Immaginare il dopoguerra, dopo una corsa a ostacoli
La lotta contro il virus che ha causato la pandemia è stata spesso assimilata a una guerra. L’analogia è seducente, ma non molto utile a capire quanto sta accadendo nel tentativo di mettere sotto controllo l’epidemia. Il problema è che le guerre si combattono tra collettività fatte di esseri senzienti con obiettivi strategici, e questo non è il caso di un virus (nostro attuale nemico); inoltre, i “dopoguerra” sono basati sui rapporti di forza tra vincitori e vinti dopo il loro scontro violento, e anche questo non si può applicare a una pandemia. In realtà, gli Stati (i loro governi, le loro forze armate, le loro organizzazioni di protezione civile, i loro cittadini) non stanno combattendo gli uni contro gli altri.
Se la metafora di una guerra è allora fuorviante, come possiamo interpretare lo sforzo in atto per fermare la diffusione di Covid-19? Probabilmente come una corsa a ostacoli, una corsa campestre di mezzofondo in cui è necessaria resistenza alla fatica, una tattica intelligente, ma anche la capacità di sprintare. I partecipanti cercano di arrivare prima possibile al traguardo, e dunque competono certamente tra loro, ma non in un contesto “a somma zero”. Per il primo che giungerà all’arrivo non c’è neppure, nel caso reale della pandemia, alcuna garanzia di un premio – al più, la speranza di limitare i danni e utilizzare meglio le proprie risorse per altri scopi.
Proviamo dunque ad applicare questa analogia agli eventi recenti per capire in che direzione potrebbe muoversi il sistema internazionale. Anzitutto, gli Stati Uniti sono ad oggi la maggiore potenza globale eppure hanno mostrato una grave carenza di capacità sanitarie, e più ampiamente organizzative. Il rapporto tra governo federale – in parte a causa del metodo adottato dal Presidente Trump – e singoli Stati è risultato piuttosto inefficiente; intanto, Washington ha rinunciato a qualsiasi ruolo di leadership internazionale (ricordiamo ad esempio il G20 all’epoca della crisi finanziaria del 2008?), annunciando anzi la sospensione del suo sostegno finanziario al maggiore organismo di coordinamento nel campo della salute (l’Organizzazione Mondiale della Sanità).
Si potrebbe allora dire che, mentre corrono con fatica, gli Stati Uniti hanno criticato chi fissa alcune delle regole della competizione, oltre ad aver apertamente accusato un altro partecipante – la Cina, naturalmente – di aver barato. Trump ha cercato apertamente di creare una narrativa bellica – quella del War President – puntando il dito contro nemici a volte immaginari, con scarsi risultati: i suoi cittadini temono il virus e gli effetti economici del lockdown molto più di quanto abbiano in odio i cinesi o in antipatia gli europei.
Ricordando certamente anche di essere candidato alla rielezione in novembre, il Presidente ha allora rivolto le sue accuse ai media, ai Democratici, ai Governatori e ai sindaci, oltre che (come sempre ha fatto in passato) ai suoi stessi collaboratori più stretti, in questo caso soprattutto il “medico in capo” Anthony Fauci. Tutto ciò non ha certo aumentato il ritmo della corsa americana verso il traguardo agognato.
Veniamo così alla Cina, epicentro iniziale del contagio a quanto è dato sapere, che è dunque partita prima degli altri ma ne ha anche sofferto le conseguenze, non avendo informazioni precise sul virus e dovendo sperimentare quasi alla cieca le contromisure. Pechino ha ovviamente sfruttato i suoi punti di forza autocratici nel controllo della popolazione e del territorio, ma ha pagato il prezzo di un debole sistema di welfare e del tentativo maldestro di censurare i propri medici nelle prime fasi. In ogni caso, è possibile che patisca più di altri i danni causati dai vari lockdown alle filiere produttive mondiali.
Come la Cina, che rientra ormai in una categoria a sé per il grado di integrazione con le catene del valore anche in settori ad alta tecnologia, le cosiddette economie emergenti saranno probabilmente più colpite di altri in termini economici, vista la dipendenza dall’export. Lo stesso può dirsi dei produttori di risorse energetiche, almeno nel breve e medio periodo – in tal senso, sorvegliata speciale dovrebbe essere la Russia, che rischia un collasso pericoloso per tutti.
Il continente africano pone una sfida ancor più grande che in passato soprattutto per l’Europa: c’è da sperare che la struttura demografica limiti in parte gli effetti di Covid-19, ma esiste il potenziale per una lunga scia epidemica che inevitabilmente porterà nuovamente il virus, in piccole ondate, verso il nostro continente.
Infine, l’Europa stessa, che sta correndo la sua corsa con il vantaggio di una grande capacità scientifica e tecnologica, ma anche con il fardello di un processo decisionale lento e incerto che rende difficile integrare le competenze e le lezioni acquisite. E’ stato intanto fondamentale l’intervento della BCE, almeno come prima misura economica, e restano da valutare gli strumenti che saranno messi in campo nei prossimi mesi per contrastare una recessione senza precedenti.
E’ bene comunque ricordare che, proprio come nella più ampia corsa a ostacoli che tutti stanno affrontando, anche all’interno della UE non c’è alcun “gioco a somma zero”: i Paesi membri collaborano e competono (soprattutto in campo economico) simultaneamente. Non ci sono in atto complotti o guerre fratricide, ma semplicemente uno sforzo di ciascuno in vista del traguardo. In questa ottica, l’idea della solidarietà europea e quella del “fare da soli” non sono affatto poli opposti, ma fattori da combinare: non si può pretendere che il compagno di corsa europeo aspetti se qualcuno rimane indietro o fa errori – quantomeno non a costo di rinunciare al traguardo, nella concitazione della corsa. Forse è anche opportuno tenere a mente che la solidarietà non è mai senza condizioni, perché alcune regole di convivenza vanno sempre rispettate. E chi ha contratto molti debiti in passato può raramente approfittare della confusione per farseli cancellare.
Una corsa come questa, dolorosa ed estenuante, può rendere tutti un po’ più umili, e magari disposti a imparare dai propri errori, tanto recenti quanto antichi. Vale per l’Italia, come per la Germania. Vale per chiunque stia cercando oggi di scorgere il traguardo in lontananza.