Keynes e la maledizione di Carabosse
di Giorgio La Malfa e Giovanni Farese
Da Bretton Woods a Savannah
Settantacinque anni fa, l’8 marzo del 1946, il lussuoso General Oglethorpe Hotel di Wilmington Island, nei sobborghi di Savannah, in Georgia, ospitava la riunione inaugurale dei Consigli di Amministrazione della Banca Mondiale (allora Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo) e del Fondo Monetario Internazionale, la cui istituzione era stata decisa nella conferenza tenutasi un anno e mezzo prima, nel luglio del 1944, nel fatiscente Mount Washington Hotel di Bretton Woods, nel New Hampshire, duemila chilometri più a Nord.
Bretton Woods era stato il momento culminante di un lungo confronto sull’assetto economico del dopoguerra che aveva coinvolto soprattutto Gran Bretagna e Stati Uniti. La riflessione era partita da una serie di proposte avanzate da John Maynard Keynes che, chiamato al Tesoro come consigliere del governo britannico, dal 1940 aveva intrattenuto i rapporti in materia economica e finanziaria con l’amministrazione americana. Nel negoziato, condotto per gli Stati Uniti dal Sottosegretario al Tesoro, Harry D. White, gli americani avevano accettato l’idea di dotare il mondo di istituzioni e regole capaci di imbrigliare il disordine economico e monetario che negli anni Trenta aveva esacerbato le relazioni internazionali, ma avevano rigettato la parte più innovativa del progetto di Keynes che prevedeva di affidare a una banca mondiale la creazione di una moneta fiduciaria del tutto sganciata da qualsiasi valuta, come dall’oro, in base esclusivamente ai bisogni del commercio e dell’economia mondiale.
La scelta degli americani era stata quella di attribuire al dollaro quello stesso ruolo di ancoraggio del sistema che storicamente aveva avuto la sterlina britannica. I tassi di cambio dei paesi membri del Fondo sarebbero stati fissati in dollari, mentre il dollaro sarebbe rimasto convertibile in oro al prezzo stabilito di 35 dollari per oncia. Nonostante i contrasti, Bretton Woods si era chiusa con grande ottimismo. Quando Keynes era entrato nella sala dove si svolgeva il banchetto finale, gli astanti si erano levati in piedi riconoscendo, come notò uno dei presenti, “che era entrato un uomo di statura non comune” ed egli stesso aveva condiviso quell’ottimismo.
Ombre pesanti
A Savannah, benché nel frattempo la guerra fosse ormai finita con la vittoria degli alleati, il clima era assai meno sereno. La guerra era terminata pochi mesi prima, nell’aprile-maggio del 1945 in Europa e in agosto in Asia con i due devastanti ordigni atomici su Hiroshima e Nagasaki, e pesanti ombre, a partire dalla guerra nucleare, gravavano sul mondo. La Cina era piombata nella guerra civile, la Germania era occupata e divisa non in due ma in quattro, e soltanto tre giorni prima, il 5 marzo 1946, Winston Churchill aveva pronunciato a Fulton, in Missouri, il celebre discorso nel quale sull’Europa aveva con una potente immagine fatto calare un ideale ma ben presto fin troppo reale sipario di ferro “da Stettino sul Baltico a Trieste nell’Adriatico” (“da Roma a Riga” ha detto poche settimane fa il Presidente Joe Biden riferendosi all’attualità). Ma soprattutto era scomparso Franklin Delano Roosevelt con la sua visione riformatrice e il coraggio di portare avanti la sua agenda. Anche i rapporti bilaterali anglo-americani si erano guastati intorno alla questione del prestito richiesto dal Governo britannico per concedere il quale gli americani avevano preteso la rinunzia britannica al sistema delle preferenze imperiali. Insomma, l’8 marzo del 1946 non vi erano particolari ragioni di ottimismo per il futuro, se non il fatto di essersi lasciati alle spalle una guerra devastante con il suo orrore di distruzione e morte.
La bella addormentata nel bosco
Anche a Savannah vi furono degli scontri con gli americani. Questi pretesero che le due istituzioni avessero sede a Washington. Keynes aveva proposto New York per sottolinearne la natura finanziaria e la distanza dal potere politico. E fu questo il senso, pure se espresso con garbo e umorismo, del discorso conclusivo che gli fu riservato, in onore del fatto che come egli stesso disse, in un intervento pieno di “wit and wisdom”, della Banca e del Fondo era stato “il padre o l’istitutrice”.
Usando come metafora la favola della Bella addormentata nel bosco, messa in scena una settimana prima a Londra, nel Covent Garden appena ricostruito, con la musica di Čajkovskij e la coreografia di Petipa, Keynes descrisse un battesimo ideale quanto fiabesco. Ricordò che “la gestazione era stata lunga” e che “era gran tempo che gli allegri gemelli [il Fondo e la Banca] nascessero”. Invocò tre fate benigne ciascuna con i rispettivi doni, a partire da un “mantello di Giuseppe”, che la leggenda vuole che venisse accettato come pegno di un debito recando poi miracolosi benefici al creditore: “un vestito multicolore da indossare a perpetuo ricordo del fatto che i due gemelli appartengono al mondo intero e che il solo dovere di fedeltà è, per essi, verso il bene generale, senza danno o a favore di nessun interesse particolare”. Formulò infine l’auspicio che non giungesse, come ospite inattesa, alcuna Carabosse, che era il nome che Petipa aveva dato alla fata maligna nella sua versione della Bella Addormentata. Se fosse giunta, infatti, Carabosse avrebbe proferito una fatale maledizione: “voi due marmocchi [Banca e Fondo] diventerete uomini politici; ogni vostro pensiero e atto avrà un arrière-pensée; qualunque cosa decidiate non sarà decisa per sé stessa, o per i suoi meriti, ma in vista di qualcos’altro”.
Il discorso non fu preso bene: il Segretario al Tesoro americano Fred M. Vinson si infuriò pensando che il riferimento alla perfida Carabosse fosse diretto contro di lui, mentre molti degli astanti non capirono esattamente a che cosa si riferisse Keynes. Ma Keynes vedeva lontano. Se nell’immediato, nonostante le limitazioni del disegno, la carica innovativa di Bretton Woods contribuì alla lunga fase di crescita del secondo dopoguerra, nel periodo più lungo la dipendenza del sistema internazionale dei pagamenti dal dollaro ha finito per essere un problema che appare tuttora irrisolto.
Il suo monito sulla necessità di pensare a soluzioni genuinamente multilaterali va tenuto bene a mente oggi, nella fase convulsa di un mondo che esce dalla tragedia della pandemia e che cerca, confusamente ma legittimamente, un nuovo assetto cooperativo, fatto di istituzioni e di regole rinnovate, un nuovo “vestito multicolore” capace di assicurare prosperità e stabilità globali.