La bussola complicata della nuova Premier britannica
La nomina di Liz Truss a nuovo Primo Ministro del Regno Unito non ha creato particolare stupore. Già da agosto i principali sondaggi la davano come favorita alla successione di Boris Johnson rispetto allo sfidante, il ministro delle Finanze Rishi Sunak. In effetti, nonostante solo un anno fa Rishi Sunak fosse tra i politici più popolari del Paese, negli ultimi mesi aveva perso punti agli occhi del partito conservatore, che ha potuto nominare il nuovo Primo Ministro, visto che la caduta di Johnson non ha comportato lo scioglimento della Camera.
A costare cara a Sunak non sembra sia stata la sua estrema ortodossia fiscale nell’affrontare la crisi economica e nemmeno la sua stessa immagine di ricco privilegiato. A pesare sul supporto dei Conservatori è stata l’idea che Sunak, un brexiteer di prima leva, abbia tradito la causa della Brexit, abbattendo Boris Johnson, l’eroe per antonomasia della fuoriuscita britannica dall’UE. L’ironia della sorte ha fatto sì che la Truss, che prima di entrare al governo era una remainer, sia oggi molto apprezzata tra i brexiteer del partito grazie ad alcuni accordi commerciali, come quello con i paesi del CARIFORUM, con Israele, Svizzera, Corea del Sud etc., stipulati nella sua veste di ministra del Commercio Internazionale nel 2019. I Tory, d’altronde, sono oggi dominati dalla componente anti-UE.
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Brexit a parte, la difficile congiuntura politica ed economica in cui il Regno Unito versa renderà la premiership della Truss un viaggio non facile. A Nord, la Truss dovrà gestire le mire indipendentiste dello Scottish National Party (SNP), deciso ad indire un secondo referendum sull’indipendenza nel 2023. Certamente, la Truss ed il suo governo cercheranno di siglare un nuovo patto economico con la Scozia, puntando sui problemi finanziari di Edimburgo. Ad oggi gli scozzesi hanno un deficit della spesa pubblica di quasi 2.200 sterline a testa, coperto al momento da Westminster. Tuttavia, secondo i dati di Ipsos Scotland, uno scozzese su due non si fida del governo britannico, è convinto che Westminster non faccia i suoi interessi e che la Brexit sia stata un errore.
Proprio perché pensa di vincerlo, la Prima Ministra scozzese Nicola Sturgeon sembra essere ferma sulla volontà di indire un secondo referendum, anche senza la necessità di avere un’autorizzazione formale da parte del governo del Regno Unito che ha invece impugnato la legge istitutiva del plebiscito, IndyRef2. La questione è al momento nelle mani della Corte Suprema del Regno Unito che si esprimerà a breve. Tuttavia, anche in caso di parere negativo, la Sturgeon è convinta che il suo partito si presenterà alle prossime elezioni del Regno Unito nel 2024, con un programma elettorale basato esclusivamente sull’indipendenza della Scozia, rendendo le elezioni un plebiscito de facto.
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Oltre la spinosa questione scozzese, a Ovest, rimane aperta quella dell’Irlanda. Dopo la Brexit infatti, il governo inglese ha dovuto adottare con Bruxelles accordi commerciali speciali per l’Irlanda del Nord, perché questa ha un confine terrestre con un paese dell’UE: la Repubblica d’Irlanda. Dal momento che porre un confine tra Irlanda e Irlanda del Nord era impensabile vista la travagliata storia politica irlandese, avrebbe isolato l’Ulster e avrebbe messo anche a rischio il Good Friday Agreement, l’accordo di pace tra i due paesi firmato nel 1997, il Protocollo dell’Irlanda del Nord prevede che i controlli di frontiera vengano fatti nelle dogane dei porti tra Irlanda del Nord e Gran Bretagna.
Questo però presuppone che l’Irlanda del Nord continui ad applicare regole europee, privando il paese di un certo livello di indipendenza ed inoltre separando, almeno a livello amministrativo, l’Irlanda del Nord dal resto della Gran Bretagna. Per questo motivo, il governo inglese sta tentando di riscrivere il protocollo, e una legge specifica, la Northern Ireland Protocol Bill, sarà discussa dalla Camera dei Lord nelle prossime settimane. Questo sarà il vero banco di prova per il nuovo premier Truss, che potrà verificare la sua forza persuasiva. La discussione, tuttavia, sarà anche unica nel suo genere visto che nella Camera dei Lord raramente vengono rifiutati testi di legge approvati dalla democraticamente eletta Camera dei Comuni.
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Ma è sul fronte Sud che la Truss dovrà affrontare una lunga battaglia con l’Unione Europea su questa questione, con Bruxelles che accusa Londra di non voler rispettare un accordo internazionale già siglato. C’è sicuramente il rischio di un inasprimento di rapporti, in un momento in cui la congiuntura internazionale e non da ultimo la guerra in Ucraina richiede forte cooperazione tra i paesi occidentali.
In effetti, a Est, anche la questione dell’invasione russa rimane molto onerosa per il Regno Unito. Da un lato, la Truss teme che alcuni governi del vecchio continente, alla lunga, possano cedere ai ricatti energetici di Vladimir Putin, cercando di trovare accordi convenienti anche a scapito dell’Ucraina. Dall’altro, il Regno Unito sta fornendo un grande supporto militare all’Ucraina, il cui costo rimane sulle spalle dell’elettorato inglese, già piegato dal Covid, dalla più recente inflazione e dai costi esorbitanti di materie prima ed energia. Infatti, nonostante il Paese non dipenda dall’energia russa, da cui importava solo il 4% del gas, la sua economia è comunque fiaccata dall’aumento dei costi. In particolare, il costo dell’energia, che è triplicato, assieme a inflazione e disoccupazione sta avendo un impatto senza precedenti sui trend socio-economici. Secondo i dati del Parlamento britannico, nel 2022/2023 la fetta più povera della società vedrà un calo delle entrate pari al 6%, i livelli di povertà assoluta cresceranno al 17% nel 2022 e al 18% nel 2023, coinvolgendo circa 1,3 milioni di cittadini di cui 500.000 bambini.
A fronte della crisi economica, la ricetta del nuovo Primo Ministro, già battezzata Trussonomics, si basa su una diminuzione delle tasse e sull’introduzione di agevolazioni fiscali per le famiglie. La Truss è inoltre contraria a tassare le società energetiche che stanno facendo profitto extra, ma è decisa ad aumentare la spesa pubblica per la difesa a 2,5% del PIL. Questa manovra però costerebbe 3 miliardi di sterline all’anno, con un aumento del debito pubblico e quindi degli interessi sul debito in un momento in cui la crescita del Regno Unito, la quinta economia più importante al mondo, va a rilento. Se il PIL della Gran Bretagna è arrivato a toccare un -10,3% nel 2020, con una ripresa nel 2021 a 3,3%, questa crescita si attesterà al 2.2% nel 2022 secondo i dati della Commissione europea. Si tratta di dati economici tra i peggiori, nell’arco 2020-22, di tutto il continente europeo.
Sembra quindi che sarà un inverno lungo per Liz Truss, che avrà bisogno di una buona bussola non solo per traghettare il suo Paese fuori da una recessione che secondo la Banca d’Inghilterra è ormai alle porte, ma anche per gestire crisi politiche aperte su tutti i fronti.