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Il Venerdì nero di Aung San Suu Kyi

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Tutto è cominciato a metà novembre, una settimana dopo la tornata delle legislative in agenda l’8 del mese. La mole di schede scrutinate attribuisce all’organizzazione di Aung San Suu Kyi e del presidente U Win Myint (la Lega nazionale per la democrazia) una vittoria così schiacciante da ridurre il maggior partito di opposizione – Union Solidarity and Development Party (USDP) di ispirazione militare – a un piccolo manipolo di parlamentari persi in un emiciclo di colore rosso, il colore della Lega nazionale per la democrazia.

Se già nel 2015 la Lady (che ha avuto la carica di “State Counsellor” creata ad hoc per lei) aveva vinto la maggioranza dei seggi nelle due Camere, questa volta la vittoria diventa persino umiliante per gli avversari. I militari birmani hanno comunque diritto per Costituzione a un quarto dei seggi che dunque non vengono eletti: sono pertanto in grado di opporre un veto alle riforme costituzionali (che richiedono il 75% dei voti dell’Assemblea), ma il margine diventa sempre più risicato: ai 920 seggi guadagnati dalla Lega nei vari rami del Parlamento, l’esercito – a parte gli scanni dovuti – può ora opporre solo 71 deputati. Uno schiaffo senza precedenti.

Uscito tanto malridotto dalle urne, il partito delle divise ha iniziato a presentare ricorsi su ricorsi che, alla fine, denunciavano circa 10 milioni di schede assegnate alla Lega in modo truffaldino: un terzo del corpo elettorale. I ricorsi vengono però rigettati dalla Commissione elettorale mentre gli osservatori internazionali, come l’americano Carter Center, bollano i rilievi come irrilevanti. Sembra il classico gioco delle parti cui abbiamo assistito un po’ ovunque e più o meno drammaticamente, a cominciare dagli Stati Uniti. Ma in realtà sta maturando un bubbone che sta per trasformarsi in un cancro. Esploso il 1° febbraio in un colpo di stato.

Aung San Suu Kyi

 

Tutto in realtà precipita la notte di giovedì 28 gennaio dopo l’incontro tra i delegati delle due fazioni: da una parte gli emissari di Aung San Suu Kyi, dall’altra quelli di Min Aung Hlaing, il comandante in capo di Tatmadaw – come l’esercito birmano viene chiamato – l’attuale uomo forte del Myanmar. La trattativa ufficiale riguarda la richiesta di Tatmadaw di sciogliere la Commissione elettorale e di cominciare un riconteggio del voto. Infine di convocare una sessione speciale del Parlamento uscente e di posporre l’insediamento del nuovo che avrebbe dovuto tenersi proprio lunedì 1° febbraio. Ma la Lega non accetta se non un breve rinvio dell’insediamento che viene rimandato a martedì 2.

Ma c’è altro: i militari chiedono anche la convocazione del Consiglio di sicurezza nazionale, organo che può decidere per esempio l’entrata in vigore della legge marziale. E vanno oltre: secondo fonti vicine alla Lega, si sarebbero spinti a chiedere per Hlaing il ruolo di presidente. Inaccettabile per la Lega cui spetta, con la maggioranza in parlamento, avere sia il presidente sia il premier. Quanto al Consiglio di sicurezza nazionale (dove la Lega è in minoranza), non se ne parla. Non è chiaro cosa abbia contato di più, ma la pillola diventa troppo amara.

Il giorno dopo la tensione è elevatissima. Vengono segnalati movimenti di truppa e vengono pubblicate, sui giornali o sui social, fotografie di carri armati e blindati all’aeroporto e a Nord di Yangon, la città più grande del paese, mentre l’autostrada che porta da lì a Naypyidaw (la nuova capitale, la “Brasilia” birmana creata nel 2005), vengono bloccate. E con loro anche i vecchi e nuovi parlamentari convenuti a Naypyidaw per il giorno dell’insediamento. Non possono lasciare le stanze dei propri alberghi.

La tensione si taglia col coltello tanto che venerdì 29 viene pubblicato un comunicato congiunto con cui tutte le ambasciate di peso nel Paese – dagli Stati Uniti al Canada, dalla Svezia alla UE – prendono posizione a favore del processo democratico. Un endorsement piuttosto inusuale se non fosse giustificato dalle voci che si sono diffuse dopo alcune dichiarazioni di Hlaing sul rispetto o meno della Costituzione. La Costituzione birmana è stata scritta dai militari per i militari, e prevede persino che l’esercito possa “costituzionalmente” sollevare un governo civile se esiste una minaccia alla sicurezza nazionale.

Militari bloccano le principali strade del Myanmar durante il colpo di stato

 

Quanto alle singole ambasciate, arrivano ai diversi connazionali gravi allerte dovute, scrivono i diplomatici, a  un “innalzamento della tensione sul piano interno”. Intanto, il 29 gennaio è soprattutto il giorno in cui la Corte Suprema deve dire se accetta o rigetta il ricorso contro la Commissione elettorale presentato dai militari sulla supposta truffa elettorale. Fonti locali dicono che la decisione è già presa e che il ricorso verrà rigettato ma alla fine i giudici prendono tempo e rinviano la sentenza. Un escamotage che non salva la situazione.

Nel weekend che segue il venerdì nero, una strana calma scende sul Paese. Qualcuno pensa che sia la dimostrazione che i militari hanno ceduto. Qualcun altro invece si preoccupa anche perché girano molte indiscrezioni: una dice che in un colloquio privato di un inviato di Pechino giorni prima con gli uomini dell’USDP, la Cina avrebbe in sostanza detto loro che il ricorso era ragionevole. Una luce verde indiretta ad agire, come il partito creda meglio. L’altro appiglio sicuro sarebbe la Russia di Vladimir Putin, che ultimamente ha aumentato i rapporti con Tatmadaw. In una parola due buoni avvocati difensori – come si vede in queste ore – al Consiglio di Sicurezza dell’ONU.  Le avvisaglie di una resa dei conti si avvicinano.

L’insieme delle avvisaglie diventa realtà alle 4 del mattino di lunedì 1° febbraio. Arresti di massa nelle case e poi nelle sedi della Lega. La Lady agli arresti domiciliari. E un piccolo giallo: le autorità della Lega invitano alla calma ma poi si diffonde un messaggio attribuito al Premio Nobel – ma che Suu Kyi, agli arresti, non può avere scritto – in cui si chiede al popolo di resistere. Ma come? Seguendo le indicazioni di chi? Con quali mezzi? Forse i dirigenti della Lega sono presi alla sprovvista e reagiscono in maniera divisa, senza una strategia.

Chi invece ha avuto due giorni pieni per prepararsi è Tatmadaw. Il comunicato diffuso lunedì per televisione spiega che potere legislativo, amministrativo e giudiziario vengono trasferiti al comandante in capo dei militari, il generale Min Aung Hlaing, fino a quando – dice ancora il comunicato delle Forze armate – non verranno intraprese azioni contro le irregolarità che gli uomini in divisa ritengono abbiano stravolto le elezioni di novembre. Ci vorrà, dice Tatmadaw, almeno un anno. Poi elezioni.

Ma intanto il cambio della guardia è rapidissimo. Non si sono ancora consumate 12 ore dal golpe che una dozzina di ministri e due dozzine di viceministri vengono sostituiti. E così nella periferia dello Stato, dove i governatori risponderebbero altrimenti alla Lega.

Da quel che si capisce, nonostante il coprifuoco e gli arresti, i militari sembrano volere un putsch molto soft. Un cambio al vertice “costituzionale” per garantire un ritorno eterodiretto alla democrazia. Una sorta di modello tailandese, con militari in doppiopetto garantiti da una Costituzione che blinda il parlamento e si appoggia sulle bocche dei cannoni. Rigido ma incruento. Contano su un popolo impaurito e su un partito, la Lega, disarmato e disorientato. Contano su decenni di dittatura la cui impronta terroristica non è stata ancora dimenticata. Sull’acquiescenza dei monaci. Su condanne internazionali che dureranno qualche giorno, forse anche con qualche sanzione. Ma sanno pure che la Cina è vicina, e lo è forse anche l’India, democrazia imperfetta guidata da un nazionalista indù. Sanno di poter contare su Mosca e sanno che i Paesi dell’area sono disposti a perdonare se viene garantita la stabilità. Ma il punto sta proprio qui. Tatmadaw potrà garantirla?

Sì, se si tratta di tenere a bada un popolo abituato al giogo delle divise mimetiche. No, se la periferia dovesse agitarsi. In questi anni Aung San Suu Kyi non ha solo avallato il pogrom contro la minoranza musulmana rohingya, che le è costato l’inimicizia dell’Occidente e anche malumori tra i vicini. Ma in questi anni ha anche contributo a far crescere il processo negoziale per fare del Myanmar una federazione di autonomie adesso troppo lontane dal centro e, soprattutto, armate: eserciti regionali che stanno facendo tacere le armi ma che sono la vera polveriera del Paese.

Una polveriera periferica che odia Tatmadaw, con cui si è scontrata per decenni, e che considera il fulcro di un centro identitario Bamar, la comunità dominante. Un piccolo incidente può scatenare l’inferno. Un inferno difficile da gestire anche per il generale Min Aung Hlaing.