La Caporetto russa a Kherson
Kherson è una città simbolo di questa guerra. Ma al contrario di ciò che sembrò all’inizio e che si credette a lungo, un simbolo della riscossa ucraina. La città che sorge sulla via d’acqua che collega il Dnepr al Mar Nero è il primo capoluogo liberato delle quattro regioni (parzialmente) occupate e “annesse” mediante referendum dalla Russia. Annessioni farsa, ricordiamolo: all’arrivo degli ucraini la popolazione è scesa in massa a festeggiare nelle strade, mentre secondo il Cremlino l’87% degli abitanti avrebbe votato per unirsi alla Russia, neanche due mesi fa. Fu occupata proprio all’inizio dell’invasione: dopo pochi giorni le truppe russe, dirette su Odessa (nel punto più ad Ovest della lunga costa ucraina del Mar Nero), entrarono a Kherson dalla Crimea, e furono poi fermate nei pressi della vicina Mykolaiv, dove si stabilizzò la linea del fronte.
La linea non si è mossa in maniera significativa per mesi. Finché gli ucraini, alla fine di agosto, hanno fatto capire non solo di saper fermare l’avanzata russa, e difendersi in maniera efficace, com’era chiaro da mesi, ma anche di poter ribaltare l’andamento della guerra. Kherson era vicina al fronte, a Kherson c’erano i partigiani che si opponevano alla russificazione politico-culturale forzata, Kherson è sulla via della Crimea: la tanto annunciata controffensiva ucraina sembrava destinata proprio lì, dove l’esercito russo schierava alcuni dei suoi reparti migliori. Si è concentrata invece sul fronte nord-orientale, a est di Kharkiv e verso il Donbass, dov’è effettivamente andata avanti macinando successi. La liberazione di Kherson è arrivata due mesi dopo, e non è stata il frutto di un’avanzata militare contrastata, ma del ritiro unilaterale russo.
Si tratta di due passaggi cruciali della guerra per l’Ucraina. Non si metterà mai abbastanza in evidenza il valore della controffensiva di settembre nel nord-est, lanciata mentre Vladimir Putin e il Cremlino rispondevano con l’ordine “non un passo indietro”. Sì, perché un regime di stampo fascista, nazionalista e guerrafondaio come quello putiniano non può permettersi una sconfitta militare. Men che meno una sconfitta ad opera di un Paese considerato inesistente, inventato, inferiore. In una guerra pensata, con la logica di una rissa fuori da un bar, per ribadire la propria superiorità in termini di forza bruta a tutti gli altri Stati della zona, quelli limitrofi, quelli da cui ci si aspetta obbedienza. “O si fa come dico io o spacco tutto”, e ve lo dimostro in Ucraina.
Ma le lande del nord-est ucraino hanno testimoniato di una vera e propria rotta, un disastro in cui truppe poco motivate, inesperte, male equipaggiate e mal dirette sono state mandate allo sbaraglio, abbandonate, spesso semplicemente lasciate a morire nei più assurdi dei modi. Uno shock che non a caso è coinciso col parossismo della minaccia nucleare russa. I russi su quel fronte sono arretrati di 150 km in pochi giorni. 150 km: la distanza della ritirata italiana dopo Caporetto.
La loro minaccia è apparsa ridicola, patetica, miserabile a un’osservazione razionale. Ma certo, si tratta della minaccia di utilizzare armi che possono cancellare centinaia di migliaia di persone in un attimo, lasciare ferite indelebili sul pianeta, un evento che segnerebbe una disfatta morale per l’intera civiltà umana: il Cremlino ha pensato che questa sarebbe stata una risposta proporzionata alla perdita di Kupjansk e Liman, due sobborghi tra Kharkiv e Luhansk per cui i combattimenti sono stati molto accesi. Lo ha fatto perfino per bocca del capo delle milizie cecene, Kadyrov, il che è molto eloquente tanto sullo squallido stato dell’esercito russo (chi prende le decisioni? un miliziano vale quanto lo stato maggiore delle Forze Armate della Federazione Russa?), quanto della salute del sistema di potere putiniano, quanto ancora, però, anche della credibilità della minaccia stessa. In ogni caso, l’eventualità dell’impiego dell’arma definitiva non può essere presa sotto gamba da nessuno, né tanto meno la razionalità può esserne l’unico criterio di analisi.
Leggi anche: Armi di distruzione di massa e deterrenza: non solo una soglia nucleare
Si è detto molto, soprattutto in Europa, di queste minacce. Per esempio: attenzione ad aiutare l’Ucraina, il risultato è la guerra atomica. L’Ucraina doveva arrendersi subito. L’Ucraina non doveva contrattaccare. Gli ucraini sono un po’ troppo guerrafondai, provocano la Russia. Putin e la storia del topo nell’angolo. Bisogna trattare, anche se Putin in nove mesi non ha mai messo una proposta negoziale sul tavolo, e invece ha minacciato di polverizzare l’Ucraina: trattare. Va bene contrattaccare però attenzione a non umiliare Mosca, tirate il freno a mano, procedete con juicio. Non si deve attaccare il territorio russo; e dove arriva il territorio russo? Dove dice il Cremlino. Crimea, Donbass, Kherson. Se fosse andata bene, anche Kiev e Odessa. Lo diceva già Tito Livio: “lo spazio di Roma è tutto il mondo” – cioè, fin dove arrivano i legionari.
A dimostrare l’importanza cruciale della controffensiva ucraina, queste linee teoriche piuttosto contraddittorie hanno accompagnato un ribaltamento militare che nella testa di molti era del tutto impossibile. Alla fine dell’avanzata ucraina, le bombe atomiche minacciate a giorni alterni non sono arrivate. La centrale di Zaporizhzhia non è stata fatta saltare in aria – né quotidianamente attaccata, come prima. Il Cremlino si è dedicato ad altri due compiti urgenti: trovare disperatamente altri uomini da mandare al fronte, e organizzare il ritiro da Kherson in modo che non si trasformasse in un’altra rotta.
Allora cos’erano, queste minacce nucleari? Parlarne ci aiuta a capire la natura del regime russo. Di risposte ce ne sono molte. Minacce per incrinare la tenuta dell’Unione Europea sulle sanzioni al gas russo, all’apertura dell’inverno, e sull’invio di armi all’Ucraina, facendo pressione sull’opinione pubblica: è una spiegazione logica. Non hanno funzionato. L’inverno è arrivato, nulla è cambiato. Minacce elettorali che influenzino l’opinione pubblica nelle arene politiche europee: Mosca è destinata a pagare amaramente – lo sta già facendo – il loro allineamento sulla posizione americana, ma fino a poco tempo fa Putin contava molti amici nei governi europei. E al Cremlino, da sempre, sono consci della propria proiezione internazionale e sanno che il mondo non finisce alla tangenziale di Mosca.
D’altronde, la ritirata da Kherson è iniziata appena chiuse le urne americane per le elezioni di Midterm. Una coincidenza temporale che non può passare inosservata. L’Ucraina è stato tema di campagna negli USA, con i trumpiani che promettevano di chiudere rapidamente il conflitto e mollare l’Ucraina, una volta azzoppato Joe Biden. In effetti, ritirarsi da Kherson prima del voto non avrebbe aiutato l’argomento trumpiano “è inutile insistere in Ucraina perché la Russia è troppo forte”. Oppure “stiamo sprecando i nostri soldi”.
I risultati del sostegno americano sono enormi, ed è un successo di Biden. Con Donald Trump alla Casa Bianca non sarebbe mai successo (né naturalmente gli Stati d’Europa si sarebbero unita su una singola, problematica posizione tanto a lungo): Putin ha cercato di aiutare il suo amico a tornare in pista per la rielezione rinviando il più possibile la ritirata. La ritirata è stata tenuta ferma finora per ordine espresso di Putin, i suoi generali lo imploravano da mesi. Poi il solito gerarca è andato a prendersi le colpe in tv: colpa mia la ritirata, Putin non ne sapeva nulla: i boss non si ritirano. Rappresaglie nucleari per la perdita di un capoluogo che era stato dichiarato pochi giorni prima “Russia per sempre”? No, a novembre no. Forse perché sugli americani quelle minacce potevano non avere lo stesso effetto.
Leggi anche: Ucraina: il fronte interno di Biden
Ma c’è anche un altro fattore che spiegherebbe l’impennata di minacce atomiche in coincidenza della controffensiva di settembre e di altri momenti chiave, e poi basta. Specificando per cominciare che non si è mai visto l’utilizzo di un’arma di distruzione di massa minacciato, minacciato e ancora minacciato. Rende chiaro che il punto non è il fatto in sé, ma la paura che accada. E’ quella che fa effetto – ma non per sempre.
Insomma, l’avanzata degli ucraini deve aver davvero spaventato un regime ormai paranoico e isolato come quello del Cremlino, in cui il capo è rimasto circondato soltanto da persone pronte a dargli ragione. Che infatti ha reagito con l’ordine folle della mobilitazione immediata di 300mila soldati, probabilmente temendo il crollo completo del fronte. Folle perché i soldati sono stati mandati a combattere senza addestramento, senza sapere dove e come, all’unico scopo di frapporre i loro corpi alla disfatta militare. Come spiegarlo? Per esempio, rileggendo le cronache dei deliri dei dittatori alle prese appunto con gravi sconfitte militari; circondati da stati maggiori incapaci o del tutto proni al loro volere. Hitler e Mussolini: mentre le loro armate venivano disfatte, i loro paesi smembrati, i loro concittadini uccisi a milioni, i due dittatori vaneggiavano di armi segrete, di ritirate strategiche, di arretramenti tattici, di nuove riserve di uomini e mezzi da impiegare… E lo facevano sui propri diari, o parlando con gli amici, non semplicemente per mentire ai loro sudditi: lo facevano per convincere e rassicurare per primi sé stessi. L’impennata paranoica di minacce nucleari da parte della Russia, dunque, potrebbe essere stata prodotta dalla reazione psicologica di panico di un regime che per la prima volta era stato costretto a guardare nel profondo della sua estrema fragilità, e vi aveva scorto l’abisso della sua fine.
La ritirata da Kherson – per quanto disastrosa dal punto di vista strategico e morale – è stata gestita e pilotata “a freddo” da Mosca. E infatti non è stata accompagnata da minacce di olocausto nucleare. Il perimetro coperto dai soldati russi è stato gradualmente ridotto, i civili sono stati evacuati in ordine, la distruzione delle infrastrutture è stata meticolosamente controllata: la città è senz’acqua, energia elettrica, ripetitori telefonici, ma almeno non c’è stata nessuna carneficina. Per il bene di tutti, non possiamo che accogliere questo “progresso” da parte di Putin e dei suoi. Qualcuno a Mosca ha preso una bilancia, ha messo su un piatto l’opzione di dare battaglia agli ucraini a Kherson (città dove solo il 20% della popolazione è etnicamente russo, benché metà degli abitanti ormai siano fuggiti o deportati) e sull’altro una fuga in buon ordine. La seconda si è rivelata quella più sensata, e la novità è che è stata seguita. Una nuova rotta come quella di settembre avrebbe potuto mettere a repentaglio l’intera guerra. E le dittature non sopravvivono alla sconfitta militare. Meglio attestarsi su posizioni più sicure e continuarla, la guerra: perché rinviare la sconfitta, allo stato attuale, è la vera assicurazione sulla vita di Putin.
Per questo parlare di trattative continua ad apparire abbastanza irreale. L’interesse principale delle parti è continuare il conflitto. Per l’Ucraina, fino a liberare tutte le terre invase il 24 febbraio. Per Putin, perché negoziare una resa che riportasse tutto come prima, dopo aver sacrificato centinaia di migliaia di uomini, i mezzi e il prestigio militare, la reputazione internazionale, i contratti energetici, l’economia del paese, le vite di milioni di persone fuggite dalla patria, è inconcepibile.
In relazione alla ritirata da Kherson, il filosofo e politologo russo spesso amico del regime Alexander Dugin ha commentato che stia bene attento Putin: la Russia è un’autocrazia, ma il popolo potrebbe sempre fargli fare la fine del Re della Pioggia, sciamano squartato dai suoi sudditi stufi di attendere temporali che non arrivavano. Dalla situazione attuale, sembra proprio che se la guerra finirà, finirà anche Putin. E solo allora verrà la pioggia.