luglio quando Etleva Kadilli, Direttrice regionale dell’Agenzia ONU per l’Infanzia, lanciava l’allarme per oltre 270mila bambini minacciati dalla malnutrizione acuta grave, la forma più letale, nei paesi vittime della siccità: “sono sull’orlo di un impatto irreversibile sulla loro salute e sulla loro crescita a causa della crisi climatica e questo allarme non dovrebbe rimanere inascoltato dalla comunità internazionale”, ripeteva.
Gli shock metereologici e climatici che stanno colpendo l’Africa sub-sahariana nel 2024 riproducono, inasprendolo, lo schema già visto lo scorso anno. Il 2023, l’anno più caldo che la World Metereological Organization abbia mai registrato, è stato un susseguirsi di siccità prolungate, cicloni tropicali, ondate di caldo mortali, precipitazioni estreme, inondazioni dagli impatti rovinosi sulle comunità, le economie e gli ecosistemi d’Africa.
Sono stati 60 i disastri segnalati dall’Emergency Events Database, che riporta di quasi 3mila morti per inondazione in Repubblica Democratica del Congo, 1200 vittime del ciclone Freddy in Malawi, 6 milioni di alluvionati tra Tanzania e Somalia, tra gli altri. Pesantissime le implicazioni economiche: basti pensare, per fare solo qualche esempio, al deficit di cereali senza pari affrontato dallo Zimbabwe a secco, al crollo delle produzioni di miglio, sorgo e grano in Sudan, agli oltre 2,2 milioni di ettari di coltivazioni di mais andati persi in Zambia, al prezzo dell’acqua quadruplicato rispetto al 2021 nel nord del Kenya e in Somalia, ai 13 milioni di capi di bestiame uccisi dalla sete nel Corno d’Africa tra il 2022 e il 2023.
E va avanti così da molti anni. Dal 1961 – riporta la più recente edizione dell’Africa Sustainable Development Report – il cambiamento climatico ha provocato un calo della crescita della produttività agricola pari a -34%. In una regione che fa dell’agricoltura il pilastro dei propri mezzi di sostentamento e vi impiega fino al 60% della sua forza lavoro, è una voragine economica. Che si farà sempre più profonda: “un riscaldamento globale di 2°C rispetto ai livelli preindustriali porterà a riduzioni della resa per le colture di base, con un calo previsto del 9% della resa del mais nell’Africa occidentale e un calo del 20-60% della resa del grano nell’Africa meridionale e settentrionale rispetto alle rese del 2005”.
Il prezzo del grande paradosso africano
Continuando su questa strada – e considerato anche che già l’aumento della popolazione nella regione, l’ultima ormai al mondo dove la natalità rimane su livelli elevati, comporta di per sé, tra le altre cose, un aumento del numero assoluto di persone in condizione di sofferenza (anche se a livello percentuale la quota di persone che oggi vive in povertà estrema è in lieve calo) – entro il 2030 saranno 118 milioni le persone “estremamente povere”, quelle costrette a sopravvivere con meno di 1,90 dollari al giorno, vittime della siccità, delle inondazioni e del caldo estremo nell’Africa sub-sahariana. L’ultimo State of Climate Africa, presentato ad Abidijan, in Costa d’Avorio, in occasione della 12esima Climate Change and Development in Africa, parla chiaro.
“In media, i paesi africani stanno perdendo tra il 2 e il 5% del loro PIL e molti stanno dirottando fino al 9% dei loro bilanci per rispondere agli estremi climatici. Nell’Africa sub-sahariana, si stima che il costo dell’adattamento ammonterà tra i 30 e i 50 miliardi di dollari all’anno nel prossimo decennio, il 2–3% del PIL della regione”, scrivono gli esperti dell’agenzia specializzata delle Nazioni Unite. Tanto significa ulteriori oneri per contrastare la povertà e un imponente ostacolo al potenziale di crescita socio-economica, dove già alla fine dell’anno passato il rapporto debito/PIL toccava quota 60% e costringeva a duri compromessi rispetto al soddisfacimento di esigenze critiche, come salute e istruzione – sebbene l’innesco di un valido processo di adattamento potrebbe per certo produrre anche ampissime ricadute positive a vari livelli, impattando sul piano infrastrutturale quanto su quello economico e politico-sociale, pensiamo all’housing resiliente piuttosto che agli scenari di sviluppo possibili legati a più efficienti ed efficaci gestioni delle risorse agricole, idriche ed energetiche, per esempio.
In un grande paradosso climatico, il continente che storicamente contribuisce meno (per appena il 4%) alle emissioni di gas serra globali, che dell’emergenza climatica sono fattore di traino, è quello che da sessant’anni si riscalda ad un ritmo più rapido della media globale con un innalzamento delle temperature nel decennio che è ormai pari a +0,3°C. Ed è anche quello che rimane più esposto agli estremi climatici e agli elevatissimi rischi correlati sulle popolazioni e le economie. A fronte del 35% dei decessi globali legati a condizioni metereologiche, climatiche e idriche registrati nel continente dal 1970, solo il 40% della popolazione è coperta da sistemi di allerta precoce. È il tasso più basso di qualsiasi altra area al mondo.
“L’Africa affronta oneri e rischi sproporzionati derivanti da eventi e modelli meteorologici correlati al cambiamento climatico” – si legge, in apertura dell’analisi, a firma della Commissaria dell’Unione Africana per l’Agricoltura, lo Sviluppo rurale, l’Economia blu e l’Ambiente sostenibile, Josefa L. C. Sacko – che mette il punto sulle “enormi crisi umanitarie con impatti negativi su agricoltura e sicurezza alimentare, istruzione, energia, infrastrutture, pace e sicurezza, salute pubblica, risorse idriche e sviluppo socioeconomico complessivo” determinati su tutto il continente. È indispensabile – insiste – dare priorità a maggiori investimenti in infrastrutture, tecnologie e sistemi metereologici, climatici e idrologici all’avanguardia, come anche accelerare l’implementazione dell’iniziativa Early Warnings For All: “questo contribuirà a mitigare i rischi, a sviluppare capacità di adattamento, a rafforzare la resilienza a livello locale, nazionale e regionale e a guidare strategie di sviluppo sostenibile”.
Dal prepararsi all’escalation di eventi naturali pericolosi e disastri ad alto impatto, insomma, dipende lo sviluppo resiliente al clima in Africa, è il key message della relazione. Ma arginare gli effetti del cambiamento climatico e mettere in campo azioni di adattamento realmente impattanti è una responsabilità onerosa. E intanto che quasi tutti i Paesi africani hanno sottoscritto l’accordo di Parigi, e sono consistenti i loro sforzi nel fronteggiare la crisi, è sintomatico quanto preoccupante che solo 29 su 54 territori abbiano stabilito strategie nazionali e locali per la riduzione del rischio catastrofi e che solo 21 siano stati in grado di predisporre piani di adattamento nazionale.
L’epidemia di sotto-investimenti
Il tema è il divario, immenso e inaccettabile, nel finanziamento globale per il clima che resta largamente al di sotto delle esigenze e delle aspettative delle nazioni africane, con neanche il 3% – denuncia il Anthony Nyong, Direttore della Banca africana per lo Sviluppo – che raggiunge l’Africa sub-sahariana. L’ultima panoramica del Programma Onu per lo Sviluppo indica che i flussi d’investimento annuale per la mitigazione climatica in Africa sono limitati all’11% del fabbisogno totale, oltre che riservati a pochi paesi. E mentre si stima che il 65% del territorio produttivo africano sia degradato, con un impatto su 400 milioni di persone, e che la realizzazione degli Obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030 dipenda dall’azione su 1,2 trilioni di dollari, appena 2,6 dei 400 miliardi di dollari spesi in progetti di energia pulita sul piano globale sono arrivati ai paesi d’Africa nel 2023 – fanno eco, in vista della COP29 di Baku, dall’ultima Conferenza ministeriale africana sull’Ambiente.
L’Africa, con le sue enormi risorse naturali e la popolazione più giovane al mondo, può farsi luogo di opportunità e soluzioni innovative e sostenibili in materia di crisi climatica e sfide ambientali, come prova la leadership crescente nelle iniziative di economia verde (il partenariato regionale per energie rinnovabili e la Grande Muraglia Verde che corre dalla Mauritania al Gibuti, ne sono solo esempi) e nell’istituzione di organismi di coordinamento efficaci a supporto dell’allineamento di diversi accordi multilaterali anche di livello globale (lo storico Loss and Damage Fund, tra tutti, sebbene questo schema sia problematico nella sua attuazione pratica).
Ma subisce “un’epidemia di sotto-investimenti” – per usare le parole di Simon Stiell, Segretario esecutivo della Convenzione Onu per i Cambiamenti climatici – che inchioda al fallimento quella che potrebbe essere “una miniera d’oro di benefici umani ed economici”. Epidemia che è vitale, per il futuro di tutti, in un mondo interdipendente, debellare.