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La battaglia elettorale dei meme digitali

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Dodici anni fa Barack Obama ha vinto le elezioni presidenziali con la forza della rimonta, “come-from-behind”, battendo il senatore dell’Arizona John McCain, e prima ancora, nel rush finale delle primarie, sconfiggendo un brand chiamato “Clinton”. In entrambi i casi è stato un trionfo costruito su una forte presenza social (dunque digitale) ma anche socialmente radicata, capace di intercettare e inglobare stimoli e contributi dalla comunità contro un mondo politico analogico, fatto di establishment, vecchi merletti e un marketing relazionale one-to-one.

 

Campagne digitali

Il segnale era arrivato proprio durante le primarie democratiche del 2008, alla vigilia del Super Tuesday, giorno in cui va al voto il maggior numero di stati. Quella sera, lo staff del futuro primo presidente afro-americano decideva di rilanciare sulla homepage del sito della campagna il brano musicale “Yes we can” di Will.I.am, fondatore dei Black Eyed Peas, che aveva già fatto 1 milione di visualizzazioni in un giorno su Dipdive e Youtube. La campagna di Hillary Clinton invece portava a casa la miseria di 250mila visitatori unici, per un’ora in prime time acquistata a caro prezzo su Hallmark Channel.

Mettendo in evidenza quanto i media tradizionali fossero basati sulla gerarchia, il controllo e l’autorità, mentre il mondo digitale stava lì a dimostrare l’importanza di una base radicata, della partecipazione e dell’autenticità, Obama ha letteralmente polverizzato la mummificata struttura tecnologica democratica. E ha anche spinto il Grand Old Party a cercare rimedi in quei pochi nerd simpatizzanti repubblicani che potessero colmare un “divide” fatto da poche ma essenziali idee: il cambiamento, il senso della comunità, la speranza e l’uscita dal buio (sociale, economico, culturale). Rimedi che il National Republican Committee ha cercato di risolvere con Targeted Victory, società di consulenza digitale.

Nel 2012, quattro anni più tardi, dopo aver portato all’interno dell’amministrazione Hillary Clinton nel ruolo di segretario di Stato, Obama ha vinto ancora, contro il candidato repubblicano Mitt Romney, e l’arma che lo stesso Senatore dello Utah credeva invincibile e segreta: un software per tracciare i voti degli americani, andato in crash proprio nel giorno delle elezioni. ORCA project, questo era il suo nome, avrebbe dovuto digitalizzare le liste dei votanti, tramite l’app appositamente creata, individuare chi aveva votato o meno, e cercare di contattare le persone che ancora non avevano votato e incoraggiarli a farlo.

Poi nel 2016 è arrivata la sveglia. Donald Trump è diventato presidente degli Stati Uniti vincendo una le battaglie più determinanti: non ha solo sconfitto Hillary Clinton per 80mila voti di scarto in tre stati chiave (Wisconsin, Michigan, Pennsylvania), ma ha conquistato la rete. Ha ammantato di retorica populista gli annunci a pagamento su Facebook, ha riposto nell’ombra il cambiamento e la speranza obamiani, ha costruito una base di sostenitori ed elettori con messaggi incendiari, ha intossicato il dibattito pubblico, glorificato l’iper partigianeria e mortificato ogni avversario o interlocutore con un’idea diversa dalla sua.

“Lock her up” (“In galera”), uno degli slogan della campagna Trump contro Hillary Clinton nel 2016

 

E non è stata una battaglia di partito, ma tutta personale. Già in campagna elettorale, Trump si è schierato contro l’establishment Repubblicano, riuscendo a espugnare il GOP alle primarie e portandolo con la forza dalla sua parte. E in tre anni di amministrazione, il Presidente ha governato via Twitter, lasciando i democratici a sussultare sulla sedia e costruendo attorno allo scontro, all’odio, al risentimento e alla paura la sua narrazione.

Per una sorta di legge di Murphy dell’algoritmo, lo “yes we can” obamiano, che parlava a ed era parte della comunità, è stato ribaltato in una serie di  slogan di lotta e divisività, emblematicamente rappresentati da quelli con cui Hillary Clinton ha costruito la sua campagna presidenziale 2016: “I’m with Her”, “Fighting for us” e non ultimo per importanza “Love trumps hate”.

 

Che fine ha fatto il “noi”? 

Non è bastato l’accenno all’amore e l’incitamento alla battaglia per uscire dal buio in cui gli americani si sono sentiti precipitare durante la lunga crisi economica. Come il regista Oliver Stone fa dire ad Anthony Hopkins nei panni di Richard Nixon, nell’omonimo film, “People vote not out of love, but fear”. E questo Trump non solo lo ha capito ma lo ha messo in pratica con lungimiranza.

Con l’enorme differenza che nel 2008 la rete era strategia e cultura, un modo per affacciarsi sul mondo e stare in ascolto, mentre ora il confronto è sottomesso alla tecnologia, al marketing, al sistema di distrazione di massa rappresentato dalle fake news, che pesano spesso di più più della cultura e dell’informazione che si vuol far passare in rete.

La campagna 2020 che sta ora per partire potrà giocarsi e continuare a nutrirsi sulla paura, la negazione del confronto con l’altro, l’indignazione. A meno che il candidato o la candidata Dem, che sarà scelto nelle primarie che inizieranno il prossimo 3 febbraio in Iowa, riesca a far tesoro dell’eredità obamiana, in parte raccolta dalla cosiddetta “blue wave che ha portato al Congresso alcuni democratici più radicali nelle recenti elezioni di medio termine. Al lascito di tecnologia e strategia si dovranno aggiungere tempo, soldi e l’ardire di ricostruire una narrazione autenticamente progressista.

 

Follow the money

Partiamo dai soldi, un fattore apparentemente meno problematico.

Le campagne di pubblicità digitale sono fondamentali per i candidati perché consentono loro di intercettare i grandi donatori e i finanziatori più piccoli che sosterranno la corsa elettorale. Più soldi si riescono a raccogliere in questa prima fase, maggiore sarà la possibilità di conquistare il voto popolare e del partito nei vari caucus e primarie.

Tra i dieci candidati Dem che si sono sfidati al quinto ed ultimo dibattito di novembre, 4 sono i favoriti: Joe Biden, Elizabeth Warren, Bernie Sanders, Pete Buttigieg, ai quali si è aggiunto in extremis anche Michael Bloomberg. All’inizio dell’autunno, secondo un’analisi di Wesleyan Project, i tre candidati top – Biden, Warren, Sanders – hanno speso, complessivamente, 15 milioni di dollari per il “digital advertising” su Facebook e Google mentre Trump, da solo e nello stesso arco di tempo, ne ha spesi 15,9.

In questo studio però non era stato ancora considerato Michael Bloomberg, sceso nell’agone delle primarie a fine novembre con l’idea di non partecipare alle primarie di febbraio in Iowa, New Hampshire, Nevada e South Carolina. A differenza dei quattro però, il miliardario ex sindaco di New York, che sta tentando di rivolgersi ad ambedue gli elettorati democratici e repubblicani proponendosi come un candidato di centro, ha già speso 18 milioni di dollari su Google e Facebook. Il suo obiettivo retorico è attaccare Trump, e il pubblico su cui vuole fare leva è il blocco degli over 65 e i veterani di guerra.

 

Video promozionale di Michael Bloomberg, diretto all'"America dimenticata"

 

 

Tara McGowan, che ha fatto parte del team digitale per la campagna di Obama 2012, è autrice di questa analisi con la sua società di digital strategy Acronym. Ora potrebbe mettersi al servizio del candidato Dem più promettente.

In ogni caso, i denari certamente non mancano al magnate e la Casa Bianca si conquista solo se hai alle spalle grandi finanziatori o una rete di contributori, piccoli ma tenaci, come li aveva Obama e forse oggi solo Sanders e Warren. Bloomberg, che ha già tentato la scalata nelle primarie repubblicane del 2016, questo lo sa bene, per questo non bada a spese: 128 sarebbero i milioni già investiti per l’advertising televisivo, su una previsione di spesa di 300-400 milioni di dollari, secondo Advertising Analytics. Mentre secondo la sua agenzia di stampa internazionale, Bloomberg News, l’ex sindaco di New York ha comprato spazi tv per 136 milioni di dollari su un totale di 155,3 milioni complessivi per la campagna.

Tuttavia i soldi di Bloomberg sono un’arma a doppio taglio per gli altri candidati: ad esempio hanno portato Elizabeth Warren a dichiarare che “Queste elezioni non dovrebbero essere in vendita”. A lei ha fatto seguito Bernie Sanders, dicendo che Bloomberg “Vuole comprare le nostre elezioni”, alludendo alla capacità dei grandi donatori di influenzare le scelte politiche dei candidati – accusa che aveva già funzionato contro Hillary Clinton. Lo stesso Sanders ha poi fatto sapere di poter arrivare a raccogliere oltre un miliardo di dollari, tramite la rete capillare dei suoi piccoli sostenitori, superando anche i grandi donors di Trump.

Ma la questione ha anche riaperto il dibattito sull’opportunità di una campagna digitale davvero aggressiva e ardita. Al di là dei budget personali dei candidati, il vero problema resta la percentuale di spesa investita in digital advertising e la volontà di farlo: secondo un’analisi di Opensecrets, gruppo di ricerca no-profit che traccia i flussi di denaro nella e della politica americana, su 100 milioni di spesa per annunci elettorali online, 35 provengono da Trump o da gruppi esterni di supporto alla sua campagna. Una bella fetta di torta, a confronto con i singoli candidati Dem. In quella che sembra profilarsi come una vera e propria guerra, l’American Action Network, no-profit vicina al GOP, ha lanciato una campagna digitale contro l’impeachment – spendendo due milioni di dollari in una sola settimana.

 

Tempo, profilazione e micro-targeting

Trump ha almeno altri due vantaggi, non solo temporali. Il primo è che non ha veri rivali nel partito nella corsa alla rielezione e quindi il suo staff e lo stesso Republican National Committee hanno potuto dedicare più tempo e risorse a collezionare dati connessi alla popolarità del Presidente; testare modelli, scandagliare in profondità la rete. E infatti l’altro vantaggio insiste proprio su questo aspetto ed è difficile da colmare: più dei tre anni di Presidenza in cui ha infiammato il dibattito, togliendo terreno al confronto, pesa maggiormente lo strumento di “microtargeting” che il suo team ha costruito per l’acquisizione dei dati, con lo scopo di identificare e mobilitare i supporter. Un sistema basato – come ammette in uno specifico passaggio la “privacy policy” del sito per la campagna di Trump – sulle informazioni di localizzazione degli utenti, che consente di acquisire dettagli sui potenziali elettori, raggiungendoli e ingaggiandoli con messaggi personalizzati. Il sistema sfrutta infatti non solo la pura e semplice geo-localizzazione ma la riconnette agli altri dati dell’utente, forniti da terze parti, che ne hanno dipinto un ritratto accurato.

Per gli esperti questo ha un nome specifico: Mobile Advertising IDs (MAIDS), ovvero una sponsorizzazione targetizzata perché legata allo smartphone dell’utente e solo a quello. Questo vuol dire che se il sistema geo-localizza un potenziale elettore e/o supporter che entra in un negozio di armi, può proporgli un contenuto di pubblicità politica mirato, unico e altamente personalizzato.

Dopo lo scandalo di Cambridge Analytica, che disse persino di aver sviluppato un sistema di microtargeting comportamentale, ovvero una pubblicità personalizzata ed orientata su ogni persona per la quale è entrata in possesso di svariate informazioni, pensavamo di aver sentito tutto. Invece no, almeno non ancora. Allo stesso modo con cui Cambridge Analytica fu incaricata di gestire la raccolta dati per la campagna elettorale del 2016 di Trump, la stessa situazione si ripresenta ora con la conferma che a guidare le attività digital della campagna sarà come per il 2016 Brad Parscale, già in rapporti con Cambridge Analytica quattro anni fa. Sommato al nuovo sistema di tracciamento degli utenti del GOP, la cui sperimentazione è già iniziata nella campagna presidenziale di Trump del 2016, costituisce un gap enorme per il Partito Democratico.

Shomik Dutta, veterano delle due campagne di Obama, 2008 e 2012, e a capo dell’incubatore di startup “Higher Ground Labs” che ha contribuito ai risultati dei Dem nelle elezioni di midterm 2018, lo va ripetendo da mesi: serve costruire un sistema analogo, con cui realizzare una rete capillare di piccoli finanziatori, condurre sondaggi più mirati, organizzare attività ed operazioni sul campo per indirizzare meglio il messaggio del candidato, produrre pubblicità più focalizzate.

Quello che nel 2008 e nel 2012, per le campagne di Obama, era solo un software, ora è un modello di “machine learning”: uno strumento in grado di individuare – e qui è la vera materia del contendere – un potenziale supporter e quindi un elettore.

Alla luce di tutto ciò, è difficile immaginare che i candidati alle primarie democratiche, anche coloro che hanno costruito una rete di sostenitori forte come Warren e Sanders, sappiano far fronte alla guerra digitale a cui Trump li sottoporrà.

 

Alla ricerca del know-how di Obama

Se la guerra sembra impari, c’è però chi si sta armando per combatterla o almeno sta tentando di farlo. Misha Leybovich, ex CEO di una società tech che lavora sulla realtà aumentata, con una formazione ingegneristica al M.I.T e vicino al mondo delle startup, è diventato l’organizzatore del Warren’s Meme Team. La sua missione è ben riassunta in una sorta di manifesto, pieno zeppo di emoji, dall’indicativo titolo “Warren’s Meme Team Plan: saving the nation with selfies and memes”, che egli stesso ha scritto.

Leybovich ammette che il vantaggio di Trump e dei repubblicani è notevole e può essere combattuto sul loro stesso terreno a colpi di meme, via social media, e intessendo una rete di scrittori, artisti e volontari a vario titolo, che contribuiscano a diffondere il messaggio della Senatrice Warren. Come? Fornendo loro un template per realizzare il meme.

Sì, ma perchè i meme? Perché è un’immagine, un video, una GIF o un prodotto digitale che riassume un’idea; è uno strumento di comunicazione che rappresenta una cultura (per quanto a volte anche becera) ma replicabile e trasmissibile per imitazione.

In sostanza è un’arma creativa che la moltitudine può sfruttare per reiterare un messaggio, facendola rimbalzare sui social network, aggiungendo o modificandone il contenuto, reinventandolo.

Un meme ormai classico creato dopo la vittoria di Donald Trump nel 2016, a tema Star Wars

 

E questo potrebbe rendere i meme di Leybovich, in un contesto in cui l’elettorato sembra essere diventato un immenso swing state perché evanescente ma polarizzato, il degno erede del concetto di crowdsourcing con cui la squadra tech del 2008 e poi Harper Reed, Dylan Richard, and Mark Trammell, il dream team del 2012, hanno fatto vincere le elezioni ad Obama.

Allo stesso modo con cui si intuì la portata e la forza del brano “Yes we Can”, prodotto da Will.i.am. dei Black Eyed Peas, tanto da pubblicarlo sulla homepage del sito barackobama.com, la forza dei meme sta tutta nella capacità di sfruttare l’intelligenza collettiva, la partecipazione, la rete, i suggerimenti e le idee richieste agli utenti, alle persone, alla comunità. Vedremo se basterà una guerra all’ultimo meme per convincere ed assoldare un elettorato il più delle volte stanco e indignato oppure, come ha sostenuto in tempi non sospetti – già qualche mese fa – l’ex stratega delle campagne di Obama, David Axelrod, in questa guerra c’è già uno sconfitto designato: il Partito Democratico.