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Il volto di Johnson e la Global Britain

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Per capire Donald Trump, dicevano gli amici americani nel 2016, bisogna leggere il suo libro: “The art of the deal”. Per capire Johnson, dicono oggi gli amici inglesi, bisogna leggere invece il libro che Boris ha scritto nel 2014: “The Churchill Factor: How One Man Made History”. Un ego smisurato accomuna i due leader del mondo anglosassone. Ma prevale la differenza: Boris Johnson non si ispira certo alle transazioni di business, si richiama alla storia di una potenza ex-imperiale e al suo ultimo eroe, Winston Churchill. Che vuole in qualche modo emulare conducendo Britannia là dove la collocava Churchill: “We are with Europe but not of it”, con l’Europa ma non in Europa.

La difficoltà è che guardare al passato non servirà a costruire il futuro di un paese che rischia, con la secessione volontaria dall’UE, di perdere influenza invece di riacquistarla. L’obiettivo di Boris Johnson è dare vita a una Gran Bretagna globale, non insulare. Per riuscire, dovrà rendere compatibili una relazione forte con Washington, un nuovo accordo commerciale con l’UE, che è di gran lunga il mercato decisivo per beni e servizi, e l’apertura alle grandi economie asiatiche. Negli anni di forte espansione del commercio globale, sarebbe stato più facile; oggi, con le tensioni esistenti fra Stati Uniti, Cina ed Europa è meno semplice di quanto sembri.

Vediamo con qualche dettaglio. Trump considera Johnson un suo alleato sul piano ideologico: entrambi si dicono a capo di “governi del popolo”, declinazione contemporanea delle democrazie anglosassoni e di una parte di quelle europee. Trump ha tifato Brexit fin dall’inizio. Per nulla scosso dall’avvio dell’impeachment (che si arresterà al Senato), il presidente americano legge nel successo elettorale di Johnson l’anticipo della propria rielezione nel 2020. Freddo e scortese con l’ex premier Theresa May, accusata di debolezza verso Bruxelles, Trump ha invece promesso a Johnson mari e monti, a cominciare da un accordo commerciale senza precedenti e paragoni.

In realtà, Trump non vorrà rinunciare a vantaggi specifici per l’America in campo agricolo e nei servizi sanitari; cosa che complicherebbe la vita di Boris nelle trattative commerciali con l’UE. Ugualmente, Trump chiederà a Johnson di rompere con la Cina sul 5G (Londra, come altre capitali europee, sta cercando di barcamenarsi su Huawei). L’intesa commerciale parziale fra Washington e Pechino sembra soprattutto una tregua, che non elimina la realtà di una specie di guerra fredda Usa-Cina, trainata dalla competizione tecnologica.

La Gran Bretagna sarà dunque chiamata a schierarsi. Se si aggiungono l’allergia per Trump nel pubblico inglese, il presuntuoso senso di superiorità di larga parte del mondo colto britannico rispetto all’America e le reali divergenze di interessi su una serie di dossier internazionali (per esempio, l’accordo nucleare con l’Iran), è difficile pensare che Londra possa costruire con Washington un’anglosfera esclusiva. Anche perché lo squilibrio di potenza fra gli Stati Uniti e la Gran Bretagna è tale da rendere comunque “ineguale” la relazione bilaterale: una relazione speciale ma troppo sbilanciata per esserlo davvero. Per tutti questi motivi, la “Global Britain” di Johnson non può cominciare e finire a Washington. Come ha scritto Gideon Rachman sul Financial Times, la Gran Bretagna globale, più che fantasticare su un nuovo Commonwealth, potrebbe forse aderire alla Trans-Pacific Partnership (rigettata da Trump) e cooperare con alcuni paesi del G-20 (Giappone e Australia in particolare).

La prima partita commerciale, tuttavia, sarà con l’Europa e dovrà, nelle intenzioni di Johnson, essere rapida. Gli esperti di Trattati commerciali sanno bene che un accordo dettagliato e profondo richiederà anni; ma spiegano anche che definirne i contorni essenziali permetterebbe di chiudere il periodo di transizione (in cui nulla cambierà fra UK e UE) non troppo oltre la scadenza del 31 dicembre 2020 (che verrà approvata dal Parlamento britannico).

L’Europa vuole soprattutto garantirsi che la Gran Bretagna non diventi una sorta di mega paradiso fiscale, una Singapore sul Tamigi. Tentazioni del genere esistono, evidentemente; ma la realtà è che Londra ha molti più interessi in gioco nel mercato europeo. E quindi un accordo lo cercherà. Lo stesso, a parti rovesciate, vale per la sicurezza: l’Europa deve riuscire a tenere ancorata una delle due principali potenze militari del vecchio continente. Questo avverrà principalmente con la NATO ma richiede anche idee nuove, come ad esempio la creazione di un “consiglio di sicurezza europeo” con la partecipazione di Londra, che ha nel frattempo aderito alla Forza di reazione rapida creata dalla Francia. Per l’Italia, che ha tradizionalmente fatto leva sulla Gran Bretagna per bilanciare l’Europa a guida franco-tedesca, restare nel gioco è essenziale.

Fra attuazione dell’accordo sul ritiro e trattative sulla relazione futura, il processo messo in moto da Brexit dimostrerà paradossalmente quanto la Gran Bretagna rimanga una potenza europea. Boris Johnson proverà a tradurre nella realtà la celebre frase di Churchill, adattandola alle condizioni di oggi. La sua agenda sarà necessariamente “UK-first”: salvaguardare l’unità del Regno Unito, evitando che la Brexit inglese conduca – dopo la vittoria dei nazionalisti in Scozia – alla disgregazione della Gran Bretagna.

E il primo ministro dovrà decidere come gestire, con quale politica economica e sociale, il clamoroso successo dei Tory quale “one nation party”, in grado ormai di dominare anche il Nord e le Midlands (post) industriali. Che tipo di conservatorismo sarà, fra liberismo dell’origine, promesse di spesa sociale e di grandi investimenti nelle infrastrutture? Il volto vero di Boris Johnson, accusato da amici e avversari di spregiudicatezza estrema, sarà finalmente disvelato. La nostalgia del passato servirà a poco; conterà solo la prova del presente.

 

 


*Articolo apparso su La Stampa del 18 dicembre 2019