international analysis and commentary

Immigrazione e terrorismo: la minaccia dell'”altro” nelle primarie repubblicane

1,057

Il New Hampshire si trova a oltre 3000 chilometri dalla frontiera con il Messico, è uno dei degli stati dell’Unione con la più alta percentuale di bianchi (oltre il 90% della popolazione) e con il minore tasso di immigrati. L’ipotesi di una riforma complessiva della legislazione sull’immigrazione è stata estromessa da tempo dall’agenda politica americana grazie al fuoco di sbarramento della maggioranza repubblicana alla Camera dei Rappresentanti. Eppure i primi dati disaggregati sulla netta affermazione di Donald Trump nelle primarie repubblicane del New Hampshire sottolineano quanto le posizioni estreme del miliardario newyorkese su questo tema abbiano inciso sul suo successo, netto quanto annunciato.

Il 41% di coloro che hanno partecipato alle primarie di questo piccolo stato del Nord Est si è detto favorevole al rimpatrio forzato degli immigrati irregolari (negli Stati Uniti sono più di 10 milioni): di questi, il 50% ha votato Trump. La percentuale dei favorevoli sale al 64% quando si tratta di impedire per un periodo indefinito l’ingresso negli Stati Uniti agli immigrati di fede musulmana; il 44% di questi è un elettore di Trump, colui che aveva avanzato la proposta a inizio dicembre dopo gli attentati di Parigi e la strage di San Bernardino in California.

La carta della sovrapposizione tra la paura dell’altro (l’immigrato non bianco né cristiano) e la minaccia terroristica (esterna e islamista) è stata giocata dal frontrunner repubblicano con un’abilità pari alla spregiudicatezza, come mostra il suo primo spot elettorale di inizio gennaio. Trenta secondi in cui si sovrappongono immagini degli autori (musulmani) della strage di San Bernardino in California, in cui sono rimaste uccise 14 persone il 2 dicembre 2015, a quelle di folle che attraversano confini incustoditi, e in cui la promessa di “tagliare la testa” all’ISIS si intreccia con quella di costruire un muro lungo il confine meridionale degli Stati Uniti “a spese del Messico”. Parole e immagini di dubbia qualità (le scene di disperati in fuga nel deserto provengono in realtà dal Marocco, non dal Messico) ma di indubbia presa sull’elettorato del New Hampshire. La cui consistente fetta di classe operaia bianca è impaurita e spaventata, mai sedotta da Obama (nelle primarie democratiche del 2008 qui prevalse Hillary Clinton) e toccata solo marginalmente dalla ripresa economica dopo i duri colpi delle recessione. Questi elettori sono tradizionalmente allergici alle proposte e ai rappresentanti dell’establishment politico di entrambi i partiti e ora più che mai sensibili a sirene populiste e reazionarie.

Non a caso la carta giocata da Trump non è esattamente una novità in questo stato. Nelle elezioni di medio termine del 2014 Scott Brown, già senatore repubblicano del Massachusetts, sfiorò la vittoria a sorpresa contro la senatrice democratica uscente Jeanne Shaheen puntando tutto sulla linea dura contro la presunta minaccia esterna dell’immigrazione irregolare. Nella stessa tornata elettorale, la sovrapposizione tra immigrazione e sicurezza nazionale era affiorata anche altrove, ad esempio in Virginia dove l’influente Eric Cantor venne sconfitto alle primarie dal semi-sconosciuto alfiere del Tea Party David Brat.

Ora la crisi siriana e l’eventualità di un afflusso di profughi dal Medio Oriente hanno riproposto in modo prepotente nella campagna elettorale questa sovrapposizione tra paura degli immigrati e minacce dei terroristi. Lo scorso novembre la proposta invero modesta del presidente Obama di accogliere sul territorio nazionale diecimila rifugiati siriani nel corso del 2016 ha incontrato forti resistenze in Congresso e diffuse perplessità nell’opinione pubblica. A fine 2015, la Camera ha approvato a netta maggioranza, e con il voto favorevole di quasi 50 democratici, una legge che avrebbe condizionato l’ingresso di rifugiati provenienti da Siria e Iraq all’approvazione di ogni singola richiesta di asilo da parte dei vertici dell’FBI, dei servizi di intelligence e del Dipartimento della Homeland Security. A gennaio, dopo la minaccia di veto da parte della Casa Bianca, il Senato ha respinto la legge, che però nel frattempo si era guadagnata il consenso di più di 25 governatori tra cui Maggie Hassan, democratica del New Hampshire. A conferma di un sentimento diffuso, fotografato da un sondaggio Bloomberg dello scorso novembre. Secondo questo, il 53% degli intervistati era contrario al programma di accoglienza dei rifugiati siriani della Casa Bianca, solo il 28% era favorevole e l’11% auspicava una sua limitazione ai soli siriani di religione cristiana.

Questo tipo di politica della paura ha precedenti significativi nella storia degli Stati Uniti, come possono testimoniare tra gli altri gli americani di origine giapponese. Oltre 100.000 di essi furono internati in campi di prigionia negli Stati Uniti per ordine del Presidente Franklin Delano Roosevelt nel 1941, dopo l’attacco contro Pearl Harbor. Il suo ritorno in tempi di pace, per quanto segnati dalla pervasività della minaccia terroristica e dall’incubo di un nuovo 11 settembre, suggerisce alcune considerazioni sullo stato attuale del GOP. In primo luogo, l’idea che i candidati dell’establishment repubblicano, attestati su posizioni mainstream, non condividano davverol’estremismo di Donald Trump è abbastanza infondata. Sull’onda emotiva degli attacchi di Parigi, il nesso tra immigrazione e terrorismo era stato evocato più o meno esplicitamente anche da candidati tutt’altro che estremisti, come il governatore del New Jersey Chris Christie, il governatore della Louisiana Bobby Jindal e il senatore del Kentucky Rand Paul. La formulazione di Trump sembra essere semplicemente quella più diretta ed efficace.

Analogamente le volgarità, non prive di spunti razzisti, nei confronti della comunità ispanica, con cui Trump fin dall’estate scorsa ha scelto di illustrare la propria linea dura in tema di immigrazione, segnano una discontinuità solo apparente con l’invito alla “autoespulsione” (self-deportation) proveniente dal candidato alla presidenza Mitt Romney esattamente quattro anni fa. Presto scopriremo se il bilancio tra costi e benefici politici di una tale campagna sarà per il primo così negativo come era stato per il secondo. Ci vorrà invece più tempo per verificare se, come ha affermato lo storico della Georgetown University Michael Kazin, questa deriva repubblicana verso posizioni nativiste e restrizioniste in tema di immigrazione finirà per consegnare ai democratici una solida maggioranza nell’elettorato sempre più multiculturale dei prossimi decenni.

Nel frattempo questa evocazione dell’immigrato/rifugiato musulmano come nemico interno, della minaccia da parte di una quinta colonna islamista, ha ottenuto almeno un obiettivo. Quello di nascondere la contraddizione tra gli appelli al ritorno a una politica estera muscolare e interventista in Medio Oriente, in particolare in funzione anti-ISIS, che risuonano nelle primarie GOP, e la riluttanza di ampi settori dell’opinione pubblica americana a sostenerne i costi umani e finanziari.