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La Cina scommette sull’espansione

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In un arco temporale di soli trent’anni, con un modello di crescita basato sui suoi vantaggi comparati e fortemente vocato agli investimenti e alle esportazioni, la Cina è stata protagonista di un rapido sviluppo da paese agricolo povero a potenza industriale globale, diventando nel 2010 la seconda economia del pianeta. Dopo la crisi finanziaria internazionale del 2008, tuttavia, e di fronte alla frenata dell’economia globale, molti paesi, compresa la Cina, hanno cercato nuove soluzioni per stimolare o sostenere la crescita. In effetti, in un mondo post-Trump e post-Brexit nel quale l’America e il Regno Unito stanno entrambi – concretamente o simbolicamente – puntando a sganciarsi dalla globalizzazione, l’aspettativa diffusa è che Pechino svolga un ruolo più importante nell’economia globale. L’economia cinese oggi vale qualcosa come 12.000 miliardi di dollari, e negli ultimi anni ha contribuito a circa un terzo della crescita economica mondiale.

 

LA BRI, CONTRIBUTO CINESE ALLO SVILUPPO DELL’ASIA. Inquadrata in questo contesto, la Belt and Road Initiative (BRI) può essere letta come la risposta cinese a una sfida globale. Da un lato, la Cina deve fare i conti con la propria sovracapacità industriale in settori come l’acciaio, l’alluminio, il cemento, i prodotti chimici, la cantieristica navale e l’edilizia. Dall’altro lato, molti paesi in via di sviluppo registrano un rapido aumento della domanda (specialmente di infrastrutture), ma con un enorme gap a livello di capacità finanziaria e industriale. Lo sviluppo infrastrutturale nell’Asia-Pacifico può muovere oltre 22.600 miliardi di dollari di qui al 2030, ovvero 1.500 miliardi di dollari l’anno. La stima sale a più di 26.000 miliardi di dollari, cioè 1.700 miliardi di dollari l’anno, considerando i costi di adattamento al cambiamento climatico e di mitigazione dei suoi effetti.

Il PIL di Cina, Stati Uniti e India da qui al 2030. Fonte: visualcapitalist.com

 

Non stupisce che il ministro degli Esteri cinese Wang Yi, in una conferenza stampa del 2016 con giornalisti cinesi e stranieri, abbia presentato la BRI come “un passo importante sul piano delle riforme a tutto campo e dell’apertura della Cina in un nuovo contesto storico, e al tempo stesso un fondamentale bene pubblico offerto dal paese all’Eurasia”. Gli ha fatto in qualche modo eco il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres: “La Belt and Road Initiative e l’Agenda 2030 (dell’ONU) differiscono per natura e ambito di applicazione, ma entrambe hanno come principale obiettivo lo sviluppo sostenibile. Ambedue sono tese a creare opportunità, beni pubblici globali e una cooperazione win-win”.

 

UNA NUOVA VIA DELLA SETA. La BRI, o Yidai yilu changyi in cinese, è la sintesi di due componenti: la “Silk Road Economic Belt” e la “21st Century Maritime Silk Road”, che il presidente cinese Xi Jinping ha presentato per la prima volta in occasione delle sue visite in Kazakistan e in Indonesia, rispettivamente a settembre e ottobre del 2013. Su quella falsariga, anche il premier Li Keqiang, nella cornice dell’Expo Cina-asean del 2013, ha posto l’accento sulla necessità di rilanciare la “Via della Seta marittima” per i paesi asean e di potenziare i propulsori di crescita per le regioni dell’entroterra.

La componente “belt” indica una cintura terrestre che comprende i paesi situati lungo la Via della Seta tradizionale, dall’Asia centrale e occidentale al Medio Oriente fino all’Europa. La componente “road” si riferisce alle rotte oceaniche della Via della Seta che collegano la Cina al Sudest asiatico, all’Oceania e all’Africa attraverso diversi bacini marittimi contigui: il Mare Cinese meridionale, l’Oceano Pacifico meridionale e l’Oceano Indiano, quindi il Mediterraneo. Nel loro insieme, i paesi situati lungo le rotte della Via della Seta rappresentano quasi due terzi della popolazione mondiale, e oltre un terzo della ricchezza del pianeta.

L’espressione “Via della Seta”, tuttavia, non è nuova. Storicamente, la cosiddetta Via della Seta risale all’antica dinastia Han (202-220 a.C.). Partiva da Chang’an (l’odierna Xi’an) e terminava nel Mediterraneo. Poiché la Seta era allora il principale prodotto commerciato dal paese orientale, intorno alla metà del XIX secolo, Ferdinand Von Richthofen, un geologo tedesco, coniò il termine Die Seidenstrasse (Via della Seta). Certo, non si trattava di una semplice strada, bensì di una rete di rotte commerciali che saldavano legami economici e culturali tra Cina, India, Persia, Arabia, Roma e paesi del Mediterraneo. La Via fiorì durante la dinastia Tang (618-907 d.C.) ma conobbe un rapido declino verso la metà del xv secolo, con l’ascesa dell’impero ottomano e dei suoi governanti ostili all’Occidente. Tuttavia, l’espressione “Via della Seta” è rimasta nell’immaginario con la sua misteriosa forza evocativa. Non a caso oggi molti preferiscono indicare la BRI come la Nuova Via della Seta cinese.

 

LA MAPPA DEI CORRIDOI ECONOMICI. All’inizio i dettagli sulla BRI erano piuttosto scarni. Tutto è diventato più chiaro nel 2015, quando il governo cinese ha pubblicato un Piano d’Azione intitolato “Visione e azioni sulla costruzione congiunta della cintura economica della Via della Seta e della Via della Seta marittima del xxi secolo”. Il documento è stato diramato in contemporanea dall’agenzia di pianificazione centrale cinese, ovvero la Commissione nazionale per lo sviluppo e le riforme, dal ministero degli Affari esteri e dal ministero del Commercio, con l’autorizzazione del Consiglio di Stato: segno che nel frattempo si era svolta un’intensa attività di consultazione e coordinamento a livello governativo.

Come illustrato nel Piano d’Azione, la BRI è un ambizioso programma economico volto a potenziare la connettività tra la Cina e i paesi disseminati lungo le rotte terrestri e marittime dell’antica Via della Seta (e non solo), principalmente in Asia e in Europa, ma anche in Oceania, Africa e America Latina. Lo stesso Piano definisce la connettività come caratterizzata da cinque punti focali: coordinamento politico, sviluppo infrastrutturale, facilitazione del commercio e degli investimenti, integrazione finanziaria, scambio socioculturale.Il piatto forte del menù sta però nei progetti infrastrutturali: strade, ferrovie, porti e aeroporti, pipeline per petrolio e gas naturale, reti e centrali elettriche e linee a fibra ottica. L’enfasi posta su tale aspetto riflette l’esperienza maturata dalla stessa Cina negli ultimi quarant’anni, condensata nel motto: “se vuoi diventare ricco, prima costruisci le strade”. In particolare, il Piano d’Azione prevede che tali progetti infrastrutturali siano sviluppati “in reciproca consultazione e collaborazione e con reciproco beneficio”, principi rimarcati durante il Belt and Road International Forum tenutosi a Pechino a maggio 2017, probabilmente per fugare i timori internazionali o sgombrare il campo da malintesi per cui la Cina farebbe della BRI uno show da solista.

Geograficamente, il cuore della BRI è strutturato in sei corridoi economici. Nello specifico, la Via della Seta marittima è concepita in funzione di due assi strategici: il corridoio economico Cina-Penisola indocinese (dalla Cina a Singapore passando per Vietnam, Laos, Cambogia, Thailandia, Myanmar e Malesia) e il corridoio economico Bangladesh-Cina-India-Myanmar. Gli altri quattro andranno a formare la cintura economica della Via della Seta: il nuovo ponte terrestre eurasiatico (che collegherà orizzontalmente la provincia cinese dello Jiangsu con Rotterdam in Olanda, attraversando più di trenta paesi), il corridoio economico Cina-Mongolia-Russia (dalla Cina settentrionale all’Estremo Oriente russo), il corridoio economico Cina-Asia centrale-Asia occidentale (dalla Cina occidentale alla Turchia passando per Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Uzbekistan e Turkmenistan) e il corridoio economico Cina-Pakistan. Questi sterminati corridoi economici mirano a facilitare il commercio, gli investimenti, il flusso di informazioni, il movimento di persone e la creazione di mercati e posti di lavoro in loco.

 

GLI INVESTIMENTI NELLE INFRASTRUTTURE. I primi numeri, seppur incompleti, sono significativi. Al Belt and Road Forum per la Cooperazione internazionale del maggio 2017 hanno preso parte alti funzionari di 140 paesi e 80 organizzazioni internazionali. La Cina ha firmato accordi intergovernativi di cooperazione nella cornice BRI con 80 governi e organizzazioni ed effettuato investimenti per oltre 50 miliardi di dollari nei paesi coinvolti nell’iniziativa. Gli investimenti cinesi in uscita verso i paesi BRI sono stati pari a 14,5 miliardi di dollari nel 2016, mentre quelli in entrata sono ammontati a 7,1 miliardi di dollari, con un saldo netto di 7,4 miliardi di dollari, in aumento del 17,5% rispetto all’anno precedente. Inoltre, le aziende cinesi hanno istituito 56 zone di cooperazione economica e commerciale nei paesi BRI con investimenti complessivi pari a 18,5 miliardi di dollari, creando qualcosa come 180.000 posti di lavoro locali (dati dei ministeri cinesi degli Esteri e del Commercio).
Secondo un rapporto della società di consulenza LehmanBrown, nel 2015 le aziende cinesi hanno firmato 3.987 contratti nel settore delle costruzioni, pari al 44,1% del valore complessivo dei progetti edili cinesi all’estero. E secondo uno studio Mckinsey & Company, il tasso di occupazione locale delle imprese cinesi in Africa svetta all’89%, a dimostrazione che le attività imprenditoriali della Cina all’estero sono ragionevolmente inclusive.Uno dei progetti più importanti è la ferrovia Nairobi-Mombasa. Si tratta di una linea di 471 km che collega la capitale del Kenya con il più grande porto dell’Africa orientale. La Cina ha investito 3,6 miliardi di dollari in quest’opera. La costruzione è iniziata a ottobre 2014, e la linea è stata inaugurata nel giugno 2017; sono stati creati quasi 30.000 posti di lavoro in loco, con un taglio del 40% dei costi di trasporto merci. Ed è solo il primo tratto di una più ampia rete ferroviaria che andrà a collegare sei paesi dell’Africa orientale: Kenya, Tanzania, Uganda, Ruanda, Burundi e Sud Sudan.

Un altro esempio è il corridoio economico Cina-Pakistan, una rotta di 3.000 km che attraversa le regioni sottosviluppate del nord del Pakistan. Parte da Kashgar, città dell’entroterra cinese, e termina a Gwadar, un porto d’acqua profonda affacciato sul Mar Arabico, collegando così l’hinterland della cintura della Via della Seta a nord alla Via della Seta marittima a sud. La Cina ha già investito 62 miliardi di dollari, metà dei quali destinati a progetti di elettrificazione per far fronte alla crisi energetica del Pakistan. Quando il corridoio sarà completato, il grosso delle importazioni petrolifere cinesi dal Medio Oriente, per esempio, non dovrà più passare per lo Stretto di Malacca: la distanza di trasporto si ridurrà drasticamente – da 16.000 a 5.000 km – e così pure i costi.

La nuova banchina del porto di Gwadar

 

Il caso dell’Hassyan Energy a Dubai mostra quelli che sono i meccanismi dei progetti energetici a partecipazione multipla. Con investimenti stimati in 3,4 miliardi di dollari, questa centrale a carbone pulito da 2.400 mw è frutto di una joint venture tra la Dubai Electricity & Water Authority (51%) e un consorzio cinese formato da Harbin Electric International e Silk Road Fund (49%). Il progetto ha lo scopo di fornire elettricità a 250.000 abitazioni. Alla costruzione hanno partecipato EDF, GE e Harbin Electric, e tra i principali finanziatori figurano la First Gulf Bank, la Union National Bank, la Standard Chartered Bank, la Bank of China, l’Industrial and Commercial Bank of China, l’Agricultural Bank of China e la China Construction Bank.

 

IL CAPITOLO DEI FINANZIAMENTI. Come già visto, la realizzazione dei progetti infrastrutturali della BRI richiede investimenti massicci e di lungo periodo. Probabilmente in molti casi sarà adottato il modello bto (build-transfer-operate) o il modello bot (build-operate-transfer), con le grandi aziende di Stato cinesi in prima linea, seguite però necessariamente da schiere di imprese più piccole. Fonti cinesi stimano gli investimenti complessivi per il periodo 2016-2020 in 10.600 miliardi di dollari. Pechino sembra decisa a svolgere un ruolo da protagonista (vedi figura 2), ma non è realmente intenzionata a giocare la partita da sola – e anche volendo non ne avrebbe la capacità. Anche le tasche della Cina hanno un limite, con il rapporto debito aggregato-pil del paese a quota 250%. Il Piano d’Azione mette nero su bianco che la BRI “è aperta alla cooperazione di tutti i paesi, e al coinvolgimento di organizzazioni regionali e internazionali”.

La fase esecutiva della BRI richiederà complessi strumenti finanziari: attività di investment banking, partecipazione di capitale privato, analisi dei rischi, rating creditizio e gestione di asset. A quanto pare, il governo cinese ha incentivato approcci ibridi, con un mix di risorse economiche nazionali e straniere, pubbliche e private, e il coinvolgimento di vari fondi e banche.

Il Silk Road Fund ne è un esempio. Con una dotazione complessiva di 40 miliardi di dollari, è stato istituito nel febbraio 2014 come società a responsabilità limitata di proprietà statale da quattro azionisti cinesi: la State Administration of Foreign Exchange (65%), che gestisce le riserve cinesi di valuta estera, la Export-Import Bank of China (15%), la China Development Bank (15%) e la China Investment Corporation (5%), il fondo sovrano di Pechino. A fine 2017 il Silk Road Fund aveva investito 6 miliardi di dollari (l’80% dei quali in azioni), e in particolare 1,65 miliardi di dollari nel progetto Karot Hydropower lungo il corridoio economico Cina-Pakistan. Soprattutto, nel 2017 il Silk Road Fund e il Fondo europeo per gli investimenti hanno firmato un memorandum d’intesa con l’impegno di investire 250 milioni di euro a testa in un fondo di private equity e venture capital.

 

LE NUOVE BANCHE MULTILATERALI. Tra i grandi finanziatori dei progetti BRI ci sono anche due istituzioni multilaterali come la New Development Bank (NDB) di Shanghai e l’Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB) di Pechino. La ndb è stata fondata nel luglio 2014 dai cinque paesi BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa) con un capitale iniziale di 50 miliardi di dollari – da portare, nelle intenzioni, a 100 miliardi – per finanziare progetti infrastrutturali. L’AIIB, una banca multilaterale di sviluppo, oggi conta 87 membri ufficiali in tutto il mondo, tra paesi ed entità economiche. Nato su iniziativa cinese, l’istituto è operativo dal gennaio 2016 con un capitale sociale di 100 miliardi di dollari, e fornisce project financing con e senza garanzie sovrane. Ispirandosi al motto “lean, clean and green” (leggero, pulito e verde), l’AIIB ha finora investito 5,34 miliardi di dollari in progetti in Azerbaigian, Bangladesh, Cina, Egitto, Georgia, India, Indonesia, Myanmar, Oman, Pakistan, Tagikistan, Filippine e Turchia. A integrazione dell’attività delle banche multilaterali di sviluppo esistenti, nel giugno 2017, in collaborazione con la Banca mondiale, l’AIIB ha tra l’altro erogato un finanziamento da 380 milioni di dollari per la costruzione di una centrale elettrica nello stato indiano dell’Andhra Pradesh. La Banca mondiale ha garantito il 60% dell’importo e l’aiib il 40%.

La Banca mondiale ha sostenuto la BRI a parole e nei fatti. Nel maggio 2017 ha messo a disposizione 86,7 miliardi di dollari per progetti di connettività e sviluppo nei paesi coinvolti. Nelle parole del presidente della Banca, Jim Young Kim, la “Belt and Road Initiative ha la potenzialità di ridurre i costi commerciali, aumentare la competitività, migliorare le infrastrutture e garantire una maggiore connettività all’Asia e alle regioni del suo vicinato”.

Il Fondo monetario internazionale tende sempre più a riconoscere la forza della Cina sul piano globale. Il 1° ottobre 2016, il renminbi è stato inserito dal Fondo nel paniere dei diritti speciali di prelievo, in aggiunta al dollaro statunitense, alla sterlina britannica, all’euro e allo yen. L’ingresso nel paniere sta rilanciando la credibilità del renminbi agli occhi degli investitori internazionali. In linea con l’internazionalizzazione della sua valuta, Pechino sostiene governi, istituzioni finanziarie e società straniere con un buon rating creditizio che intendono emettere obbligazioni in renminbi in Cina per contribuire al finanziamento dei progetti BRI.

 

EVITARE LA TRAPPOLA DI TUCIDIDE. Rispecchiando quella che è l’esperienza della Cina stessa, la BRI sembra prendere le distanze dai classici modelli di sviluppo che sollecitano riforme istituzionali (spesso con tutta una serie di condizionalità), e privilegiare invece un approccio più orientato agli investimenti e incentrato sulle infrastrutture, sulla creazione di posti di lavoro e sul commercio. Per molti è stata una novità ben gradita, come si evince dal lungo elenco di adesioni all’AIIB e dal nutrito e qualificato elenco di partecipanti al Belt and Road International Forum di maggio 2017.

Ma il bicchiere è sempre mezzo pieno e mezzo vuoto. La concretizzazione della BRI comporterà probabilmente dei rischi. La Cina è un’esordiente nel campo degli investimenti internazionali del XXI secolo e, in quanto tale, pagherà questa impreparazione. I progetti infrastrutturali transfrontalieri sono tra i più difficili da realizzare, poiché richiedono complessi e spesso lunghi negoziati su ipotesi di tracciati, diritti edificatori, finanziamenti e ritorni sugli investimenti. I paesi coinvolti nella BRI si trovano a stadi diversi di sviluppo, e i loro quadri normativi sono tutt’altro che uniformi (livelli di corruzione compresi). Alcuni di essi sono politicamente instabili, e molti restano ostili agli investitori cinesi per motivi di natura linguistica, istituzionale, culturale e perfino religiosa, che aumentano il rischio di percezioni distorte, malintesi o errori di calcolo.

L’esperienza indica, inoltre, che gli investimenti decisi o sovvenzionati dallo Stato, se realizzati in tutta fretta, tendono a generare cicli di forte crescita e repentina contrazione. La Cina è riuscita a superare vari cicli del genere in passato grazie alle caratteristiche peculiari del suo sistema politico ed economico e dei rapporti centro-periferia. Ma cosa succederebbe in contesti istituzionali diversi e transnazionali, specialmente in Stati deboli e caratterizzati da un proliferare di forti poteri locali? Sebbene sia troppo presto per emettere un giudizio definitivo, il rischio è evidente: se non ben gestita, l’intera operazione potrebbe rappresentare un boomerang capace di danneggiare la Cina. La BRI è veramente un work in progress e sta muovendo i primi passi; ma Pechino farebbe bene a stare in guardia, pronta a cogliere i primi segnali di situazioni problematiche.

Il rischio maggiore, tuttavia, non è economico ma geopolitico. A detta di molti osservatori, l’attuazione della BRI avrà probabilmente un effetto importante sull’architettura economica regionale – modelli di sviluppo infrastrutturale, commercio, investimenti, forniture energetiche, investimenti it, coordinamento politico e assetto istituzionale – e al tempo stesso implicazioni geostrategiche per la Cina, gli Stati Uniti e altri attori rilevanti come il Giappone, l’India e la Russia. Avendo boicottato l’AIIB, e considerando la BRI una minaccia potenziale al sistema internazionale a dominio statunitense, Washington ha tentato di recente di potenziare il ruolo del Quad, una partnership tra Stati Uniti, Australia, India e Giappone, concepita per contenere Pechino.

Il 18 dicembre 2017 l’amministrazione Trump, nella sua National Security Strategy, ha esplicitamente indicato la Cina, assieme alla Russia, come una potenza rivale e revisionista, da cui deriva nel lungo termine la minaccia più significativa alla posizione dell’America nel mondo. La guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina è già cominciata e nessuna delle parti intende cedere. L’incertezza aumenta. In questo scenario più ampio, per una Cina in ascesa la gestione dei rapporti tra grandi potenze – con la “trappola di Tucidide” in agguato (la crescita di una potenza emergente può essere percepita come minacciosa da una potenza egemone e avere così effetti destabilizzanti) – è e resterà la sfida più impegnativa.

 

 

*Articolo tratto da Aspenia 82