Istantanea dell’America dopo il voto
L’America che esce dal voto di mezzo termine è un Paese diviso. Si dirà che questa non è una novità, che è una dinamica che osserviamo a partire dallo scontro sull’impeachment contro Bill Clinton nel 1998 (giusto vent’anni fa). Bene, il 2018 segna un nuovo passo nell’accrescere la distanza tra due Americhe che non solo votano diversamente e non concordano su molte cose, ma che guardano a chi non la pensa allo stesso modo come al male assoluto. Si tratta di una dinamica che osserviamo altrove in Occidente, ma il bipolarismo secco statunitense rende le divisioni ancor più nette e definite. Si può forse affermare che questa polarizzazione sia un frutto avvelenato del disegno costituzionale originario: in fondo, per decenni, il bipolarismo e il meccanismo elettorale maggioritario tipici della politica degli Stati Uniti erano il luogo dei compromessi necessari, non dell’odio reciproco.
Le divisioni odierne sono molteplici: geografiche, culturali, comunitarie, di genere e generazionali. Paradossalmente, almeno in questo ciclo elettorale, non c’è una spaccatura di natura economica. Seppur generalizzando e con tutte le eccezioni del caso: i ricchi e i benestanti non hanno le stesse preferenze elettorali: quelli delle coste Est e Ovest non votano come quelli del Texas o dell’Alabama, guidati da motivazioni diverse. Allo stesso modo si differenziano i gli afroamericani e gli ispanici poveri daii bianchi delle campagne e delle aree ex industriali.
Trump regge all’onda blu
Il voto di Midterm aggiunge due elementi a questo quadro. Il primo è che non c’è stato nessuno tsunami blu, cioè l’onda, la rimonta democratica non è stata abbastanza alta da spazzare via i Repubblicani. il secondo è che il metodo Trump funziona. I Democratici aumentano il vantaggio nel cosiddetto generic ballot, i voti percentuali in più presi (7%) ma questo non li aiuta a guadagnare molto terreno in termini di seggi. Quanto al presidente, l’aver accentuato il livello dello scontro ha funzionato: la base repubblicana è ormai la “sua” base, e chiede radicalismo di destra. E questa è una brutta notizia.
Per i Democratici le divisioni territoriali e il sistema elettorale restano un rebus che non ha soluzione. Prendere voti in più non serve se non si vincono le battaglie-chiave negli Stati e nei Collegi. I Dem possono avere parziale conforto dal lento incedere della demografia: un dato come un altro, nella corsa al Senato del Montana, dove l’elettorato è diviso a metà, il senatore democratico Jon Tester prende il 43% in più tra gli under 30, a conferma della tendenza giovanile a sinistra.
Notizie dagli Stati
Un dato importante è il relativo ritorno alla normalità nel Midwest: laddove Donald Trump aveva vinto in Stati che i democratici consideravano sicuri, oggi il partito di opposizione guadagna posizioni importanti. La sconfitta del governatore del Wisconsin Scott Walker, un tempo considerato un potenziale aspirante alla Casa Bianca, è un segnale in questo senso. L’Indiana è un’eccezione, passando ai Repubblicani, ma è il meno blu tra gli Stati della regione.
Terzo aspetto cruciale: c’è un’avanzata democratica nel West, con il Colorado che è quasi uno Stato blu, il New Mexico che torna democratico, l’Arizona in bilico e il successo in Montana. La sconfitta di Beto O’Rourke in Texas, in fondo prevedibile ma di stretta misura, è il segno di come i conservatori alla Ted Cruz siano in grado di mobilitare la loro base tanto quanto i liberal giovani e pieni di entusiasmo.
Per i Repubblicani le buone notizie vengono dalla Florida: lo Stato swing per eccellenza ha regalato loro due successi (il senatore e il governatore). In fondo è una sorpresa: la Florida infatti è una doccia fredda per i Democratici, perché i due candidati, l’anziano senatore uscente Bill Nelson e il giovane afroamericano Andrew Gillum (tra i candidati emergenti direttamente sostenuti anche da Barack Obama), non potevano essere più diversi. La soluzione del rebus dal titolo “quale strada intraprendere, radicale o rassicurante?” non è immediata, visto che entrambi hanno perso (di un soffio).
Questo, in fondo, vale per tutte le facce nuove democratiche: chi doveva vincere lo ha fatto in seggi sicuri. Alexandria Ocasio-Cortez ha vinto con il 78% nel 14° Distretto di New York per diventare la donna più giovane mai eletta al Congresso, e con lei molte altre figure nuove. Dove però i personaggi sconosciuti, la generazione radicale emersa con le ultime primarie, dovevano aiutare i Democratici a guadagnare terreno, c’è stato un avanzamento in termini di partecipazione e consensi, ma non in termini di cariche e seggi conquistati. D’altronde, la divisione territoriale tra le due Americhe è così profonda che – anche in prospettiva 2020 – è difficile pensare a clamorosi capovolgimenti di fronte: saranno nuovamente pochi Stati a fare la differenza.
Effetti sul sistema
La vittoria democratica alla Camera è importante perché limita il potere presidenziale e costringe i Repubblicani a cercare, almeno su qualcosa, dei terreni di incontro. La strategia trumpiana, alzare lo scontro a livelli non raggiunti neppure nel 2016 stavolta ha pagato solo nei territori favorevoli ai Repubblicani, ma non ha cambiato la mappa elettorale come due anni fa. Se la spaccatura politica si mantenesse in parlamento, il risultato sarebbe un “do nothing Congress” che dopo aver portato a casa solo la riforma fiscale come risultato, rischia di arrivare al 2020 senza nemmeno un pezzo di legislazione importante. I toni del presidente nella nottata elettorale e la composizione del nuovo caucus repubblicano (ancora più estremo del precedente) segnalano che la strada scelta sarà questa. Arriveremo al 2020 con un clima tossico. Un clima congeniale a Trump, e non congeniale a una coalizione democratica che a mente fredda deve compiere scelte importanti sulle candidature, sul messaggio e sulla proposta politica.
Elezioni e diritti
Menzioni a parte meritano due aspetti relativi alla qualità del processo elettorale. In Georgia si è scritta una brutta pagina per la democrazia Usa: tutti gli stratagemmi utilizzabili per negare il voto ai neri sono stati usati e questo ha probabilmente determinato l’esito elettorale. Il fatto che a usare gli stratagemmi sia stato il candidato repubblicano Brian Kemp, arbitro (perché governatore uscente) e concorrente al medesimo tempo, è grave.
In Florida, invece, è passato il referendum che restituisce il diritto di voto alle persone condannate per reati che abbiano scontato la loro pena: finora un condannato perdeva per sempre il diritto di votare. Si tratta di un milione e mezzo di voti. Ricordiamolo, la quantità di neri (la minoranza più portata a votare per i democratici) presente nelle carceri Usa è totalmente sproporzionata e non ha a che vedere con il numero di reati commessi. Un provvedimento legislativo simile entrato in vigore lo scorso anno in Virginia ha visto la partecipazione al voto di 300.000 nuovi elettori, che hanno spostato l’esito a favore dei Democratici.
La battaglia per l’anima repubblicana
Il presidente esce bene dal voto, anche se le prospettive per il 2020 sono incerte. Trump spiegherà al Paese che serve più coraggio. Cercherà di ridurre il Partito Repubblicano a sua immagine. E inventerà nuovi nemici. La perdita del controllo della Camera sarà l’occasione per dare finalmente la colpa ai Democratici se l’amministrazione non produce risultati.
L’ala moderata (o anti-trumpiana) del Partito Repubblicano è di fronte a un bivio esistenziale. Molte figure storiche dell’intellighenzia del GOP hanno invitato a votare democratico, alcune figure importanti hanno deciso di non presentarsi, altre sono state sconfitte nelle primarie o si sono adeguate. Gli avversari interni sono figure come l’eterno Mitt Romney, nuovo senatore dell’Utah John Kasich, ex governatore dell’Ohio e arci nemico del presidente. L’occasione di rovesciare Trump dalla guida del Grand Old Party sarebbe stata concepibile solo in caso di una rovinosa sconfitta, che non c’è stata.
Al partito resta l’immane problema di una coalizione elettorale anziana e bianca. Sebbene il maggioritario secco e la rappresentanza per Stati consenta loro di combattere per la maggioranza in Congresso e anche per la Presidenza, pur avendo un numero ormai chiaramente inferiore di elettori, senza la capacità di allargare i propri orizzonti e il proprio discorso, il Grand Old Party è destinato a rimanere solo “Old”.
I dilemmi profondi dei Democratici
Il Partito Democratico ha questioni ancora più complicate da risolvere. Il mancato tsunami blu renderà più forte la sinistra, capitanata da Bernie Sanders e Alexandria Ocasio-Cortez, che sosterranno che le troppe ambiguità dell’establishment democratico, le stesse che sono costate la sconfitta a Hillary Clinton, non producono risultati? O renderà valido l’argomento che il radicalismo spinto non ha giovato perché ha tenuto a casa una parte degli elettori moderati indipendenti?
In realtà, nessuna di queste letture coglierebbe nel segno. I nuovi volti del partito non sono tutti radicali allo stesso modo. In alcuni casi non lo sono affatto. Il tema è piuttosto dare risposte nuove a una società ancora segnata dalla crisi scoppiata nel 2008, e dove alcuni nodi legati alle politiche economiche liberali che anche i Dem hanno abbracciato a partire dagli anni ‘80 sono arrivati al pettine.
I Democratici hanno un secondo problema, sempre lo stesso: l’uomo bianco. Se nemmeno questa volta sono riusciti a sfondare in certi territori, se la coalizione di Trump perde ma non si sfalda, serve trovare qualcuno che sappia convincere gli operai della West Virginia, del Wisconsin, del Michigan e così via. Ai democratici serve una doppia giocata: consolidare l’avanzata nel West e recuperare il terreno perduto nel Midwest. Il discreto risultato democratico in queste aree non è definitivo e, a prescindere dal consenso, servono soluzioni, idee. Promettere formazione e toppe alle ex aree industriali non funziona se l’avversario vende acciaio e carbone.
La forza potenziale del partito di Elizabeth Warren, Bernie Sanders, Joe Biden e Kamala Harris è data dalla condizione della società americana. La crisi ha generato e alimentato le diseguaglianze, costretto alcuni a lavorare più anni per avere una pensione dignitosa, e la discussione pubblica sulla sanità è molto avanzata rispetto a quando Hillary Clinton provò per la prima volta a far approvare una riforma in senso pubblico a inizio anni ‘90, che fu bloccata per le reazioni furiose che arrivarono da molti lati. E poi c’è la spinta sindacale del mondo del lavoro nei servizi, le giovani generazioni che chiedono più controllo sulle armi.
Un ampio rapporto di Just Capital ha rilevato come ampie maggioranze ritengano che le corporation non facciano abbastanza per i loro lavoratori, per l’ambiente, per le comunità dove fanno affari. Si tratta di un’opinione diffusa e bipartisan: i giovani non impazziscono come in passato per le grandi aziende, gli ex operai si sentono traditi dai gruppi industriali di cui hanno fatto la ricchezza per decenni, le minoranze che lavorano nei servizi chiedono integrazioni salariali e (vero) reddito di cittadinanza. L’ipotesi di un’ampia espansione dell’assicurazione sanitaria pubblica Medicare trova consenso bipartisan nella società.
L’idea insomma è che per i Democratici ci sia lo spazio per un discorso nuovo e diverso da quello degli anni ‘90. Ma non declinato in maniera ideologica. Un patto sociale che restituisca vigore al “sogno” americano. La speranza incarnata da Obama si è infranta nel 2010 di fronte alle timidezze del presidente e alle resistenze di quello che allora era l’establishment del partito. Molti tra coloro che ne fanno parte sono ancora al loro posto: Nancy Pelosi, Chuck Schumer, Steny Hoyer sono anziani e visti, non a torto, come amici del potere economico e perpetuatori dello status quo. Si tratta di figure cresciute in un clima economico favorevole fino al 2008, che con le sue storture produceva fiducia. Una fiducia esplosa assieme alla bolla dei subprime. Per restituire ossigeno serve un progetto, un’idea di America per il futuro. E serve anche qualcuno in grado di mettersi i guantoni: contro la retorica aggressiva di Trump non si può balbettare.
L’errore più grande che i Dem potrebbero fare è dilaniarsi tra loro tra sandersiani e moderati. O peggio, tra candidati. Ce ne sono davvero molti possibili tra cui i big shot Biden, Sanders, Warren, Harris e Cory Booker, ma anche e molti outsider, a cominciare dall’ex sindaco di New York Bloomberg e dall’ex CEO di Starbucks Howard Schultz. La voglia di arrivare primi a tutti i costi potrebbe produrre un disastro.
*articolo aggiornato l’8 novembre alle ore 10.50