La Cina nell’inverno demografico
Il calo delle nascite, l’aumento della popolazione con 60 anni o più, e la diminuzione della forza lavoro preoccupano il governo cinese molto più della guerra commerciale con gli Stati Uniti di Donald Trump. L’inverno demografico che sta attraversando il Dragone, infatti, rappresenta il vero tallone d’Achille del gigante asiatico e potrebbe arrivare a compromettere la sua ascesa – nel 2030, secondo le stime, Pechino dovrebbe superare Washington e diventare la prima potenza economica mondiale in termini di PIL.
Nel 2017 la popolazione in età lavorativa della Cina è calata al suo livello più basso dal 2009 e per la prima volta dal 2010 è scesa sotto il miliardo di persone. Il calo è costante dal 2014 e sembra inesorabile. Secondo l’Ufficio nazionale di statistica cinese, gli uomini e le donne tra i 15 e i 64 anni alla fine dello scorso anno erano 998,3 milioni, contro la cifra di 1,0026 miliardi del 2016. La situazione continuerà a peggiorare negli anni: secondo le stime di Deutsche Bank, la forza lavoro cinese calerà a 848,9 milioni di unità nel 2020 e 781,8 milioni nel 2030.
Questi numeri sono la conseguenza diretta dell’invecchiamento della popolazione. Il numero di persone di età uguale o superiore a 65 anni rappresenta oggi l’11,4% su una popolazione totale di 1,39 miliardi di persone, in crescita rispetto al 10,8% del 2016 e all’8% del 2010. Se il trend demografico non muterà, nel 2050, la popolazione con 65 anni o più dovrebbe raggiungere il 24% del totale. Per avere un metro di paragone, nello stesso periodo negli Stati Uniti questa cifra sarà invece del 21%.
Per invertire il trend demografico le donne cinesi dovrebbero fare più figli, obiettivo che si sta rivelando più arduo del previsto da raggiungere per le autorità. Nel 1960 il tasso di natalità in Cina era di quasi sei figli per donna. Mao Zedong era solito dire che «con molte persone, la forza è grande». Nel 1979, però, quando è stata lanciata la famigerata legge sul figlio unico, Deng Xiaoping disse: “Dobbiamo farlo. Altrimenti la nostra economia non si svilupperà bene e la vita delle persone non migliorerà”. Pechino si è spesso vantata di aver impedito in 35 anni la nascita di 400 milioni di bambini, attraverso disincentivi economico-sociali, fino alle sterilizzazioni e agli aborti forzati. Ora però quei bambini farebbero molto comodo al governo, dal momento che nei primi anni Novanta il tasso di natalità è sceso al di sotto del tasso di ricambio generazionale, che è pari a 2,1 figli per donna. Se nel 1990 erano nati 28 milioni di bambini, nel 1999 ne sono nati appena 14 milioni. Oggi, secondo le statistiche ufficiali, il tasso di natalità è di 1,5 figli per donna, anche se secondo ricercatori indipendenti come Yi Fuxian sarebbe già sceso a 1,05 e gli studiosi più ottimisti ritengono che sia al massimo 1,3.
Anche se tardivamente, Pechino cerca da almeno cinque anni di migliorare la situazione. Nel 2013 il governo ha permesso alle coppie formate da due figli unici di avere due figli. Nel dicembre 2015 è stato esteso il permesso di avere due figli a tutte le famiglie. L’obiettivo del governo era quello di ottenere così tre milioni di nati in più all’anno fino al 2020 e aggiungere 30 milioni di persone in età lavorativa entro il 2050. Le cose però non sono andate esattamente come previsto, perché non c’è stato il baby boom sperato. Grazie ai nuovi permessi nel 2016 la Cina sperava di vedere la nascita di 20 milioni di bambini, circa 4 milioni in più dell’anno prima. Ne sono nati 17,86 milioni: un aumento consistente c’è stato, ma si è fermato a 1,31 milioni.
Allentare le maglie della legge non solo non ha fruttato un’inversione di tendenza nella misura auspicata: le nascite sono calate di nuovo nel 2017 a 17,23 milioni e ancora nel 2018 in misura considerevole a 15,23 milioni. E il futuro non è affatto roseo: nonostante si siano infittite le voci secondo cui il Partito Comunista abolirà del tutto il controllo delle nascite entro marzo 2020, si prevede che le donne di età tra i 22 e i 31 anni caleranno del 40% nel 2025 rispetto al 2015. Se le cose non cambieranno, la popolazione cinese si potrebbe più che dimezzare, fino a raggiungere appena 600 milioni nel 2100 rispetto agli 1,39 miliardi attuali. Con un calo così drastico della popolazione, non potranno che abbassarsi anche le ambizioni del paese ed è per questo che la propaganda sta aggiornando gli slogan.
Sui giornali non è infrequente ormai leggere annunci del tipo: “Assicuratevi di non perdere gli anni migliori per restare incinte”. Ma gli slogan non bastano per invertire un trend ormai consolidato: quasi 40 anni di legge sul figlio unico hanno creato una mentalità. E c’è da aggiungere che la crescita della ricchezza ha accompagnato, in tutte le aree del mondo, nelle varie epoche in cui si è verificata, un calo della fertilità. Oggi in Cina avere più di una gravidanza è considerato un ostacolo per la carriera e il costo delle case e della vita spinge le coppie a non allargare la famiglia. Secondo un recente sondaggio condotto da Zhaopin, uno dei principali siti cinesi di reclutamento professionale, il 40% delle persone censite senza figli ha dichiarato di non volerne e il 63% delle donne con un figlio ha detto di non desiderarne un secondo.
Il declino demografico preoccupa il governo principalmente per tre ragioni: l’aumento dei salari, il calo della produttività (che, a certe condizioni, potrebbe seguire al calo della forza lavoro) e la crescita incontrollabile del costo delle pensioni. Il punto principale è che quando la forza lavoro si riduce, i salari aumentano, e sempre meno giovani accettano di fare lavori poco remunerativi e di scarsa prospettiva. Se oggi 132 milioni di cinesi, circa il 10% della popolazione, hanno stipendi medio-alti o alti, nel 2030 saranno 480 milioni (35%). Questo significa che in futuro l’economia del Dragone dovrà cambiare e non potrà più basarsi sulla manifattura a basso costo; non a caso il made in China si sta già ridimensionando a vantaggio del made in Vietnam, o Pakistan o Indonesia.
Ed è proprio guardando al fattore demografico che Moody’s ha declassato il rating sovrano della Cina nel maggio 2017. Secondo l’agenzia di rating, la cura del crescente numero di anziani prosciugherà i risparmi delle famiglie cinesi e assorbirà una quota sempre maggiore del bilancio statale, rendendo più difficile per Pechino ripagare il suo debito. La crescita del PIL cinese, secondo Moody’s, potrebbe calare al 5% già nei prossimi cinque anni, contro il 6,9% del 2017 – tendenza che peraltro dipende da vari altri fattori, ma che si combina ai fattori demografici nei calcoli del governo.
La spesa pensionistica appare come un rebus senza soluzione. La Cina è uno dei paesi con la più bassa età pensionabile al mondo (55 anni di media) e il Partito Comunista, che fonda la sua legittimità sulla capacità di migliorare la vita del popolo, non sembra avere alcuna intenzione di intraprendere il provvedimento impopolare di aumentarla. Intanto, secondo i dati del Ministero delle Finanze, già dal 2014 il sistema pensionistico cinese non è più in grado di pagarsi da solo. Nel 2016, le pensioni sono costate alla Cina 2.500 miliardi di yuan (542 miliardi di dollari), il 140% rispetto a cinque anni prima. Per coprire il buco creato da entrate troppo basse, lo Stato è dovuto intervenire con un assegno da 429,1 miliardi di yuan. La cifra crescerà a 890 miliardi di yuan nel 2020 secondo Wang Dehua, ricercatore presso la National Academy of Economic Strategy di Pechino. In base a una stima pubblicata nel 2012 da numerosi esperti, tra cui Ma Jun, che ha gestito la politica monetaria della Banca del popolo della Cina, la spesa pensionistica potrebbe raggiungere nel 2050 i 60 mila miliardi di yuan. Se nel 2016 la spesa pensionistica rappresentava il 3% del budget statale, nel 2050 potrebbe drenare fino al 20% delle risorse: un livello superiore a quello attuale dei paesi europei con spesa pensionistica più alta, Italia e Grecia.
«Se la Cina corre un serio rischio fiscale in futuro, questo è rappresentato dalle pensioni», spiega Wang, il cui istituto è gestito dall’Accademia cinese delle scienze sociali, think tank numero uno del governo. Se Pechino non risolverà il suo dilemma demografico, la sua ascesa rallenterà fino a fermarsi e anche il sorpasso sugli Stati Uniti nella classifica del PIL potrebbe non verificarsi mai.