international analysis and commentary

Il virus degli imperi

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La storia fa il suo giro di giostra, ancora una volta. Nel 2018 l’Italia è il primo paese del G7 a sottoscrivere un accordo strategico nel piano di espansione cinese della Nuova Via della Seta. All’inizio del 2020 l’Italia diventa il paese occidentale più colpito dal nuovo coronavirus. Il destino gioca a dadi, la Cina è scambio, opportunità, frontiera, sviluppo, crisi, un soggetto contagioso.

L’epidemia di oggi è un memento che sbuca dalle cronache di ieri. È un calembour di date, situazioni, pittogrammi e caratteri latini. Siamo nell’immenso dominio della Storia.

Roma nel 400 DC era una magnifica metropoli di circa 700.000 abitanti. Kyle Harper nelle pagine di The fate of Rome descrive questo gioiello in poche righe di grande efficacia: “Roma possedeva 28 biblioteche, 19 acquedotti, 2 circhi, 37 porte, 423 sobborghi, 46602 palazzi, 1790 case di grandi dimensioni, 290 granai, 856 stabilimenti termali, 1352 cisterne, 254 panifici, 46 bordelli e 144 latrine pubbliche. La città era sotto ogni aspetto un luogo straordinario”.

Ma l’era glaciale e la peste contribuirono al crollo dell’Impero Romano. L’agenda politica contemporanea è quella che ha sconvolto la storia della civiltà ieri: cambiamento climatico ed epidemia.

La caduta dell’Impero Romano, di Thomas Cole

 

L’IMPERO AMERICANO. A fine febbraio l’indice S&P 500 ha vissuto la peggiore settimana dal 2008. Non è la fine del mondo. La Borsa è entrata in una zona di correzione che da tempo bussava alla porta per sgonfiare la bolla. Il coronavirus è l’occasione perfetta per farlo senza spedire nessuno sul banco dei colpevoli, neanche la Cina. Nessuno spegne la luce quando tutti ballano, la Borsa va, perché devo fare il guastafeste? Il male invisibile è il capro espiatorio perfetto per terminare l’euforia irrazionale, solleva i governi, le banche centrali, i fondi di investimento, le istituzioni di vigilanza, dal problema di chi deve fermare la festa, almeno per un po’. Pausa, ricarica della batteria, poi tornerà tutto come prima, Wall Street macinerà tutti i record e vai, sarà ancora Bonanza.

Non abbiamo un lungo inverno alle porte. Le precedenti pandemie hanno frenato la corsa dei listini per qualche trimestre, poi la corsa è ripartita. Il vero tema nuovo in campo è la corsa alla Casa Bianca che improvvisamente vede comparire un nuovo giocatore, un imprevisto: il coronavirus. Paralleli, cose che rimbalzano nella memoria, carambole della storia. Nel 2008 Barack Obama vinse la corsa presidenziale grazie alla crisi dei mutui subprime, un virus finanziario. Quando crollò Lehman Brothers, il movimento obamiano prese il sopravvento, dominò la scena e lanciò Obama verso la vittoria.

Dodici anni dopo, sulla scena si presenta il coronavirus che ha anche le sembianze di un virus finanziario. Si corre per America 2020. Chi potrebbe favorire il coronavirus? Il vecchio leone socialista, Sanders? O darà un argomento importante per la campagna presidenziale a Donald Trump? E cosa ne sarà di Mike Bloomberg alle prese con un triplo fronte: Wall Street (è il 12° uomo più ricco del mondo), il coronavirus (che sta oscurando la sua campagna mediatica da 1 miliardo di dollari), il conflitto d’interessi (Bloomberg editore che deve raccontare il Bloomberg candidato, e non lo fa). Il virus può indebolire Trump, ma di sicuro non rafforza Bloomberg. L’America continuerà a essere sogno e incubo, l’aquila che stringe nell’artiglio destro il ramo d’olivo e in quello sinistro tredici frecce.

 

L’ASPIRANTE IMPERO CINESE. La Cina deve ritornare alla produzione, il più grande esperimento sociale della Terra deve aprire le fabbriche e farle andare a pieno regime. Mai come in queste settimane Xi Jinping era stato così in difficoltà. L’uomo che può restare al potere finché vuole, l’imperatore del terzo millennio con il suo nome scritto nella Costituzione del partito, il più potente tra i potenti, si è ritrovato anch’egli di fronte ai dejà vu della Storia. Un ricordo che fa cigolare le porte di tutti i palazzi. Luoghi, imperi, nomi, date. Un gioco di fumo e specchi che sa di trama orientale, di tazze da the ornate di draghi fiammeggianti. Nel 1911, a Wuhan, partì la rivoluzione che fece cadere la dinastia imperiale Qing che dominava la Cina da quattro secoli. La rivolta di Wuchang, nella provincia di Hubei, fu come un virus, rapida e letale. Tre mesi dopo, la Rivoluzione cinese rovesciò i sovrani Manciù e nacque la Repubblica della Cina.

Xi Jinping ha sentito vacillare i pilastri del suo palazzo.

La Cina sta forse uscendo dalla giostra del contagio (i dati non sono affatto certi), ma resta dentro la distopia del totalitarismo che ha mostrato il suo volto: una dimensione opaca, con il governo che sapeva della gravità della situazione dalla fine di dicembre, Xi Jinping che ne parla al Politburo il 7 gennaio e ordina l’isolamento di Wuhan solo il 23 gennaio, uno spazio di 16 giorni in cui 5 milioni di cittadini di Wuhan sono usciti dalla metropoli per il capodanno cinese.

Un sistema di potere che ha oscurato le prime preziose informazioni, esposto i medici al contagio, perseguitato coloro che per primi avevano identificato la presenza di un virus sconosciuto. Ancora oggi non conosciamo l’origine del nuovo coronavirus. Xi è salvo, il Partito è più forte di prima, chi ha sbagliato è stato epurato. La prova più dura era quella del Celeste Impero, non è caduto, non cadrà e non si vede dunque per quale ragione il coronavirus dovrebbe essere un problema vitale per l’Occidente.

 

L’IMPERO EUROPEO CHE NON C’E’. Il soggetto che finora è apparso più debole è l’Europa. Prima di tutto l’Italia, paese di straordinario talento, ma privo di un sistema, di un metodo di governo, che ha mostrato il falò delle vanità della sua classe dirigente (politica e non solo), la mancanza di coesione territoriale, il cortocircuito tra Stato e Regioni, perfino una surreale battaglia tra virologi.

Pensando di essere i più bravi – e non avendo metodo – abbiamo bloccato i voli diretti da e per la Cina, incoraggiando l’uso dei voli indiretti (così gli agenti di trasporto del virus sono spariti dal radar e sono entrati indisturbati nel nostro paese); abbiamo alimentato un conflitto permanente tra istituzioni locali e nazionali; abbiamo messo metà dell’export italiano (Veneto e Lombardia) in una situazione di blocco di fatto; abbiamo dato dell’Italia l’immagine dell’untore mondiale dopo aver fatto lanciato una compulsiva campagna di test senza bussola; abbiamo chiuso i bar dopo le 18 (perché prima il virus che fa? dorme?); abbiamo stabilito che a 2 metri di distanza il magistrato in tribunale non è contagioso. Cose memorabili. E con tutta questa fantasia rigorista, siamo diventati il cavallo di troia del virus in Occidente.

Se l’Italia piange l’Europa non ride. Nessuna politica comune, una dichiarazione di principio di frontiere aperte tra le nazioni, poi smentita dai fatti, dai consigli dei governi, la calda raccomandazione data ai cittadini (vedere alla voce Francia) di non visitare l’Italia. Ha prevalso la ragion di Stato (quella di Berlino, di Parigi, di Madrid) non quella dell’Unione. Si è scaricata perfidamente sull’Italia l’immagine di essere il veicolo del contagio. In questa vicenda si è visto anche il preludio del film inglese, il significato reale della Brexit.

L’isola d’Inghilterra, protetta dal mare, inespugnabile, con le bianche scogliere di Dover che guardano l’Europa, è tornata alla dimensione del titolo del Times di Londra: “La Manica è in tempesta, il continente è isolato”. Boris Johnson riunisce il comitato Cobra per discutere le misure dell’emergenza, ma l’Europa con le sue regole, il bon ton, la cipria delle procedure brussellesi, è un ricordo. La Gran Bretagna è libera (per la geografia) e liberata (per la Brexit).

Il paziente zero non c’è più, s’è dileguato, invisibile come il virus. Non occorre più cercarlo, perché l’Occidente è infetto, prima o poi avremo anticorpi diffusi, un’immunità di gregge, arriverà anche il vaccino, nei tempi che la scienza richiede. No, il coronavirus non ci farà fare la fine dei dinosauri, sappiamo di dare un dispiacere ai catastrofisti e ne siamo lieti. Combatteremo la malattia, alcuni moriranno, la maggior parte guarirà. È la sceneggiatura dell’avventura dell’uomo, un’impresa straordinaria nel ciclo ordinario della vita.

Abbiamo perso il senso delle dimensioni delle nostre sfide. La sola Seconda guerra mondiale causò 55 milioni di morti. La catastrofe, i numeri che nessuno ricorda, i sacrifici e le grandi imprese dimenticate. Oltre trecentomila soldati inglesi e francesi intrappolati a Dunkerque, destinati a morte certa, sotto le mitragliatrici e le bombe dei tedeschi. Winston Churchill inventò l’Operazione Dynamo, furono salvati con una delle missioni più spettacolari e spericolate della storia. Sì, siamo ottimisti, perché abbiamo visto ben altri mostri agitarsi nel teatro dove ballano la vita e la morte.