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Kashmir: un test per la futura diplomazia americana

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Quando ai primi del luglio scorso per le strade di Srinagar si sparse la notizia che le forze di sicurezza indiane avevano ucciso il leader separatista Burhan Wani, figura di spicco del gruppo islamista Hizb-ul Mujahideen (il Partito dei Guerrieri Sacri), la sensazione immediata per i pochi osservatori che si trovavano in città fu nettissima: la lunga tregua del Kashmir indiano era finita.

Oggi, a cinque mesi da quel giorno, l’impressione iniziale è confermata. Il Kashmir è nel pieno di una nuova escalation di violenza settaria e militante, e geograficamente è molto  lontano da Washington e dai dibattiti della campagna presidenziale da poco conclusa – dibattiti davvero modesti, soprattutto sui temi della politica estera. Eppure, il conflitto tra India e Pakistan riguarda da vicino anche l’Occidente e nello specifico gli Stati Uniti.

Siamo ancora in attesa che dal lavoro della squadra di transizione al servizio del Presidente-eletto esca il nome del futuro Segretario di Stato e che i temi di politica estera vengano ricollocati in agenda secondo un nuovo ordine strategico. Ma il punto di partenza per coloro che si troveranno ad occuparsi della politica estera americana non potrà che essere la legacy della gestione Obama-Kerry rispetto ai dossier asiatici.

Il conflitto del Kashmir ha rappresentato in realtà, nella visione sviluppata negli ultimi anni da Washington, una tra le situazioni in assoluto più delicate per gli equilibri futuri. Questa visione, estesa a tutto lo scacchiere dell’Asia continentale, considera Iraq e Siria già destabilizzati, dà ormai l’instabilità afgana per cronica, e considera appunto il Pakistan (che all’India contende il Kashmir) un’isola di stabilità da difendere.

Ora la nuova Amministrazione Trump alla guida degli Stati Uniti, sineddoche dell’Occidente, dovrà capire quale dei due elementi le starà più a cuore: l’alleanza con la più grande democrazia del mondo, l’India, o la transizione del Pakistan – vasta democrazia parlamentare musulmana e unico paese musulmano nel club atomico mondiale – che tenta di resistere alle sirene del fondamentalismo. Il Kashmir, la regione dell’India a maggioranza musulmana, potrebbe essere il palcoscenico di questa dialettica diplomatica e militare in cui Washington potrebbe essere costretta a prendere una posizione netta.

In questo scenario, le forze d’élite dell’esercito indiano, che sin dai tempi della Partizione è massicciamente stanziato in Kashmir, negli ultimi mesi hanno tentato di debellare Hizb-ul Mujahideen uccidendone un leader tribale che era a capo di un gruppo armato forte di almeno 10 mila uomini. La veemente reazione della popolazione kashmiri filo-pakistana ha indotto le autorità indiane alla scelta del coprifuoco che attualmente si estende a tutto il Kashmir, mentre in diversi Stati indiani Amnesty International è stata accusata di sedizione. Aver organizzato un incontro a Bangalore sulle violazioni dei diritti umani nel Kashmir da parte delle forze di sicurezza indiane è stato sufficiente perché i nazionalisti reagissero contro la ong, al punto che Amnesty ha preferito chiudere i suoi uffici nel paese e sospendere tutti gli eventi in agenda.

Da parte sua l’esercito di New Delhi ha reso noto di aver condotto nelle ultime settimane attacchi contro gruppi di militanti pakistani a ridosso del confine col Pakistan che secondo le autorità indiane preparavano azioni in Kashmir. Il Pakistan ha confermato ufficialmente la morte di alcuni soldati negli scontri a fuoco. L’attacco è stato di fatto una ritorsione indiana dopo che diciotto soldati di New Delhi sono stati uccisi nel presidio militare di Uri a fine settembre, vicino alla linea di controllo, la famigerata LOC (Line of Control) entrata in vigore nel 1947; questa linea di demarcazione è un confine con uno status giuridico molto aleatorio tanto che l’India dal 1990 al 2004 ha completato la costruzione di un muro difensivo che ricalca quasi tutta la lunghezza della LOC, 740 kilometri, per impedire le infiltrazioni di gruppi armati provenienti dal Pakistan.

Il Segretario generale dell’Onu Ban Ki-Moon ha offerto la sua mediazione mentre lo scambio di accuse tra i due Paesi per la violazione del cessate il fuoco lungo la Linea di Controllo è ormai sistematica.

A oggi, nessun ingrediente della tipica e reciproca escalation militare manca: dall’evacuazione forzata da parte indiana degli abitanti dei villaggi di confine con il Pakistan, al settore delle comunicazioni dove, dal 15 ottobre, ai media pakistani è stato proibito di diffondere i canali televisivi indiani sul territorio nazionale. E ancora: bando alla proiezione di pellicole indiane, e invito agli artisti pakistani presenti in India di rientrare prontamente in patria. D’altronde è difficile smentire l’asserzione indiana che i militanti islamici in Kashmir siano, da almeno trent’anni a questa parte, addestrati e coordinati dal Pakistan.

Le quattro guerre sinora combattute dai giorni della partizione indiana (1947) non hanno mai risolto il problema e il tema del referendum rimane sospeso – senza dimenticare che la parte orientale del Ladakh, che fa parte del Kashmir, è occupata dalla Cina, a sua volta in ottimi rapporti con il Pakistan. Ecco perché gli Stati Uniti devono prestare enorme attenzione a non commettere passi falsi in questa crisi che il Pakistan ha tutto l’interesse a portare sulla scena internazionale (è stata Islamabad a chiedere la convocazione del Consiglio di Sicurezza ONU) mentre l’India ha quello opposto, di considerarla una questione interna.

Infatti, New Delhi si è drasticamente opposta alla richiesta pakistana di una missione esplorativa delle Nazioni Unite in Jammu e Kashmir. Sulla scena politica, alcuni deputati dello stato eletti al Parlamento nazionale hanno criticato duramente la decisione del governo di chiudere le moschee del Kashmir durante i festeggiamenti dell’Eid al-Adha, scelta che ha portato alla dura reazione degli sciiti kashmiri, in genere molto più concilianti dei sunniti filo-pakistani. Nella partita gioca poi un ruolo fondamentale anche il nazionalismo indù, che sostiene le misure draconiane delle forze di sicurezza.

Sembra quindi lontanissimo il disgelo del 2015 con l’incontro di Lahore tra il premier indiano Narendra Modi e quello pakistano Nawaz Sharif. L’Occidente non potrà trascurare la criticità di un confine che è anche un argine fondamentale al terrorismo islamista: proprio in tale ottica l’esercito di Islamabad, con astuta mossa propagandistica, annuncia di aver dovuto sottrarre truppe dalla lotta ai talebani nelle aree tribali, per concentrarle sul confine indiano.

Di certo, quando nel febbraio 2016 al Dipartimento di Stato John Kerry e Sartaj Aziz (il consigliere speciale del Primo Ministro che molti considerano una sorta di Ministro degli Esteri de facto) hanno concluso i lavori del U.S.-Pakistan Strategic Dialogue, nel discorso di Kerry non si è fatto riferimento al Kashmir. Aziz ha invece ricordato che la ferita è sempre aperta, pur riconoscendo il ruolo fondamentale svolto dal presidente Obama in persona a supporto del dialogo tra India e Pakistan.

Il soft-power di Obama ha permesso al Pakistan di giocare una partita ambigua. Lahore ha incassato i dollari di Washington (anche sotto l’amministrazione Bush: parliamo infatti di oltre 20 miliardi negli ultimi 14 anni) per rimborso militare a una campagna “contro i talebani”. Una campagna sulla cui reale attuazione permangono fondati dubbi da parte americana – sia in territorio pakistano che in territorio afghano. Capiremo presto se Donald Trump e il nuovo capo della diplomazia americana cercheranno un dialogo con l’uomo forte di Islamabad, il premier Nawaz Sharif, restando sulle orme di Obama. Altrimenti, potrebbero usare la carta dell’aut aut che Kerry, per ragioni che ormai sono materia per gli storici, non ha mai voluto o potuto giocare.

In conclusione, Washington ha certamente bisogno del Pakistan per contenere la minaccia talebana – e ora come non mai vuole risultati concreti – ma d’altronde non può deludere un alleato con un crescente peso internazionale come l’India. Il Kashmir sarà il banco di prova non solo di questa dialettica, ma anche per capire come il Presidente Trump porrà in pratica l’annunciata discontinuità col passato.