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Italia millenaria: idee universali e modernità

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Di questi tempi si fa un gran parlare di nazione. Ed è giusto, visto che per decenni questo concetto è stata visto come una malattia contagiosa da combattere. Eppure, l’idea di nazione, per certi versi, c’entra poco con l’Italia. Prendiamo tre esempi da diversi periodi storici: Vincenzo Gioberti, nel 1843, scrive del primato (morale e civile) degli italiani; Giovanni Barzini per raccontare al mondo del nostro Paese scrive un libro, nel 1964, che si intitola The Italians; e il titolo dell’opera del 1968 di Giuliano Procacci è Storia degli italiani. Si parla di italiani, non di nazione. Per dirla diversamente, la nazione è il prodotto del degradarsi di due grandi idee universali, e cioè l’idea di repubblica prima e quella di impero poi. In chiave metaforica, le nazioni sono come la macchia mediterranea, vale a dire il prodotto che resta dopo che i grandi boschi sono stati abbattuti. Alla fine dell’epoca classica, le nazioni spuntano quando Roma non è più in grado di amministrare un impero grande quasi quanto un continente.

Ora, la cosa singolare è che sia l’idea di repubblica, sia quella dell’impero sui cui si innesta poi la chiesa universale, nascono in Italia. Questo Paese ha, infatti, una singolare capacità e cioè quella di produrre “universali”, il più importante dei quali è proprio l’idea di repubblica: un potere limitato da norme e principi alla elaborazione delle quali tutti (o quasi tutti) hanno partecipato. Al di là di quanti sognano aquile imperiali, il principato e l’impero sono forme degradate rispetto all’idea di repubblica. Roma, infatti, raggiunge il suo apice quando il potere è frammentato (Comizi curiati, centuriati, il Senato, i due consoli, i tribuni della plebe che hanno diritto di veto sulle decisioni consolari) e a governare è il primato di una legge, che è una costruzione razionale.

 

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L’impero mantiene il carattere universale della repubblica romana (tutti possono diventare cittadini romani) ma ne distrugge la struttura istituzionale. Il potere si accentra nelle mani di uno solo, i senatori si trasformano in lacchè dell’imperatore, che diviene una divinità in terra da venerare, cosa che avrebbe fatto orrore agli antichi patres della costituzione repubblicana. Non più il primato della legge, ma la volontà arbitraria di un imperatore che è per giunta una divinità. Tale processo, per dirla con Michail Rostovtsev, è una progressiva asiatizzazione dell’impero, vale a dire la sua trasformazione in una forma di dispotismo burocratico amministrativo. Ed è questa evoluzione istituzionale che porta alla morte, per lenta asfissia, di Roma come entità politica. In altre parole, è l’impero a uccidere Roma.

Di qui secoli di (quasi) silenzio. Sono quelli che vanno dalla caduta dell’Impero romano d’Occidente alla rinascita dei comuni. Secoli di regressione e di immobilismo; finché non accade una cosa singolare, a cavallo tra l’XI e il XII secolo: la debolezza dell’Impero e del Papato creano una sorta di anarchia. Ma in questa anarchia dei poteri legittimi le persone devono pur vivere. Così le vecchie città romane, i comuni, si riattivano, iniziano a darsi da fare e alla ricerca di norme e principi che possano aiutarli ad autogovernarsi e (ri)scoprono il diritto romano. Così cominciano a fare una cosa molto semplice e cioè riprendono le antiche strutture della Roma repubblicana. Le città partecipano per tutto il XII secolo alla scrittura degli Statuti comunali, le prime vere costituzioni dopo quelle del mondo antico; elessero due consoli, limitarono al minimo le cariche e accelerarono la loro rotazione. In sintesi, come per il mondo antico, siamo di fronte a una collettività urbana autoconsapevole, una serie di magistrature occupate in base a una regolare rotazione, un’autonomia di azione di fatto per la città e i suoi magistrati, incluse la guerra e la giustizia, e in seguito la tassazione e il potere legislativo.

In sintesi, come Ottone di Frisinga scrive nel 1154, gli italiani “imitano ancor oggi la saggezza degli antichi romani nella struttura delle città e nel governo dello Stato. Essi amano infatti la libertà tanto che, per sfuggire alla prepotenza dell’autorità si reggono con il governo di consoli anziché di signori”; o come dirà più tardi Sismonde de Sismondi: “procurarono di costituirsi a foggia della repubblica romana e delle sue colonie”; o per dirla con uno studioso a noi contemporaneo come John K. Hyde diventa a quel punto palese “la consapevolezza delle città medievali italiane di muoversi su un cammino di civico sviluppo di cui gli antichi avevano avuto esperienza prima di loro”. Chris Wickham dice che i pisani erano affetti “da una vera e propria ossessione per Roma” e che per questo essi, come si legge nel Constitutum usus, vissero “seguendo il diritto romano per lungo tempo”.

L’Allegoria del Buon Governo, affresco di Ambrogio Lorenzetti (1338) conservato nel Palazzo Pubblico di Siena

 

L’autogoverno non fu solo il naturale portato dell’anarchia feudale. I liberi comuni con la forza delle armi e del diritto riuscirono a strappare sempre più ampi margini di autonomia a quelli che si percepivano allora come gli unici poteri legittimi, vale a dire l’Impero e il Papato. Gli italiani si batterono come leoni per due secoli, dalla prima discesa di Federico Barbarossa in Italia nel 1154 fino al tentativo finale di Ludovico il Bovaro nel 1327, contro quell’Impero che intendeva sottomettere i comuni e sottrarre loro le antiche libertà riconquistate. Libertà che i comuni difesero con una forza straordinaria nonostante paurose sconfitte e devastazioni. A titolo di esempio: nel 1160 Crema fu rasa al suolo. Nel 1162 Milano venne conquistata, le mura distrutte e i suoi cittadini deportati in massa.

E lo fecero perché, come scrive Henri Pirenne, essi avevano la consapevolezza di appartenere “corpo e anima, alla loro piccola patria locale e con loro, per la prima volta dall’Antichità, riappare nella storia dell’Europa un sentimento civico. Ognuno di loro è chiamato, e lo sa bene, a difendere la città, a impugnare le armi, a dare la vita per lei. I cavalieri di Federico Barbarossa hanno visto con stupore i commercianti e i mercanti della città lombarde tenere loro testa. In questa campagna, si vedono esempi di civismo che fanno pensare alla Grecia antica” – e, possiamo aggiungere, alla Roma repubblicana.

Con le armi, dunque, quegli italiani difesero la propria libertà ed il diritto all’autogoverno all’interno di città stato democratiche. Nella loro città i nuovi cives si sentivano a pieno titolo membri di una comunità libera ed autonoma e fu proprio per questo, scrive Rudolf Von Albertini, che fece rinascere “il senso dello Stato e degli ideali di libertà e democrazia, concepiti secondo gli schemi della tradizione classica e realizzati nelle forme e nelle condizioni consentiti dai tempi”. Con una precisazione: che la libertas (parola che è per certi versi la chiave di questa lettura della storia italiana) non era intesa come libertà concessa dallo Stato, bensì come diritto di partecipare alla vita dello Stato, di esserne in un certo senso parte attiva.

Il punto è decisivo: è questa struttura politico-istituzionale ad abilitare la rinascita economia, sociale, civile, artistica, scientifica delle città italiane. Per dirla diversamente, senza questa rivoluzione istituzionale e giuridica il Rinascimento – quello vero, quello dei Comuni e non quello delle Signorie – non ci sarebbe mai stato. C’è un ulteriore passaggio da mettere qui in evidenza. La riscoperta del diritto romano non è un fatto sporadico, lasciato al caso. La cosa viene presto istituzionalizzata con la nascita delle Università, forse la seconda più grande invenzione degli italiani. La più importante delle quali è quella di Bologna (fondata nel 1088) che, non a caso, è scuola di diritto. Chi va ancor oggi a visitare l’Archiginnasio, troverà che là è conservato uno dei più grandi patrimoni araldici del mondo: sono gli stemmi delle diverse nationes europee, che rappresentano gli studenti che a Bologna andavano ad imparare il diritto romano.

Questo ci ricorda un dato essenziale: che l’idea universale di Repubblica (il potere mitigato dal diritto) attraverso le università italiane di diffonde in tutta Europa, fornendo alle nationes europee la struttura giuridica ed istituzionale per poter accedere alla modernità. A quel punto, quanto successo nella Roma repubblicana prima e nei comuni italiani dopo (l’esplosione della creatività umana garantita dalle libertà costituzionali) avviene nelle nazioni europee.

Gli italiani, dunque, hanno avuto (e hanno tuttora) una grande capacità di produrre universali, vale a dire (parafrasando Carlo Cipolla) cose aperte a tutti e che sono utili (o piacciono) a molti. Per fare qualche altro esempio: l’idea dell’uomo come centro del creato (Umanesimo), o l’idea che l’Universo sia scritto in lingua matematica (Galileo Galilei) sono universali che nascono sotto i nostri cieli, e sono concetti universali aperti a tutti e non riservati a questa o quella nazione, popolo, etnia. Di quanti siano poi nel mondo gli amanti dell’Italia nel mondo della moda, della cucina, dello stile, dell’arte, è quasi superfluo parlare.

Ora, se la vera essenza dell’essere italiani ha a che fare con la capacità di produrre universali, allora parlare di nazione italiana è un minus, significa volerla sminuire. E se è vero, come qui brevemente si è provato a sostenere, che tante delle strutture che hanno fatto il mondo moderno nascono nella terra dei limoni, allora significa che l’Italia non è la patria degli italiani, ma di tutti quanti si percepiscono come figli della modernità.

 

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Proprio in tale ottica si può fare una riflessione sulla questione dell’etnia italiana. Qui ci sono due dati abbastanza incontrovertibili. Il primo è il permanere nei secoli di un carattere chiaro e identificabile dell’italianità. È una storia di lunga durata che collega gli italiani nei millenni: è nei dialetti che sono, come in geologia, lo strato più vicino al mondo romano; è nella cucina e nella sua capacità di integrare il nuovo nel vecchio (del pomodoro si fece una “salsa di accompagnamento” come si faceva con il garum); è nella cura del paesaggio ed è nel senso del bello. Il secondo dato, anch’esso abbastanza inconfutabile, è che la penisola è stata per millenni attraversata e abitata dai popoli più diversi, che hanno portato con sé le loro tradizioni e le loro visioni del mondo.

Se quella italiana fosse stata una “etnia”, allora sarebbe forse presto sparita, insieme alle specifiche caratteristiche dei tanti popoli che sono passati da queste parti.

Come si conciliano le due cose allora? Come è possibile conciliare il carattere permanente dell’italianità con il fatto che la penisola è stata crocevia di popoli per millenni? La risposta è abbastanza semplice, perché quella italiana è una civiltà alla quale si può scegliere di appartenere. Cosa molto diversa è, appunto una etnia alla quale si appartiene solo per nascita. In conclusione, vale qui il discorso che si faceva in apertura: come parlare di nazione significa voler sminuire una cultura che ha vocazione all’universale, così parlare di etnia per un Paese che è una civiltà significa voler male all’Italia.