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Israele-Iran-Golfo: gli equilibri mediorientali e la nuova amministrazione Trump

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Cosa rimane in Medio Oriente di un anno pericoloso e vissuto su onde emotive estreme è ancora difficile da decifrare data la tumultuosità degli eventi in corso, molti dei quali prodotti dallo scontro sistemico tra Israele e Iran. Il 2024, infatti, ha presentato un conto molto chiaro con i risultati israeliani sul fronte libanese e nella Striscia di Gaza (tra cui le decapitazioni dei vertici di Hezbollah e Hamas), e si è chiuso con la capitolazione del regime di Bashar al-Assad in Siria – molto vicino all’Iran. L’inizio del 2025 ha visto la firma di una tregua umanitaria a Gaza, mediata da USA, Egitto e Qatar, che prevede uno scambio di prigionieri e la possibile attivazione di una seconda fase negoziale, per definire un concreto cessate il fuoco tra Israele e Hamas. Ad accomunare questi accadimenti vi è comunque il fattore iraniano e, nello specifico, l’indebolimento del cosiddetto “Asse della Resistenza” guidato da Teheran.

Tale sviluppo, infatti, ha, almeno temporaneamente, spostato gli equilibri della deterrenza a favore di Israele e posto quest’ultimo in una condizione quasi unica nella regione. Tuttavia, la nuova situazione non è esente da minacce o rischi, e in un tale e nevrotico panorama di riconfigurazioni anche l’azione del 47° Presidente degli Stati Uniti potrebbe contribuire a ridefinire gli scenari. Ben prima dell’insediamento alla Casa Bianca il 20 gennaio 2025, Donald Trump aveva lasciato prefigurare un possibile ritorno a politiche più aggressive e unilaterali rispetto a quelle della precedente amministrazione Biden, con profonde implicazioni per gli equilibri della regione del Medio Oriente e Nord Africa.

I dossier Gaza e Iran dovrebbero fotografare plasticamente le contraddizioni esistenti nel triangolo di interessi tra Israele, USA e arabi del Golfo. Un riconoscimento delle ambizioni israeliane di annessione dei territori palestinesi, oltre a mettere la parola fine sulla più lunga diatriba politico-identitaria mediorientale, avrebbe ripercussioni dirette anche sulle leadership arabe. Ciò vale certamente per Egitto e Giordania, ma anche un Paese come l’Arabia Saudita avrebbe serie difficoltà a spiegare alla sua popolazione come si possa essere giunti a tale traguardo senza neanche aver garantito la nascita di uno Stato palestinese. Un’evoluzione che, a cascata, potrebbe avere ricadute anche in altri scenari regionali collegati (Libano, Siria, Iraq e Yemen su tutti) dove sono coinvolti i principali attori del Golfo. Sebbene non siano monolitici nelle rispettive posizioni politiche, ognuno di questi attori è preoccupato dallo schiacciamento delle posizioni statunitensi su quelle israeliane, cosa che rischia di inasprire lo scontro con l’Iran.

Trump e Netanyahu nel luglio 2024

 

Accordi di Abramo e “massima pressione” contro l’Iran: il ritorno al passato di Trump

In questo quadro, sarà fondamentale per la presidenza Trump definire quelle tappe, anche intermedie, in rapporto alla questione iraniana, intendendo con questo non solo il problema del programma nucleare ma anche il contenimento delle ambizioni del Paese in relazione al suo ruolo di potenza mediorientale. Un passaggio non esente da rischi e che, al contempo, non può eludere altre due importanti variabili: gli interessi e timori di Israele e quelli degli attori arabi del Golfo. Un rompicapo non semplice, a fronte della visione della nuova amministrazione USA per cui le forever wars del passato e le lente liturgie della diplomazia sono percepite come eventualità da rifuggire, in favore di un approccio più pragmatico, decisionista e all’occorrenza muscolare nei confronti dei nemici di Washington.

La visione “transazionale” della politica estera (non solo) mediorientale è caratterizzata da due elementi chiave: il sostegno totale a Israele, anche per quel che riguarda la questione palestinese a Gaza e in Cisgiordania, e il contenimento dell’Iran attraverso il rafforzamento del framework degli Accordi di Abramo – in particolare spingendo sulla normalizzazione delle relazioni tra Tel Aviv e Riad. Questi totem sono presentati come gli unici strumenti possibili per consolidare le dinamiche mediorientali in favore di Washington e dei suoi alleati.

Trump, però, si trova ad agire in un Medio Oriente molto diverso da quello con cui aveva avuto a che fare tra il 2017 e 2021. Inoltre, sedici mesi di guerre tra Gaza e Libano hanno profondamente rimodellato identità e strutture politiche e di sicurezza oggi vigenti. Ciononostante, il nuovo inquilino della Casa Bianca è convinto che una linea dura contro Teheran sia ancora la miglior formula migliore per garantire gli interessi degli USA e dei suoi alleati. Non a caso durante l’ultima campagna elettorale per le presidenziali, il magnate newyorkese ha duramente criticato le strategie mediorientali dell’amministrazione Biden in quanto ritenute deboli e non in grado di garantire il rispetto che merita una potenza globale come gli USA. Trump sosteneva che la precedente squadra di governo fosse troppo tenera con i partner e/o incapace di assumere posizioni chiare e nette, con il risultato di farsi ricattare anche dai propri alleati regionali. Infatti, il neo “Commander in Chief” USA ha spesso sostenuto che per giungere ad un accordo con Teheran sul nucleare, ad un ampliamento degli Accordi di Abramo oppure ad un’intesa tra Israele e Hamas per far terminare la guerra a Gaza è necessario promuovere la “pace attraverso la forza” – una visione non nuova nel panorama politico americano e spesso considerata prossima alle intenzioni dell’allora presidente Ronald Reagan. In altre parole, un approccio sintetizzabile nella formula “accordi per deterrenza” nel pieno spirito transazionale trumpiano.

Ecco perché è lecito attendersi un approccio (politicamente ed economicamente) più duro da parte degli Stati Uniti nei confronti dell’Iran, nel quale il confronto verrà focalizzato su diversi punti, a cominciare dal questione nucleare e dalla guerra a Gaza, per poi passare ai sotto-capitoli emersi nel corso degli ultimi sedici mesi di conflitti: dal Libano al Mar Rosso, senza perdere di vista le dinamiche siriane e irachene sempre foriere di risvolti importanti. Partendo da questi presupposti, l’amministrazione Trump ha ripristinato la sua “massima pressione” contro la Repubblica Islamica, che include severe sanzioni economiche, isolamento diplomatico e un solido sostegno agli alleati regionali statunitensi. Una strategia volta a definire un uso combinato di più fattori e strumenti (convenzionali e asimmetrici) che mirano a stabilizzare gli equilibri regionali e a contenere anche l’influenza di tutte quelle forze sistemiche esterne vicine all’Iran (Russia e Cina), in grado di minare la presenza e gli interessi americani in Medio Oriente. Uno sviluppo di questo tipo non trova necessariamente il pieno supporto delle monarchie arabe del Golfo. Partner di lunga data degli Stati Uniti e unite dal comune timore dell’assertività iraniana in Medio Oriente, le cancellerie arabe sono impegnate da diverso tempo a promuovere un processo di distensione e coesistenza strategica con l’Iran[1]. Dopo anni infruttuosi di aperta ostilità diplomatica e militare, gli attori arabi (e l’Arabia Saudita su tutti) hanno infatti promosso un approccio differente in grado di ridefinire in maniera pacifica gli assetti del Golfo Persico e della regione intera.

 

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Una ripresa della “massima pressione” trumpiana, sostenuta dichiaratamente da Israele, invece, farebbe ripiombare la Penisola arabica in una stagione di nuove incertezze e instabilità che farebbe male alla sicurezza e all’economia – in primis per quelle nazionali arabe, alle prese con i delicati e molto costosi processi di diversificazione delle strutture industriali di tipo energetico-commerciali, con ricadute importanti anche a livello globale. In alternativa, anche una possibile gestione diretta del dossier yemenita da parte di Tel Aviv, con il pieno sostegno di Washington lascerebbe le monarchie arabe del Golfo in balia degli eventi e più esposte alle ripercussioni strategiche derivanti dal rinfocolato contesto di crisi del quadrante allargato.

 

Il difficile equilibrio nella triangolazione con i sauditi

Nel guidare tali sviluppi, USA e Israele potrebbero trovarsi su posizioni opposte rispetto alle controparti arabe, acuendo di fatto la distonia esistente tra i vertici di questo triangolo. In questo modo qualsiasi sviluppo mediorientale sarebbe obbligato a passare non da oggettivi sviluppi su Gaza, quanto dalle intenzioni dell’asse Trump-Netanyahu, come ad esempio sul dossier iraniano.

Un simile approccio potrebbe garantire posizioni sicure per Israele e gli Stati Uniti in altri contesti collegati come la Siria, il Libano, lo Yemen o l’Iraq, ma il rovescio della medaglia sarebbe quello di trascurare le rispettive esigenze strategiche degli alleati del Golfo, andando così ad intaccare in primis qualsiasi discorso sull’ampliamento degli Accordi di Abramo e, in maniera più concreta, tutti i processi futuri connessi ai meccanismi di architettura politica e di sicurezza regionali.

Non a caso, lo stallo corrente su una risoluzione “giusta” sulla questione palestinese è un classico specchietto per le allodole che fotografa al meglio i limiti nella triangolazione di intese che investe Stati Uniti, Israele e Arabia Saudita[2]. Infatti, la situazione in Cisgiordania e i tentativi – neanche troppo velati – di annessione ufficiale da parte del governo di Tel Aviv hanno rappresentato dei motivi di tensione tra Washington e Tel Aviv, anche nel passato trumpiano. Infatti, quando tra il gennaio e il giugno 2020, l’allora inquilino della Casa Bianca presentò il suo “Accordo del Secolo”[3] puntava, in qualche modo, a riconoscere una forma minima di statualità ai palestinesi, mentre Netanyahu mirava a inglobare una parte consistente della Cisgiordania (le colonie e la valle del Giordano, circa il 60% del territorio) senza riconoscere alcunché alle controparti.

 

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Ciò provocò le ire degli Stati Uniti e le minacce degli Emirati Arabi Uniti (EAU) sugli Accordi di Abramo, che sarebbero stati ufficialmente presentati nel settembre del medesimo anno. Cinque anni dopo la dinamica rimane grosso modo la stessa ma i protagonisti sono leggermente cambiati. Al posto degli emiratini vi sono ora i sauditi che condizionano qualsiasi normalizzazione dei rapporti con Israele ad un riconoscimento pieno e formale della Palestina. Una mossa necessaria per calmare il  piano domestico saudita – sempre più spostato dal post-7 ottobre 2023 su posizioni filo-palestinesi, specie tra gli under-30, che rappresentano i due terzi della popolazione totale – e concedere il via libera al dossier parallelo, l’alleanza difensiva tra Riad e Washington e l’avvio di un programma nucleare saudita.

Alla ricerca di un compromesso, la svolta potrebbe giungere dalla fine dei combattimenti in Libano e nella Striscia e, soprattutto, dall’avanzamento dei colloqui su un cessate il fuoco tra Israele e Hamas che si tengono a Washington. Tuttavia, le roboanti dichiarazioni di Trump (5 febbraio 2025) sulla ricollocazione a tempo indeterminato dei gazawi in Egitto e Giordania e la gestione diretta della “nuova” Striscia sotto un condominio politico israelo-statunitense hanno già messo a dura prova i possibili avanzamenti su questo dossier, alimentando ancora una volta le distanze esistenti tra USA, Israele e Arabia Saudita.

 

Il dilemma del contenimento iraniano

Ma ponendo anche l’assunto che le parti interessate trovino un’intesa soddisfacente su Gaza, il prossimo nodo su cui ricadrebbero le divisioni sarebbe l’inestricabile dossier iraniano, con le sue molteplici ricadute regionali. Malgrado Stati Uniti e Israele abbiano mostrato pari preoccupazioni nei confronti della politica di Teheran, in tutti questi anni le maggiori differenze tra le parti sono ricadute sulle modalità di approccio alla questione. Infatti, se l’obiettivo di fondo degli USA rimane il blocco permanente del programma nucleare iraniano, il fronte più duro della nuova amministrazione sembra più sensibile a spingersi fino all’opzione di rovesciare il regime di Teheran, un tema più volte proposto da Netanyahu e dalle numerose lobby filo-israeliane presenti a Washington, e accarezzato dallo stesso Trump durante il suo primo mandato.

In quest’ottica, le promesse della Casa Bianca di imporre nuove sanzioni “dure” e “punitive” contro la Repubblica Islamica potrebbero non accontentare Tel Aviv, che spinge per l’adozione di azioni militari combinate israelo-statunitensi dirette contro il territorio iraniano. Tuttavia, è sempre bene ricordare che Tel Aviv non dispone delle capacità militari per colpire unilateralmente e in maniera efficace il programma nucleare iraniano, nonostante le pretese di Netanyahu. Inoltre, Trump, già durante il suo primo mandato (2017-2021), aveva manifestato tutta la sua contrarietà personale alla  soluzione boots on the ground.

Ciononostante, la nuova amministrazione non disprezzerebbe opzioni alternative, come azioni più limitate e finalizzate a colpire i siti del programma nucleare iraniano e/o gli esponenti della Forza Quds nel Paese e in Medio Oriente. Infatti, dopo le rappresaglie incrociate dell’aprile e dell’ottobre 2024, Netanyahu ha ricercato sovente con l’amministrazione Biden la pista militarista, la quale, però, ha sempre trovato resistenze (anche interne a Israele)[4], motivando tale rigetto come un problema assoluto per l’instabilità mediorientale.

La portata dei missili iraniani sul Medio Oriente

 

L’Iran come parte integrante del quadro del Golfo

Sebbene Teheran abbia attraversato un 2024 a dir poco complesso, aggravato dalla perdurante crisi socio-economica domestica, dalla morte il 19 maggio 2024 in un incidente in elicottero del suo presidente e del ministro degli Esteri (rispettivamente Ebrahim Raisi e Hossein Amir-Abdollahian) e dall’indebolimento dei suoi proxy dell’Asse di Resistenza, la Repubblica Islamica è sì stata resa vulnerabile, ma non piegata dagli eventi. Il Paese conserva ancora significative opzioni di deterrenza a suo vantaggio, riconducibili alle note competenze nucleari acquisite, ma anche alle capacità militari (droni e missili) offerte ai partner internazionali (come avvenuto con la Russia sul fronte ucraino).

Il regime iraniano avrebbe ancora l’opportunità di colpire duramente e far valere tutto il suo peso specifico politico-militare contro obiettivi mediorientali israeliani, occidentali e arabi, in loco o fuori dall’Asia. Ad essere oggetto di un’azione militare sarebbero in primis le installazioni militari statunitensi e arabe nel Golfo, elevando il grado di minaccia finanche contro le facilities economico-energetico-commerciali. Un’azione totale che potrebbe portare instabilità in un quadrante talmente ampio che si estenderebbe dalle coste del Levante fino all’Oceano Indiano Occidentale. In questo caso, secondo la prospettiva iraniana, potrebbero divenire obiettivi legittimi anche il naviglio occidentale da affondare nel Mar Rosso così come nello Stretto di Hormuz, con le ovvie conseguenze sull’intera economia globale.

Non è detto comunque che gli stessi attori arabi del Golfo siano disposti a sacrificarsi in nome dei piani israelo-statunitensi. Ecco perché in questa dinamica è verosimile pensare che le cancellerie arabe tra Riad, Abu Dhabi e Doha siano oggi più che mai disposte a impedire tale sviluppo che manderebbe in malora un biennio di tentativi di ricomposizione delle relazioni strategiche con l’Iran, contribuendo, forse, a amplificare nuovamente le tensioni mai del tutto appianate all’interno del Consiglio di Cooperazione del Golfo. Pur non essendo un monolite e avendo ognuna posizioni diverse nei confronti di Teheran, le monarchie arabe non vogliono mettere a repentaglio la propria sicurezza nazionale, specie dopo aver saggiato alcuni aspetti critici dell’ampliamento della guerra a Gaza nel Mar Rosso e in Yemen.

 

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In questa prospettiva è facile immaginare che gli attori arabi del Golfo continueranno a proteggere le loro relazioni con l’Iran e a spingere per una de-escalation regionale che, in caso contrario, avrebbe ricadute negative sull’economia mondiale e sugli elefantiaci processi di diversificazione energetica da loro promossi. Il tutto perseguendo una certa neutralità tattica utile a far intendere tanto a Washington quanto a Tel Aviv quanto la partita che si rischia di dover giocare in Medio Oriente e nel Golfo Persico è estremamente incerta e pericolosa.

Data la pressione a cui sono sottoposti, gli iraniani potrebbero essere aperti ai negoziati con gli USA, lasciando un qualche margine di manovra alla diplomazia. Da parte loro, gli Stati Uniti con Trump hanno espresso la loro intenzione di voler giungere ad un nuovo accordo con l’Iran, ma devono resistere alle pressioni israeliane per attaccare Teheran, il che molto probabilmente trascinerebbe gli Stati Uniti e la regione in una guerra più ampia e in un ulteriore caos.

 

 


Note:

[1] Emblematico in tal senso è l’intesa tra Riad e Teheran mediata dalla Cina del marzo 2023.

[2] Tale triangolazione comprende un accordo di normalizzazione delle relazioni tra Arabia Saudita e Israele, un nuovo memorandum decennale di assistenza militare tra Washington e Tel Aviv, nonché la finalizzazione del patto di mutua assistenza di difesa tra Casa Bianca e Riad – dietro via libera israeliano.

[3] Intitolato “Peace to Prosperity: A Vision to Improve the Lives of the Palestinian and Israeli People” è anche conosciuto come “Accordo del Secolo”. È un piano dettagliato promosso dall’amministrazione Trump per definire una coesistenza tra israeliani e palestinesi mettendo così fine all’atavica questione israelo-palestinese. Per maggiori dettagli, si veda: https://www.whitehouse.gov/wp-content/uploads/2020/01/Peace-to-Prosperity-0120.pdf.

[4] Da tempo i vertici militari israeliani hanno lamentato la loro contrarietà ad azioni estemporanee e non risolutive promosse dal governo, specie se avvengono in contemporanea ad altre iniziative in corso. Secondo le Israeli Defense Forces, Tel Aviv non avrebbe le forze sufficienti per reggere il fronte libanese e gazawi se si decidesse di attaccare anche all’Iran. Il tutto senza tener conto delle difficoltà logistiche, strategiche e operative legate ad obiettivi geograficamente lontani da colpire (distanti oltre 2000 chilometri).