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Il verdetto per Dilma Rousseff e la crisi lunga del Brasile

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Dal 31 agosto Dilma Rousseff non è più la presidente del Brasile. A deciderlo, dopo oltre 10 mesi di un serrato contradditorio politico che ha paralizzato il Paese è stato, come previsto dalla costituzione, il Senato – sotto l’egida del presidente del Tribunale Supremo (STF) Ricardo Lewandowski. Con una votazione storica (61 voti favorevoli e 20 contrari), il Senato ha deciso per l’impeachment della prima presidente donna. La sostituirà alla guida politica del Brasile il suo ex vice, Michel Temer.

Secondo gli osservatori meno attenti alle dinamiche sociali, politiche, giudiziarie ed economiche del Brasile, il paese avrebbe così trovato un’uscita costituzionale da una devastante crisi generale – il pil è crollato dell’8,2% negli ultimi 2 anni e tre mesi, recessione che ha un solo precedente nel biennio 1900-1901. Dopo la vittoria dell’autunno del 2014, infatti, Rousseff non disponeva più degli oltre due terzi dei seggi in Parlamento, conseguiti nelle urne, necessari per approvare qualsiasi legge di riforma. Ma neppure disponeva, come dimostrato in Senato (la Camera si era espressa già in primavera) di “un terzo più uno” dei voti che le avrebbe garantito di conservare la presidenza.

Il condizionale sulla fine della crisi è comunque d’obbligo. Ciò non tanto per le accuse ridicole di golpe che arrivano da Cuba, Venezuela, dai compagni di partito di Dilma e dagli analisti allineati ai modelli del socialismo bolivariano. No, il vero busillis dell’impeachment è dovuto alla stranissima doppia votazione che, se da un lato ha condannato Rousseff per crimini di responsabilità fiscale costringendola a lasciare la presidenza (per la Corte dei Conti avrebbe falsificato i bilanci dello Stato per 106 miliardi di reais, circa 30 miliardi di euro), dall’altra non l’ha interdetta dai pubblici uffici per 8 anni, come invece prevede la costituzione (art. 52).

La richiesta di dividere in due il quesito, fatta dal PT, il partito di Rousseff e del suo fondatore Lula da Silva di concerto con il PMDB di Temer ed altri alleati, è stata infatti accolta dal già citato Lewandowski, che dal prossimo 12 di settembre se ne andrà in pensione. Questa strana “divisione” stupisce certamente gli osservatori internazionali – subito dopo il voto, l’ambasciatore britannico a Brasilia chiedeva lumi su Twitter su come spiegare a Londra che Rousseff è stata allontanata dalla presidenza per crimini gravi ma, dall’altro, può ricandidarsi quando vuole, anche alle prossime presidenziali. Ma non stupisce affatto che molti senatori abbiano votato a favore di Dilma sull’interdizione per 8 anni dai pubblici uffici.

Oltre il 60% degli 81 senatori e dei 513 deputati brasiliani sono infatti alle prese con processi penali – riciclaggio, corruzione attiva e passiva, furto, persino omicidio. Interpretare la procedura in maniera benevola, cioè in modo tale che l’allontanamento dai pubblici uffici debba sia essere autorizzato dal parlamento, qualsiasi sia il reato connesso, sia essere giudicato dal Tribunale Supremo sotto controllo politico, e non da un tribunale normale, conviene a una classe politica così compromessa. Ecco dunque spiegato l’esito favorevole a Dilma nella seconda votazione.

D’altronde “Lava Jato”, la “Mani Pulite” brasiliana, sta togliendo il sonno al gotha della fauna politica locale da oramai 2 anni e mezzo. Non stupiscono, in questo senso, accordi anche trasversali di “solidarietà”.

Dalle inchieste della magistratura brasiliana emerge che Eduardo Cunha – importante membro del PMDB di Temer, ex presidente della Camera e sino al febbraio 2015 grande alleato di Rousseff – aveva almeno 4 conti milionari in Svizzera non dichiarati. E così, proprio mentre Dilma già 10 mesi fa veniva inchiodata dalla Corte dei Conti per i bilanci truccati (ribattezzati ciclisticamente dai brasiliani “pedalate”), Cunha s’inventava una storia degna di Zelig, ovvero che quei milioni sui suoi conti svizzeri erano frutto di investimenti africani nel settore della carne in scatola.

Già a quel punto – era la metà di ottobre dello scorso anno – tra PT (e governo) da un lato, e Cunha dall’altro, iniziava una trattativa sotterranea: tu, all’epoca ancora presidente della Camera blocchi la richiesta di impeachment contro Rousseff e noi del PT stoppiamo il Consiglio di Etica che ti vuole cassare il mandato.

Tutto bene sino a quando sono arrestati nell’ambito di Lava Jato due pezzi da novanta: l’amico di Lula, il consigliere rurale José Carlos Bumlai, e il capo del governo (e del PT) al Senato, Delcidio do Amaral. Passano pochi giorni e un figlio di Lula viene indagato per avere intascato da un lobbista (arrestato) milioni che gli inquirenti ritengono possano essere la “retribuzione” per una legge ad hoc che avvantaggia il settore auto. Lì il primo tentativo di accordo si rompe; improvvisamente, dopo due mesi di “letargo”, il segretario del PT, Rui Falcao, riscopre la furia moralizzatrice e annuncia che i suoi “scaricheranno” Cunha, aprendo un processo per farlo decadere da presidente della Camera per i conti svizzeri. Meno di 24 ore dopo, cade anche la seconda parte dell’accordo e Cunha accetta la procedura di impeachment contro Dilma.

Cunha, che nel frattempo non guida più la Camera, continua ad essere deputato, benché il suo mandato dovrebbe essere cassato tra una decina di giorni. Certo è che tanto lui come Temer ed il presidente del Senato, Renan Calheiros (tutti del PMDB) e molti altri di tutti i partiti, potrebbero beneficiare non poco della mancata inibizione dai pubblici uffici di Rousseff. Limitandoci ai due citati, infatti, Renan ha una decina di processi a suo carico ed è noto alle cronache per numerosi casi di corruzione, compreso il celeberrimo Renangate – le accuse riguardano tangenti ricevute da parte di lobbisti dell’edilizia. Di Temer, invece, corre voce sia il vero dominus, il controllore occulto del porto di Santos dal quale, secondo il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Nicola Gratteri, uscirebbe l’80% della cocaina che arriva ogni anno in Europa; anche il suo nome ha fatto capolino in Lava Jato.

Ma la divisione in due della votazione decisa da Lewandowski aggiunge un’altra incognita all’infinita crisi brasiliana: Dilma Rousseff ha appena fatto ricorso con i suoi avvocati al Tribunale Supremo per annullare il voto, protestando paradossalmente contro la procedura della doppia votazione. Un’ulteriore incertezza che fa capire come le dinamiche brasiliane siano non solo difficili da interpretare, ma anche che “la casta” che domina il paese non abbia nessuna voglia di mettersi da parte per voltare pagina.

Anche per questo, al di là di poche migliaia di studenti che ignorano questi retroscena, e un centinaio di black bloc pagati non si sa ancora bene da chi per creare il caos, in questi giorni in strada non c’erano i milioni degli scorsi anni che protestavano contro corruzione e mala gestione delle risorse pubbliche. I brasiliani possono essere poco politicizzati ma, di certo, non sono stupidi.