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La compattezza del fronte democratico e la sfida russa

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L’incontro tra Mario Draghi e Joe Biden a Washington, il 10 maggio, è servito anche a ribadire un concetto in apparenza semplice ma di grande importanza: come ha dichiarato il Presidente del Consiglio italiano, “Se Putin ha mai pensato di poterci dividere, ha fallito”. Non si tratta soltanto di un’affermazione retorica, indirizzata a Mosca, perché il “noi” dietro quella frase è al contempo transatlantico ed europeo. E’ dunque un dato politico che proietta la stretta collaborazione euro-americana verso il futuro, in forme aggiornate e dinamiche. E’ altrettanto vero che Draghi ha incontrato Biden senza alcun bisogno di farsi legittimare – tantomeno autorizzare – una scelta strategica che l’Italia e la UE hanno fatto in piena autonomia. Non certo a caso, il Presidente del Consiglio ha espressamente menzionato l’opzione, sempre presente per quanto ad oggi difficilissima, di un canale negoziale con la Russia.

Un fattore-chiave nella risposta all’invasione russa dell’Ucraina è certamente la tenuta della coalizione occidentale e democratica che sta sostenendo il governo di Kiev. Va subito sottolineato che si tratta, appunto, di una vasta coalizione che va oltre la NATO, coinvolgendo la UE in quanto tale (cioè non solo i suoi Paesi membri che fanno anche parte dell’Alleanza Atlantica), e importanti democrazie asiatiche come Giappone e Corea del Sud.

Stiamo dunque parlando di un fronte a guida occidentale e con caratteristiche fortemente incentrate sulla democrazia. Non è soltanto un artificio retorico: nella mobilitazione a sostegno dell’Ucraina c’è anche (assieme a considerazioni di Realpolitik, senza dubbio) un elemento di comunanza ideale, legata al principio di governo democratico.

 

E’ chiaro che il tentativo di salvaguardare la sovranità ucraina si è presto trasformato in uno scontro con la Russia di Vladimir Putin – il che non significa affatto che si stia combattendo una cinica “guerra per procura”, visto che l’invasione è stata una scelta esclusivamente russa e visto che gli ucraini hanno mostrato da subito tutta l’intenzione di resistere all’attacco, anche senza aiuti esterni. Di fronte a una contrapposizione militare protratta con Mosca lungo i confini della NATO, ai costi delle sanzioni economiche (che certo ricadono anche su chi le impone), alla crisi migratoria innescata dalla fuga di massa di milioni di ucraini, è giusto porsi il quesito sulla capacità di mantenere questa linea di fermezza.

 

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Se però si pretende una sorta di acquiescenza totale alla visione di un Paese-guida (gli Stati Uniti) o comunque di una posizione preconfezionata o fissata una volta per tutte, allora la domanda è mal posta. I Paesi governati da istituzioni democratico-liberali saranno sempre tendenzialmente uniti su alcuni obiettivi generali e divisi su alcuni obiettivi specifici. Condividono un metodo di lavoro e un meccanismo decisionale, ma ciò non garantisce affatto che siano perfettamente allineati. Ed è giusto che sia così, proprio alla luce della loro natura di democrazie liberali di mercato: la forza di questo sistema di governo sta nella capacità di decidere una linea d’azione senza rinunciare al dissenso interno e senza cessare di sperimentare altre soluzioni possibili.

Sarebbe dunque un equivoco confondere la differenza di prospettive, di priorità specifiche e di sensibilità, con una debolezza. In una società aperta si continua a discutere anche dopo aver preso una decisione, si sottopone sempre l’azione in corso ad analisi critica, si cercano incessantemente nuove informazioni per rendere più efficace la propria scelta politica. E’ il modo peculiare in cui le società liberali prendono le decisioni e in cui affrontano la complessità.

Del resto, per farsene un’idea basta scorrere anche superficialmente la storia della NATO, con le ricorrenti crisi di consenso e i molti “distinguo”; basta guardare alle enormi difficoltà incontrate quotidianamente dalla UE nella ricerca di posizioni realmente comuni; basta osservare le coalizioni asiatiche incentrate sulle garanzie di sicurezza americane, per cui ad esempio tuttora Giappone e Corea del Sud hanno tra loro rapporti tesi pur collaborando strettamente con Washington.

La politica estera e di sicurezza dei regimi democratico-liberali proietta il loro modus operandi verso l’esterno, compresi alcuni dei valori che ispirano la loro politica interna. E’ inevitabile che sia così, perché qualsiasi leader governativo, qualsiasi diplomatico o comunque funzionario porta con sé un bagaglio di esperienze quando svolge un’azione internazionale a nome del proprio Paese o di un’organizzazione multilaterale.

A livello macro, questo fenomeno di proiezione esterna si è espresso al massimo grado con la formazione (per quanto parziale, incompleta e contestata) del cosiddetto “ordine liberale internazionale” nel secondo dopoguerra, di cui le stesse Nazioni Unite sono una manifestazione giuridica e politica. E’ altrettanto evidente che l’operazione è rimasta incompiuta, come dimostra ad esempio la paralisi del Consiglio di Sicurezza ONU proprio in queste settimane di guerra in Ucraina – per ragioni perfettamente note, visto il diritto di veto dei cinque Membri Permanenti. Le debolezze strutturali delle Nazioni Unite ci ricordano che l’azione internazionale degli USA, dei maggiori Paesi europei e degli alleati più stretti di Washington in Asia-Pacifico ha dovuto sempre adattarsi a difficili compromessi, sia appunto in chiave di meccanismi decisionali, sia di regole economiche (Banca Mondiale, Fondo Monetario, GATT/WTO), sia di norme umanitarie e di criteri per l’uso della forza militare.

In altre parole, molti aspetti dell’attuale sistema globale sono stati plasmati dalle idee sviluppate nei regimi politici democratico-liberali di mercato, ma certamente non è stato sempre possibile farlo in totale libertà o senza opposizioni. E qui emerge un altro frequente equivoco sul rapporto tra democrazie e autocrazie, anzi un “doppio equivoco”: secondo alcuni, il mondo occidentale sarebbe fatalmente ingenuo e succube di una visione irenica delle relazioni internazionali (a fronte di avversari cinici e strategicamente geniali); secondo altri, i governi occidentali si comporterebbero di fatto allo stesso modo dei loro presunti avversari autoritari. La storia degli ultimi decenni contraddice entrambe le semplificazioni, perché le democrazie sono ovviamente in grado di perseguire i propri interessi (anche in termini di Realpolitik) ma lo fanno con modalità sostanzialmente diverse da quelle tipiche di Paesi come Russia e Cina.

Si può guardare proprio alla crisi in atto in Ucraina per intravedere la continua ricerca di una linea intermedia. La coalizione che sostiene il governo e le forze armate di Kiev (e con aiuti umanitari la popolazione civile) sta ribadendo il principio della sovranità statuale e dell’inviolabilità dei confini, ma al contempo richiama il rispetto dei diritti umani (sia in termini generali che come jus in bello), che in effetti travalica i confini degli Stati. Inoltre, prima dell’invasione russa, e perfino durante il conflitto, si sono offerti tavoli negoziali di ogni tipo al governo di Putin, pur senza rinunciare al supporto militare diretto all’Ucraina: non si cerca lo scontro, ma si è disposti ad accettarlo se non c’è altra opzione, e si cerca a quel punto di prevalere.

In sostanza, la visione che ne emerge è articolata e composita, proprio come le varie posizioni nazionali che spingono a temere per la tenuta del fronte occidentale. Le scelte compiute a Washington, Berlino, Londra, Parigi, Roma o Stoccolma appaiono a volte oscillanti; ma questo non è un difetto di esecuzione, bensì una prerogativa strutturale dei sistemi politici che le esprimono. E la collaborazione intergovernativa segue la stessa traiettoria: la compattezza è importante ma il dissenso su alcuni punti lo è altrettanto.

Del resto, i modelli di alleanze offerti dalle autocrazie non sembrano un’alternativa molto brillante, a ben guardare. Il vecchio Patto di Varsavia della guerra fredda? L’incrollabile sostegno russo al regime siriano di Assad? La fraterna partnership tra Mosca e la Bielorussia? L’amicizia “senza limiti” tra Cina e Russia? Colpisce soprattutto quest’ultimo allineamento “mancato” o comunque ancora embrionale, dopo tante promesse e aspettative: Pechino non si è schierata neppure apertamente con il suo “junior partner” (la Russia ha un PIL pari a circa un ottavo di quello cinese) sulla vicenda ucraina.

 

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Forse c’è un buon motivo se finora non si è vista una gran corsa globale a stringere patti e alleanze con Mosca né con Pechino, perfino a fronte di elargizioni generose di favori militari o economici. Si potrà notare che molti Paesi africani si sono astenuti in occasione della Risoluzione di condanna contro la Russia all’Assemblea Generale dell’ONU il 7 aprile; ma si tratta pur sempre di astensioni, e davvero non sembra che ciò basti a dar vita a qualcosa che somigli a un’alleanza degna di tal nome.

Almeno in questa prospettiva, quello che siamo tornati a chiamare “Occidente” può dormire sonni tranquilli. E non è poco, tra grandi sfide e incertezze.

 

 


*Articolo aggiornato l’11 maggio 2022